Nel dibattito politico italiano è sempre più assodato il concetto per cui salvare i migranti è una posizione di sinistra. Ogni tweet o esternazione sull’argomento di Matteo Salvini scatena quotidianamente i suoi sostenitori nel bollare come “buonista” o “piddiota” chiunque si opponga alla politica dei porti chiusi voluta dal ministro dell’Interno. Un meccanismo che ricorda quanto già vissuto dal nostro Paese durante il ventennio fascista, quando era accusato di “pietismo” e di essere di sinistra chiunque provasse a difendere gli ebrei dalle persecuzioni. Anche all’epoca chi lottava in difesa dei diritti umani basilari era accusato di essere di sinistra, ma con il portafoglio bene a destra, e di proteggere in questo modo i presunti soprusi delle minoranze nei confronti dei connazionali. Seguendo questa logica l’Italia fascista degli anni Quaranta ha permesso le deportazioni degli ebrei italiani e quella sovranista di oggi assiste indifferente alle morti dei migranti nel Mediterraneo o a decisioni discriminatorie come quella che ha escluso decine di bambini dalle mense scolastiche di Lodi. Coloro che si oppongono a questa deriva vengono bollati come sinistroidi e antitaliani. Chi pensa che salvare vite umane sia “di sinistra” dovrebbe riflettere sulla storia di Dimitar Pesev, politico bulgaro che durante la seconda guerra mondiale salvò con un “no” la vita a quasi 50mila ebrei suoi connazionali. La sua storia è raccontata nel libro L’uomo che fermò Hitler, di Gabriele Nissim.
Nel 1943 la Bulgaria era guidata dal regime di Bogdan Filov e alleata della Germania nazista. La situazione del Paese aveva molti punti in comune con quella dell’Italia fascista: una dittatura sopportata come una medicina amara da preferire a una democrazia instabile e un re, Boris III, celebre per la sua indecisione e mancanza di carattere, tanto che si narra come, ogni qualvolta si trovasse a dover decidere su questione spinosa, sparisse con la scusa di “essere a caccia”. La stessa alleanza con i nazisti era stata dettata, come in parte anche per l’Italia fascista, più dall’opportunismo che da una sincera adesione ideologica da parte dell’establishment bulgaro e del suo popolo ai concetti del Mein Kampf. I bulgari avevano scelto di schierarsi con i tedeschi perché questi si presentavano come gli artefici di un nuovo ordine mondiale, che avrebbe restituito a Sofia i territori persi con la sconfitta nella prima guerra mondiale, come la Macedonia, la Dobrugia e la Tracia, dove le truppe bulgare entrarono senza incontrare resistenza nel 1941.
Per ingraziarsi l’alleato tedesco, il parlamento bulgaro promulgò il 19 novembre 1940 le sue leggi razziali contro gli ebrei, nonostante il sentimento antisemita fosse minoritario in un Paese dove gli ebrei erano perfettamente integrati da generazioni. Fra i politici che sostenevano l’alleanza con la Germania vi era Dimitar Pesev, vicepresidente del parlamento bulgaro, noncurante, almeno in un primo momento, della situazione degli ebrei suoi concittadini. Nato a Kjustendil nel 1894, Pesev era un avvocato di successo entrato a far parte nel 1935 del governo reazionario del primo ministro Georgi Kioseivanov. Come molti suoi connazionali Pesev sperava che il governo apartitico di Kioseivanov potesse mettere un freno alla corruzione dilagante nel Paese. Con questo spirito Pesev aveva accettato nel 1938 la nomina a vicepresidente della Duma, il parlamento bulgaro, sotto il governo Filov. Nel 1941, all’indomani delle concessioni territoriali fatte da Hitler alla Bulgaria, Pesev arrivò a dire che il Führer era il miglior statista del suo tempo.
