Oppio, foglie di coca, morfina, cocaina, e ancora anfetamine, metanfetamine, LSD, eroina. Queste alcune delle tappe della lunga storia di intrecci che ha caratterizzato la pratica militare, le droghe, e il loro impiego in ambito bellico.
Le sostanze psicoattive sono state utilizzate fin dai primi millenni avanti Cristo per aumentare le performance degli esseri umani, liberarne la creatività, indurre estasi momentanee in grado di avvicinarli a una dimensione percepita come divina e ultraterrena. Grazie al ritrovamento di alcuni ideogrammi risalenti al 4000 a.C. circa, si sa ad esempio che già i Sumeri e gli Assiri si riferivano all’oppio come alla “pianta della gioia”. Al di là dell’aspetto escapistico intrinseco ai principi attivi psicotropi, bisogna però riconoscere che la loro applicazione è andata ben oltre.
Essendo infatti la guerra un’attività in cui c’è poco spazio per la dimensione umana e per tutte le sue vulnerabilità, è facile immaginare il ruolo che hanno giocato le sostanze psicoattive nell’evoluzione dei conflitti: alcune permettevano ai soldati di mettere in atto tutta la loro aggressività senza essere vincolati da scrupoli etici di sorta, altre li difendevano dai traumi, conseguenza virtualmente inevitabile per chi prende parte a iniziative militari. Fossero ipnotiche o sedative, per tenere a bada lo stress della battaglia, o stimolanti e allucinogene per trasformare i soldati in macchine inarrestabili, i composti psicotropi hanno sempre giocato una parte fondamentale nell’evoluzione della warfare, non solo occidentale. Sono state una risorsa strategica, un’arma per fiaccare la popolazione nemica, un palliativo per le proprie truppe. Ed è lecito pensare che il legame tra guerra e droga rimanga ancora saldo, in una sempre più intensa “farmacologizzazione” del conflitto.
Uno studio della storia bellica sarebbe dunque incompleto senza considerare la dimensione farmacologica: trascurerebbe quella che è, fin dai primi conflitti tribali, un’imprescindibile risorsa strategica. Lukasz Kamienski, studioso di scienze politiche e Professore presso l’Università Jagellonica di Cracovia, colma finalmente un vuoto importante nella storiografia militare, analizzando i destini incrociati di guerra e droga in Shooting Up. Storia dell’uso militare delle droghe: un libro che risponde in modo eloquente a chi, dopo gli attentati di Parigi del novembre 2013, ha insistito sull’utilizzo da parte dei jihadisti implicati negli attacchi di un’anfetamina conosciuta come Captagon (fenitilina), ulteriore elemento attraverso cui demonizzarli e mistificarli.
I militanti fondamentalisti dell’Isis, però, non sono stati certo i primi a cogliere il valore potenziante dei narcotici e degli stimolanti. L’entrata forzosa della Cina imperiale nella rete di commerci internazionali non si sarebbe verificata se l’Inghilterra e la Francia non avessero contribuito a disgregarne il tessuto sociale, fiaccandone di conseguenza l’esercito, dopo aver inondato il mercato cinese di oppio importato dall’India. Le devastazioni del continente europeo durante la prima e la seconda guerra mondiale non sarebbero state possibili senza l’uso massiccio di cocaina prima, e di anfetamine e metanfetamine poi. La Blitzkrieg, la guerra lampo dei nazisti con cui riuscirono in breve ad aggiudicarsi l’egemonia su buona parte dell’Europa, è stata resa possibile tanto dai nuovi carri armati quanto dal Pervitin, una metanfetamina commercializzata tra il 1938 e il 1939, che, agendo sul sistema nervoso centrale, liberava tutta l’energia distruttiva dei soldati tedeschi. La Wermacht sarebbe dunque stato il primo esercito sotto effetto di crystal meth. Anche Hitler era, a detta del suo stesso medico, profondamente dipendente dai farmaci e assumeva regolari iniezioni di stricnina, ormoni e metanfetamine. Il suo carisma, in parte, sarebbe stato frutto di una stimolazione farmacologica. Era anche un consumatore affezionato di barbiturici e ipnotici, tanto da rendere difficile l’impresa di svegliarlo la mattina – si dice che il ritardo nella reazione allo sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944, sarebbe da imputare proprio a un sonno particolarmente pesante. Anche Goebbels e Göring pare fossero morfinomani incalliti, come del resto lo era il 60% delle donne americane nel periodo della guerra civile mentre aspettavano che i mariti – anche loro fan della sostanza – tornassero dal fronte. Persino Churchill sembrava apprezzare la sostanza, mentre John F. Kennedy, stando a quanto rilevato da Kamienski, sarebbe stato sotto effetto di speed sia durante lo storico dibattito contro Nixon, nel 1960, sia in occasione della crisi missilistica di Cuba, nell’ottobre del 1962.
