Come a 23 anni Ernest Hemingway diventò il nemico numero uno di Mussolini

Nel 1929 uscì Addio alle armi, romanzo di Ernest Hemingway. Tutto il mondo accolse con favore la maestosa opera dello scrittore americano, una storia a larghi tratti basata sulla partecipazione di Hemingway alla prima guerra mondiale. Tutto il mondo, tranne l’Italia. Eppure il romanzo è ambientato nel nostro Paese: racconta Caporetto, descrive le nostre terre e i tormenti sul Fronte italiano. Se in Italia uscì soltanto nel 1946, ovvero ben 17 anni dopo, la ragione ha un nome e un cognome: Benito Mussolini.

Quando si pensa a Hemingway e ai suoi rapporti speciali con terre fuori dagli Stati Uniti, vengono subito in mente Cuba e la Spagna, ma l’Italia ha avuto un ruolo rilevante tanto nella sua produzione letteraria quanto nella sua vita. Durante la grande guerra, molti aspiranti scrittori americani decisero di partire come volontari per andare a combattere in Europa. Tra questi Faulkner, Fitzgerald e, appunto, Hemingway. Quest’ultimo, all’epoca appena diciottenne, era attratto da un eroismo che dal germoglio della poesia sfociava in imprese belliche, e trovava il suo massimo esponente in Gabriele D’Annunzio. Dunque era pronto per arruolarsi. Gli fu però diagnosticato un problema alla vista e fu quindi relegato alla guida delle autoambulanze della Croce Rossa. Fu spedito in Italia, sulla riva del basso Piave, dove venne colpito dalle schegge dell’esplosione di una granata. Con un impeto eroico, prese in braccio un ferito e tentò di metterlo in salvo. Venne però nuovamente colpito, stavolta dai proiettili di una mitragliatrice che raggiunsero un ginocchio e un piede. Venne operato a Milano, dove si innamorò di un’infermiera americana di origine tedesca. La storia non andò a buon fine, ma Hemingway si basò su quest’esperienza per la scrittura di Addio alle armi

Quando lasciò l’Italia, qualcosa delle nostre terre rimase nella sua mente. Sapeva che sarebbe tornato presto, lo desiderava ardentemente. L’occasione si presentò nel 1922 quando, da corrispondente del Toronto Star, venne mandato in Italia per intervistare un personaggio di rilievo: Benito Mussolini. Furono due gli incontri. Il primo avvenne nel giugno 1922, durante una conferenza stampa nella sede milanese del quotidiano fondato da Mussolini dopo aver lasciato l’Avanti!: Il Popolo d’Italia. La marcia su Roma sarebbe arrivata di lì a pochi mesi, e inizialmente Hemingway non riuscì a inquadrare del tutto il personaggio. Nel suo articolo lo descrisse come “un uomo grande, dalla faccia scura, con una fronte alta, una bocca lenta nel sorriso e mani grandi”. Un passaggio rilevante è: “Non è il mostro che è stato dipinto, non è un rinnegato socialista. Ha avuto molte buone ragioni per lasciare il partito”. Qualche mese dopo, Hemingway invertì la rotta e iniziò la sua personale battaglia contro Mussolini. Assolutamente ricambiata.

 

Hemingway lavora come corrispondente durante la Guerra civile spagnola, 1937

Si incontrarono in Svizzera, a Losanna. Mussolini fece entrare i giornalisti in una sala e non li degnò di uno sguardo. Rimase dietro la scrivania a leggere un libro di notevoli dimensioni. Voleva trasmettere l’aria dell’intellettuale, una sensazione di cultura e saggezza. Tra tutti i giornalisti, Hemingway fu l’unico ad alzarsi. Si avvicinò in punta di piedi alla scrivania, senza far rumore. Era troppo curioso di sapere quale libro stesse leggendo. Allungò il collo e trovò la riposta: era un dizionario francese-italiano, girato al contrario. Hemingway riportò questo aneddoto nel suo articolo. Mussolini lo lesse, si infuriò e mise una croce sopra il giovane giornalista americano.

