Salvini dice che grazie a lui è morta una sola persona in mare. Ma sono oltre 300.

Durante l’audizione al Senato sul caso Diciotti del 20 marzo 2019, Matteo Salvini ha detto che “Per andare a processo dovrei mentire”. A processo non è andato, ma ciò che sostiene da tempo sul numero delle persone morte nel Mar Mediterraneo è molto lontano dalla verità.

Nello stesso intervento, il ministro dell’Interno snocciola i dati degli sbarchi di migranti sulle coste italiane, insieme a quelli delle “vittime recuperate in mare”. Chiude soddisfatto, fra gli applausi scroscianti dei senatori leghisti: nel 2019 c’è stato soltanto un morto. Un messaggio semplice e d’impatto, già testato nel salotto di Domenica Live il 17 marzo: “Sai quanti sono stati i morti recuperati in mare quest’anno? Uno”, dice Salvini a una concentratissima Barbara D’Urso. Peccato che le cose non stiano così.

Il ministero dell’Interno pubblica quotidianamente il cruscotto statistico Sbarchi e accoglienza dei migranti: tutti i dati. Contiene i numeri degli approdi sul territorio nazionale, con un semplice grafico che mostra come siano nettamente calati rispetto agli anni precedenti: nel 2019 sono 524, aggiornati al mese di marzo. Non c’è traccia però dei porti di arrivo, forse perché “i porti sono chiusi”, secondo uno dei ritornelli preferiti del vicepremier. E non c’è traccia nemmeno delle persone che hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Chiedendo espressamente questi dati al ministero si ottiene una tabella riepilogativa che coincide (ovviamente) con quanto riportato dal capo del dicastero in Senato: 296 decessi nel 2015, 390 nel 2016, 210 nel 2017, 23 nel 2018, 1 nel 2019 (al 26 marzo).

“Se parlano di persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo, questo numero è assolutamente errato”, afferma Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) – che fa parte delle Nazioni Unite, e anche per Salvini sarebbe difficile attaccarne l’attendibilità. Il progetto Missing Migrants, attivato nel 2013 all’indomani del tragico naufragio di Lampedusa che causò la morte di quasi 370 persone, riporta i decessi di persone migranti utilizzando tutte le fonti disponibili. E i numeri non sono gli stessi del Viminale: restando al 2019 si contano 311 morti nelle acque fra Africa e Europa, 165 solo nell’area del Mediterraneo Centrale, cioè quella che separa Libia e Tunisia dall’Italia (erano 153 il giorno del discorso al Senato). Il confronto non è fra dati ufficiali e quelli “di una qualche Ong”, visto che anche l’Unhcr diffonde numeri simili, anche se aggiornati meno di frequente. Oim raccoglie le informazioni classificandole con un punteggio da 1 a 5 in base all’attendibilità e utilizzando la metodologia più scientifica possibile, per quanto il contesto in cui opera sia molto difficile, come ammette Di Giacomo. “Le prime fonti di Oim sono quelle istituzionali, tra cui la Guardia Costiera italiana, maltese e anche quella libica, che aggiorna sulle sue operazioni di soccorso e sull’eventuale numero di morti e dispersi”. In mancanza di informazioni ufficiali, Oim analizza quelle delle associazioni non governative e, in subordine, dei migranti soccorsi o di altri testimoni oculari. Le notizie dei media e i comunicati delle agenzie di stampa vengono utilizzati per altre zone del pianeta, ma non nel Mediterraneo, dove si appoggia quasi sempre alle sezioni locali di Oim e alla Mezzaluna Rossa.

Si potrebbe obiettare che Salvini e il suo ministero hanno sempre parlato di “cadaveri recuperati”, escludendo così dal conteggio il numero dei dispersi in mare, che invece rientra nelle statistiche di Oim. Ma anche assumendo questa distinzione, i conti non tornano. Nei report specifici dell’organizzazione, che mostrano in dettaglio le informazioni acquisite riguardo le vittime del 2019, si trova spesso la dicitura bodies recovered, accompagnata dalla località nordafricana del ritrovamento. No, non si tratta di “morti presunti”, come suggerito al telefono da un funzionario del ministero dell’Interno. L’ufficio stampa del Viminale, fornendo i dati scrive “nel mare Mediterraneo centrale”, escludendo quindi ogni interpretazione restrittiva. A questo proposito, il sito Pagella Politica ha ipotizzato che Salvini si riferisse soltanto ai corpi recuperati lungo le coste italiane, però guardandosi bene dal segnalarlo. Se così fosse, il ministro dell’Interno italiano avrebbe una visione singolare della realtà migratoria nel Mediterraneo: a chi muore più vicino all’Africa che alle nostre coste viene negata persino l’inclusione nelle statistiche.