Gli orrori del Vietnam sono stati sopportati anche grazie a una massiccia assunzione di eroina da parte di soldati spesso minorenni, per questo molto più inclini a rimanere vittime del DSPT, il disturbo da stress post traumatico. Spesso non è bastata nemmeno quella, e la figura del veterano è diventata, all’indomani della vietnamizzazione del conflitto, l’archetipo dello sbandato, dell’altro, del socialmente deviato – anche per le profonde ferite psicologiche inflitte dalla guerra. Perché l’utilizzo di droghe sottostava a una doppia logica: concesso, quando non apertamente incoraggiato in guerra, criminalizzato e biasimato entro i confini della società civile.
In quest’ottica, la duplice penalizzazione e somministrazione della droga non sarebbe altro che un meccanismo di controllo e di disciplina dei corpi, per dirla alla Foucault; uno strumento in mano alle autorità, che decidono quale valenza culturale essa possa avere, e in quale contesto. Gli stimolanti, i sedativi, gli ipnotici, sono stati consapevolmente e regolarmente distribuiti ai soldati per aumentarne la produttività, in un’ottica economica di estremo cinismo. Le stesse sostanze hanno poi causato dipendenza ai veterani, che si sono visti negare la riammissione nella società civile proprio per essersi prestati ai meccanismi della guerra industriale.
E se, stando all’analisi diacronica di Kamienski, ogni periodo dell’evoluzione bellica ha avuto la propria “droga” d’elezione, quale sarà la sostanza che renderà un “superuomo” chi opera nell’ambito della cyber war ‒ ovvero l’ultimo stadio raggiunto dagli apparati militari di molti Paesi?
“Allo stato attuale, i candidati più probabili sembrerebbero essere gli stimolanti di nuova generazione, come il modafinil (Provigil), conosciuto anche come ‘pillola dello zombie’,” spiega Kamienski a The Vision. Queste sostanze aiuterebbero a reggere le poche ore di sonno, aumentando la concentrazione e la produttività; e forse proprio per questo hanno trasceso i confini dell’ambito militare, per diventare ampiamente usate nei reparti IT della Silicon Valley. Anche il Ritalin e l’Adderall, oggi assunti liberamente da molti studenti universitari in quanto “potenziatori cognitivi”, fungeranno da risorsa importante per i guerrieri cyber. Secondo Kamienski, però, più che alla farmacologia, bisognerebbe guardare alla neuroingegneria per comprendere le ultime evoluzioni belliche, in un totale cambio di paradigma. Il che significa integrare il cervello umano con meccanismi di intelligenza artificiale, come peraltro sta già facendo l’agenzia DARPA, del Dipartimento della Difesa USA, con il progetto Neural Engineering System Design – con l’obiettivo principale di sviluppare un’interfaccia neurale impiantabile, che permetta la trasmissione di dati tra il cervello e la strumentazione elettronica.
“Lo scopo è di ottenere un link comunicativo grazie uno strumento biocompatibile, non più grande di un centimetro cubo.” La DARPA sta utilizzando la neuroingegneria anche per trattare i disturbi psichici legati ai combattimenti. “Nel 2014 ha lanciato il programma SUBNETS (System-Based Neurotechnology for Emerging Therapies) con lo scopo di sviluppare un chip impiantabile per la stimolazione cerebrale profonda, attraverso cui trattare i disordini neuro-psichiatrici legati al combattimento,” dice ancora Kamienski. La ricerca in ambito neuroingegneristico, dall’ambito militare, starebbe perfino trasbordando in quello civile: sia Mark Zuckerberg che Elon Musk starebbero cercando di sviluppare un’interfaccia in grado di collegare il cervello umano a un computer, con la giustificazione di “evitare che l’intelligenza artificiale sorpassi le naturali capacità umane”. Musk ha creato a questo proposito la società Neuralink, mentre Zuckerberg avrebbe assunto l’ex dirigente della DARPA, Regina Dugan, per coordinare i progetti di ricerca non del tutto trasparenti del “Building 8” – Facebook starebbe cercando di sviluppare un’attrezzatura in grado di comunicare intere frasi dal cervello umano a un computer con una velocità pari a 100 parole al minuto.
I jihadisti, insomma, non sono gli unici a deumanizzarsi attraverso l’uso di sostanze psicotrope, gli eserciti occidentali l’hanno fatto per secoli. Ciò che però è più rilevante far notare ai fini del discorso è che nella guerra, soprattutto a partire da quella di tipo industriale, l’uomo annulla la propria dimensione umana per diventare mera risorsa e ingranaggio di un’enorme macchina di distruzione e conquista. Essendo questo il suo ruolo, la droga non è solo uno dei tanti modi per moltiplicare l’efficienza del soldato e assopirne le vulnerabilità. Gli alcaloidi psicoattivi, i sedativi, gli ipnotici, gli stimolanti, sono semplici risorse strategiche a disposizione dell’apparato militare, il cui consumo è caldamente consigliato sul campo di battaglia, ma criminalizzato non appena l’inebriamento che causano smette di essere funzionale alla ragion di Stato.