La sua infatuazione per la politica hitleriana arrivò a non fargli dire neanche una parola contro le leggi razziali del 1940 durante la loro discussione e approvazione in parlamento, nonostante la famiglia di uno dei suoi miglior amici (Jako Baruch) fosse di origine semita. Solo due anni dopo Pesev aprì gli occhi e riuscì a farli aprire al suo Paese sul reale significato del nuovo ordine mondiale propagandato dal Terzo Reich. Il 7 marzo 1943 il suo vecchio amico Jako Baruch si precipitò da lui per comunicargli che anche la Bulgaria, in gran segreto, stava per consegnare i propri ebrei ai nazisti che li avrebbero deportati nei lager secondo i piani della “soluzione finale” ideata dal comandante delle Ss Heinrich Himmler. La decisione era stata fatta passare in sordina dal ministro dell’Interno Peter Grabovskiche, antisemita più per convenienza che per convinzione, puntava a mettere la popolazione e una parte dei suoi stessi colleghi di fronte al fatto compiuto, per vergogna e per il timore di una sollevazione popolare.
Non appena fu informato di una decisione del genere, Pesev si precipitò proprio da Grabovski, ottenendo la sospensione della deportazione e controllando personalmente, via telefono, che tutte le prefetture la rispettassero. Ma la vera battaglia avvenne nella Duma dove Pesev presentò una lettera, firmata da 42 deputati, per chiedere pubblicamente al governo di revocare la decisione. Il gesto gli costò la perdita della carica di vicepresidente del parlamento e gli attirò l’odio da parte degli antisemiti del suo Paese, che arrivarono a lanciare delle pietre contro la sua abitazione. Ma Pesev, grazie anche all’appoggio della Chiesa ortodossa con a capo il metropolita Stefan, riuscì comunque a infrangere il muro di omertà del regime. La sollevazione dei bulgari fu tale da costringere il governo a bloccare, unico fra i regimi alleati di Hitler, le deportazioni degli ebrei residenti sul suo territorio, salvando di fatto la vita a 48mila persone; le uniche per cui non fu invece possibile fare nulla furono le quasi 12mila che vivevano in Tracia e Macedonia.
Il 31 marzo 1943 re Boris III chiese a Adolf Hitler e al ministro degli Esteri tedesco Joachim Von Ribbentrop di non applicare la soluzione finale in Bulgaria, preoccupato per la sua immagine pubblica nel Paese. Nel giro di pochi mesi le stesse leggi razziali furono abolite, ma l’improvvisa morte del re (secondo alcuni provocata dai nazisti come vendetta per il mancato sostegno militare e ideologico) e l’avanzata dell’Armata Rossa privarono Dimitar Pesev del riconoscimento del suo gesto. L’ex vicepresidente fu infatti giudicato dalla Corte del Popolo e il 9 dicembre 1944 fu condannato a 15 anni di prigione, per poi essere scarcerato l’anno seguente con il divieto di esercitare la professione di magistrato. Il suo ruolo nel salvataggio degli ebrei bulgari fu cancellato dalla propaganda del regime comunista che attribuì il merito al nuovo leader del Paese, Todor Zivkov, che in realtà vi aveva avuto un ruolo marginale nella vicenda.
Pesev era scomodo anche per i nostalgici del vecchio regime, che preferivano vedere nel re Boris III l’eroe che aveva salvato la vita di migliaia di innocenti, piuttosto che riconoscere dei meriti a un vicepresidente autonomo e poco adattabile ai canoni eroici della propaganda reazionaria e nostalgica. L’ex vicepresidente della Duma trascorse i suoi ultimi anni ai margini della società, ostracizzato dal nuovo regime e mantenuto dalla sorella, vedendo le sue giornate allietate unicamente dalle lettere, dal denaro e talvolta dalle visite di quei pochi ebrei che sapevano la verità e arrivavano addirittura da Israele per ringraziarlo. La figura di Dimitar Pesev fu riabilitata ufficialmente solo nel 1973quando, alla sua morte, la commissione dello Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele, gli attribuì il titolo di “Giusto fra le nazioni”.
La storia di Pesev non è mai diventata popolare neanche nel suo Paese, probabilmente per lo stesso motivo che la rende così attuale: le sue scelte non furono guidate da un’ideologia di destra o sinistra, ma da un valore, il rispetto della vita umana, che non deve avere connotazione politica. Oggi Pesev ci ricorda che, in determinati momenti storici, fare la scelta giusta significa abbandonare la propria bandiera ideologica per riscoprire che chi sta affogando in mare non è un numero di una statistica governativa, ma un essere umano come noi.