Perché è così difficile rassegnarsi all’idea di non piacere a tutti? - THE VISION

Secondo Nietzsche occorreva “sbarazzarsi del cattivo gusto di andare d’accordo con tutti”,  eppure la società in cui viviamo è satura di Yes Woman e Yes Man. Perché avvertiamo questa pulsione del “Sì”, questo bisogno costante di ricevere approvazione – esasperato oggi attraverso i like su Instagram e Facebook? In primis per rinforzare  – almeno apparentemente – il nostro ego e combattere un’insicurezza di cui tutti noi siamo costantemente preda, quella di non essere accettati.

L’idea di non ricevere l’approvazione delle persone che riteniamo simili a noi e ancora di più di coloro che – in base a criteri stabiliti dalla società secondo un sistema le cui regole non valgono davvero per tutti – sono considerati modelli di riferimento a cui ispirarsi se si vuole avere un certo tipo di vita può destabilizzare. Come scrive Zygmunt Bauman in uno dei suoi testi più noti, Modernità liquida, l’insicurezza oggi ci porta a fuggire con orrore dalla libertà di essere noi stessi.

Per Bauman l’uomo non desidera davvero essere libero di vivere la propria vita come meglio crede. Da un tale grado di libertà deriverebbero, infatti, aspettative sociali talmente elevate da mettere un individuo privo di vincoli sotto una pressione insostenibile. Essere il modello di se stessi spaventa, perché comporta il rischio di essere diversi e avere una personalità che non può essere incasellata. Abbiamo bisogno di standard a cui aspirare, di modelli da seguire senza chiederci se siano corretti oppure no, vogliamo che la società in cui viviamo eserciti su di noi forti pressioni affinché ci adeguiamo alle aspettative sul nostro ruolo al suo interno e gioiamo – nemmeno troppo segretamente – di ogni regola imposta, di ogni confine invalicabile entro il quale mantenere entrambi i piedi senza doverci sforzare di pensare a come uscire dal cerchio.

Zygmunt Bauman

Allo studioso di filosofia sociale Émile Durkheim si deve una delle più importanti intuizioni della sociologia, secondo la quale gli individui hanno necessariamente bisogno di appartenere a una collettività, di essere parte integrante e pienamente accettata di un gruppo sociale che imponga loro un modello di comportamento da emulare pedissequamente per non dover sviluppare una propria identità ed essere, così, allontanati dal “gruppo dei pari”.

Rifacendosi a questa intuizione di Durkheim, Bauman continua la sua dissertazione sulla fuga dell’uomo moderno dalla libertà seguendo l’idea che è solo grazie alla monotonia delle regole imposte dalla società che la vita di tutti i giorni ci è sopportabile: non siamo noi, infatti, a dover scegliere come comportarci in ufficio, a casa o sul nostro profilo social, sono le regole sociali che ci dicono cosa dobbiamo fare e a noi non resta che adattarci a esse, e ciò tutto sommato ci procura gioia.

Prima ancora di Bauman e in accordo con la teoria di Durkheim, anche il sociologo tedesco Erich Fromm ha formulato, nel suo famoso testo Fuga dalla libertà, la stessa tesi su come, l’attimo dopo aver raggiunto la libertà dalle costrizioni sociali, l’uomo abbia realizzato di non sapere che cosa farsene. “Essere liberi,” postula Fromm, “ci rende vulnerabili e, soprattutto, soli”.

Erich Fromm (Müller-May/Rainer Funk), 1974

Ricevere approvazione tramite le immagini, gli status e le storie postate sui social, oggi è diventata l’unità di misura più precisa per valutare la qualità della vita di una persona. Peccato solo che, a vivere quella vita, sia un alter ego costruito ad hoc per dare di sé l’immagine migliore al mondo che ci osserva. Nessuna foto, nemmeno quando uno degli hashtag recita #nofilter, corrisponde mai al vero. Sui nostri profili social appariamo quasi sempre più belli ma, soprattutto, più felici di quanto non siamo. E non siamo felici nemmeno quando torniamo a vedere se il numero dei cuoricini sta crescendo oppure no, se abbiamo acquistato un nuovo follower o se, per caso, qualcuno ha sentito l’esigenza di commentare il nostro post e ri-condividerlo, al massimo siamo più soddisfatti – e il problema è che questo meccanismo dà assuefazione.

Il sollievo che deriva dal ricevere un like ci fa stare così bene da rendere necessario il caricamento di una nuova immagine per ricevere un nuovo segno d’approvazione: così si genera un meccanismo che continua ad andare avanti senza tregua, post dopo post, per non allentare mai la presa sull’altro.

Per citare ancora Bauman: “Tutti desideriamo sapere che gli altri provano quello che proviamo noi”, che non siamo gli unici ad avere paura della libertà e a preferire delle connessioni fatte di regole già imposte da altri, per tale ragione l’approvazione arriverà rapidamente, esigendo in cambio lo stesso tipo di trattamento. A pensarci scambiarsi like e commenti sui social è abbastanza semplice e costa poco impegno: colmare con una semplice pressione sullo schermo dello smartphone anni di insicurezze e far sentire, allo stesso tempo, importante chi riceve quel simbolo virtuale di stima e approvazione è un gesto che non richiede alcun reale coinvolgimento e porta notevoli benefici.

 

I social diventano così un vero e proprio teatro sul quale esibirsi nella migliore versione di sé. Le persone si improvvisano attori alla ricerca di un applauso e, spesso, per ottenerlo sono disposti a sacrificare la propria personalità in favore di un ruolo che li renda non soltanto meritevoli di approvazione ma anche migliori dei loro colleghi che calcano la scena con spettacoli più o meno identici.

Il rischio, a questo punto, non è più quello di non riuscire a liberarsi dalla “libertà di scegliere chi vogliamo essere”, ma quello, al contrario, di diventare talmente bravi a interpretare il ruolo costruito su quel palcoscenico dentro lo smartphone. Un rischio che ci spaventa, forse, soltanto perché sappiamo bene di preferire al nostro “Io” l’alter ego perfetto che abbiamo inventato, filtrato e ri-postato.

Fromm scriveva  “Nel momento in cui l’individuo si trova nella condizione di andare avanti e sperare nella fortuna, si vede costretto a bere o affogare, parte la compulsiva ricerca di certezze, inizia la disperata ricerca di soluzioni in grado di eliminare la consapevolezza del dubbio e qualsiasi cosa prometta di assumersi la responsabilità di garantire ‘certezza’ è bene accetta”.

Secondo queste riflessioni sembra essere l’incapacità di utilizzare una libertà per la quale credevamo di voler combattere a renderci tutti degli “Yes Men”, o meglio dei “Like Men” e che, a conti fatti, ci fa così paura da averci resi schiavi dei nostri stessi hashtag.

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