In realtà nell’articolo si legge il pensiero definitivo di Hemingway sul Duce. Le sue parole furono secche, dure, non lasciavano adito a una cattiva interpretazione: “Mussolini è il più grande bluff d’Europa. Anche se domattina mi facesse arrestare e fucilare, continuerei a considerarlo un bluff. Sarebbe un bluff anche la fucilazione. Provate a prendere una buona foto del signor Mussolini ed esaminatela. Vedrete nella sua bocca quella debolezza che lo costringe ad accigliarsi nel famoso cipiglio mussoliniano imitato in Italia da ogni fascista diciannovenne. Studiate il suo passato. Studiate quella coalizione tra capitale e lavoro che è il fascismo e meditate sulla storia delle coalizioni passate. Studiate il suo genio nel rivestire piccole idee con paroloni. Studiate la sua predilezione per il duello. Gli uomini veramente coraggiosi non hanno nessun bisogno di battersi a duello, mentre molti vigliacchi duellano in continuazione per farsi credere coraggiosi. E guardate la sua camicia nera e le sue ghette bianche. C’è qualcosa che non va, anche sul piano istrionico, in un uomo che porta le ghette bianche con una camicia nera”. 

L’articolo continua con l’ennesima giravolta di Hemingway su D’Annunzio. Da eroe dell’adolescenza a “figlio di puttana” (come lo definirà in una poesia del 1922), qui venne dipinto come una nuova speranza per un’opposizione all’egotismo mussoliniano (come se quello dannunziano fosse meno marcato). Hemingway scrisse: “Sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando, e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è Gabriele D’Annunzio”.

Era solo l’inizio del ventennio fascista, e non erano molti quelli che osavano pronunciare frasi del genere, che infatti condannarono Hemingway all’oblio in Italia fino al dopoguerra. Come detto, durante il ventennio non arrivò mai Addio alle armi, così come le altre opere dello scrittore americano. Mussolini, oltre all’antipatia personale che provava in seguito all’affronto di quell’articolo, accusava Hemingway di aver leso l’onore delle Forze Armate descrivendo la disfatta dell’esercito italiano nella battaglia di Caporetto. Vittorini scelse due suoi racconti per l’antologia Americana – che tra l’altro fu inizialmente sottoposta alla censura del MinCulPop e poi rivista da Emilio Cecchi – unico passaggio di Hemingway nelle librerie italiane durante il fascismo. Verso la fine del conflitto mondiale, cominciarono le prime traduzioni clandestine di Addio alle armi, tra cui la più celebre a cura di Fernanda Pivano, che per tale ragione venne arrestata.

Ernest Hemingway e Fernanda Pivano

Ovviamente il fascismo non si limitò soltanto a censurare Hemingway: nel 1938 venne ideato un piano per aggredirlo. In quell’anno, Hemingway aveva scritto alcuni articoli sulla guerra di Spagna in cui le truppe fasciste, che all’epoca affiancavano quelle franchiste, venivano ridicolizzate perché “in nove giorni non erano avanzate nemmeno di 100 iarde”. A New York, il direttore dell’Italian Library of Information, un ex dannunziano e fanatico fascista di nome Eugenio Casagrande, riferì all’ambasciatore Suvich di essere pronto ad aggredire Hemingway. Voleva farlo pubblicamente, con l’intento di costringerlo a un duello. Le intenzioni di Casagrande furono riferite a Mussolini, che diede la sua risposta con un tacito assenso. Il piano saltò perché Hemingway, di ritorno dalla Spagna, invece di fermarsi a New York proseguì in segreto verso la sua tenuta a Key West, in Florida.