“La maggior parte dei morti in mare sono dispersi. Parlare di corpi recuperati è sicuramente riduttivo”, spiega Di Giacomo. Molto spesso infatti, sono i superstiti l’unica fonte possibile e Oim raccoglie le loro testimonianze direttamente nei punti di sbarco. “Qualche anno fa una persona soccorsa da un mercantile approdò in Sicilia e raccontò di un naufragio al largo di Malta. I nostri colleghi parlarono con altri migranti sbarcati a La Valletta e confermarono la sua storia: sul barcone in cui viaggiavano c’erano tra le 400 e le 500 persone”. Il sistema di Oim prevede sempre un controllo incrociato, perché non basta una sola testimonianza per conteggiare le vittime scomparse di un incidente marittimo. L’organizzazione è perciò molto cauta al momento di redigere le stime, ma nonostante questo i numeri registrati sono terrificanti. Soltanto nel Mediterraneo Centrale si superano i 15mila decessi tra il 2014 e il 2018. Ovviamente, sono calcoli al ribasso. “È molto difficile contare i morti in mare. È probabile che questa sia una stima per difetto e che ci siano naufragi passati completamente sotto silenzio,” continua Di Giacomo. Si verificano poi diversi casi in cui un’imbarcazione in difficoltà viene soccorsa con successo, ma per qualcuno è già troppo tardi. “Dopo ore di navigazione, spesso i gommoni cominciano a sgonfiarsi da una parte. Chi si trova a bordo, preso dal panico, si accalca dall’altra, e molti cadono in acqua, affogando tra le onde”. Un numero indefinito e incalcolabile di vite umane, di cui non resta alcuna traccia, nemmeno negli archivi.

Quella fra Africa ed Europa rimane per l’Unhcr la traversata più mortale al mondo. La rotta del Mediterraneo Centrale, nello specifico, registra il maggior numero di vittime: il braccio di mare che separa la Libia dalle coste siciliane e maltesi è più ampio di quello tra la Turchia e le più orientali delle isole greche o di quello fra il Marocco e la Spagna. Alla luce dei dati di Oim, suona come una beffa il mantra “meno partenze-meno sbarchi-meno morti”, sbandierato da Salvini in varie occasioni. Chi si vanta di “stroncare il traffico di esseri umani anche per salvare vite” dovrebbe prestare attenzione a una percentuale importante: il tasso di mortalità sulla tratta che porta all’Italia. “Circa il 10% dei migranti salpati perde la vita in mare. L’anno scorso era il 3,5%. Con così poche partenze è impressionante registrare un dato del genere”, afferma Di Giacomo. Il numero complessivo di decessi è davvero in calo, ma semplicemente perché sono di meno le persone che tentano il viaggio. In proporzione, invece, nel Mediterraneo si muore più di prima. E la causa non può che essere la drastica riduzione delle imbarcazioni che svolgevano i salvataggi: le navi delle Ong. Proprio quelle che il titolare del Viminale ama definire “vicescafisti” e che invece potrebbero salvare esseri umani, pattugliando proprio i tratti di mare più scoperti. “La Guardia Costiera libica non ha le capacità per intervenire. Rispetto agli anni scorsi, ora è più probabile che avvengano incidenti di cui nessuno saprà mai nulla”, denuncia Di Giacomo.

Senza contare che definire “salvato” un migrante recuperato in mare dai libici è uno schiaffo alla dignità umana. Per Di Giacomo “Molti di coloro che arrivano da quel Paese considerano la traversata il minore dei mali. Magari alcuni, inizialmente, in Europa nemmeno ci volevano venire. Ma in Libia succede loro di tutto: vengono rapiti, stuprati, trattati come animali, torturati in diretta telefonica per chiedere il riscatto alle famiglie. E così decidono di partire, nonostante parecchi siano terrorizzati all’idea del mare”. Con queste premesse, diventa quasi inevitabile che qualcuno preferisca prendere il comando di una nave mercantile, con tutte le conseguenze del caso, piuttosto che ricominciare a subire violenze e abusi. Questi “pirati clandestini”, come li ha definiti con toni dispregiativi il ministro dell’Interno, tenteranno nuovamente la traversata nel caso venissero riportati indietro, assicura Di Giacomo. E se alcuni di loro non ce la faranno, saranno soltanto numeri di un file Excel. O forse nemmeno quello.

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