Erano gli anni in cui Hemingway covava una tale avversione per il fascismo, e per qualunque forma di dittatura, da spingerlo alla militanza. A cominciare dalla Spagna, dove realizzò un documentario propagandistico antifascista, Spain in flames, e dove lavorò come corrispondente di guerra fianco a fianco con i partigiani antifranchisti (esperienze raccontate in Per chi suona la campana). Si spostò poi a Cuba per svolgere un’azione di controspionaggio contro le infiltrazioni naziste a L’Avana. Utilizzò la sua barca, la “Pilar”, come nave civetta, anche se ben presto fu interrotto dall’Fbi. Eppure Hemingway sapeva che non si sarebbe mai sentito realizzato se non avesse preso parte attivamente alla seconda guerra mondiale. Per farlo, doveva essere nel cuore del conflitto. Tornò in Europa con un obiettivo chiaro: eliminare fascisti e nazisti.

Ernest Hemingway a Cuba, luglio 1940

Hemingway insieme a Fidel Castro, 1959

Dopo gli anni della militanza in Spagna, toccò alla Francia fare da scenografia alle avventure di Hemingway. Sulla strada per Parigi si unì a un gruppo di partigiani francesi e, grazie al suo carisma, riuscì a prenderne il comando. In questo periodo Hemingway sfogò tutta la frustrazione che il fascismo gli aveva recato: aveva in testa Mussolini e Hitler, quando uccideva i nemici. E ne fece fuori parecchi. In una lettera inviata al professore universitario Arthur Mizener, si vantò di aver ucciso 122 soldati, scrivendo di averne ammazzato uno che “aveva tentato di fuggire in bicicletta, avrà avuto non più di 17 anni, la stessa età che aveva allora mio figlio Patrick”. In un’altra lettera, inviata al suo editore Charles Scribner, Hemingway scrisse: “Una volta ho fatto fuori un crucco delle Ss, particolarmente insolente. Quando gli dissi che lo avrei ammazzato, il tipo mi rispose ‘Non ci riuscirai, perché hai paura e perché appartieni a una razza inferiore e degenerata’. ‘Ti sbagli, fratello’, gli replicai. Gli sparai rapidamente tre colpi al ventre. Lui cadde in ginocchio, allora gli sparai alla testa. Il cervello gli uscì dalla bocca o dal naso”. 

Non si ha la certezza che Hemingway abbia realmente compiuto queste azioni, dato il conclamato narcisismo del personaggio. Non ci stupiremmo se queste lettere fossero state scritte per vantarsi e creare attorno a sé l’aura dell’eroe. Quando Mussolini cadde e il fascismo venne sconfitto, Hemingway riscoprì l’amore per l’Italia. E per D’Annunzio. Lucy Hughes-Hallett riferisce nella sua biografia che Hemingway, dopo le infatuazioni giovanili, considerava D’Annunzio semplicemente “un coglione”. Eppure, nel romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi, scritto e ambientato in Italia, precisamente in Veneto, Hemingway definì D’Annunzio un “eroe nazionale” e “un vero stronzo”, a riprova del rapporto di odio e amore che provava per lui. 

Hemingway circondato da soldati dell’Esercito americano, Normandia, Francia, 1944

Paradossalmente Hemingway non riuscì a godersi la fine del tanto odiato fascismo: in quegli anni i problemi con l’alcol e i disturbi depressivi aumentarono fino a condizionarne l’esistenza. Passò l’ultimo periodo della sua vita tra crisi maniaco-depressive, ossessioni e il desiderio di farla finita. Ci riuscì il 2 luglio del 1961, sparandosi un colpo di fucile in bocca.

Ernest Hemingway ha combattuto contro il fascismo, e il fascismo ha combattuto contro Ernest Hemingway. Tra censure, antipatie, morti e vendette, quel che resta è la rivincita di uno scrittore che dopo la guerra ha visto le sue opere riempire gli scaffali delle librerie in tutta Italia, e la consapevolezza di aver compreso prima degli altri che il fascismo non era altro che un libro alla rovescia. Come quello davanti a Mussolini, quel giorno in Svizzera. 

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