Alle 19.30 dell’8 settembre 1943 la voce del generale Pietro Badoglio annuncia alla radio l’armistizio con le forze alleate. Nelle strade di tutta Italia si susseguono le manifestazioni di gioia da parte di studenti, operai e lavoratori: la guerra è finita. Pochissimi hanno dato peso all’ultima parte della dichiarazione, quell’ordine di “rispondere al fuoco contro chiunque attacchi” che i soldati ignorano mentre ripongono le armi e preparano i bagagli per tornare a casa. Meno di 72 ore dopo, i cittadini di Firenze vengono svegliati dai vetri delle finestre che tremano; in strada una colonna di carri armati con la croce nera si sta dirigendo verso piazza San Marco. Centinaia di soldati tedeschi scendono dalle camionette e occupano il Comando di Corpo d’Armata arrestando gli ufficiali e il generale Chiappi Armellini. La stessa sorte tocca alle altre caserme della città, dove i soldati sbigottiti vengono circondati e costretti ad arrendersi. Anche la fortezza Dal Basso cade. Tranne eccezioni entrate nel mito come il rifiuto di resa della divisione Acqui a Cefalonia, l’Italia viene rapidamente occupata dalle truppe tedesche e sprofonda ancora nell’incubo della guerra. Gli squadristi, volatilizzatisi dopo la caduta di Mussolini, tornano dalla macchia e affiancano i nazisti nella vendetta per il tradimento del patto d’Acciaio.
Il momento più atroce della seconda guerra mondiale per gli italiani comincia in quei giorni, con vendette tra vicini di casa e l’occupazione nazista. L’esercito italiano si frantuma, mentre il Re e Badoglio fuggono a Brindisi, abbandonando il Paese senza ordini, piani di difesa o gerarchie militari capaci di gestire la situazione. Il 12 settembre i muri delle strade vengono tappezzati dalle nuove regole naziste: chiunque verrà trovato in possesso di armi verrà fucilato. Il 16 settembre un bando invita chi ha fatto parte della polizia fascista a presentarsi in caserma per la sua ricostituzione. Il 17 vengono richiamati tutti i militari con obbligo a presentarsi nelle caserme, pena l’accusa di diserzione. Il 19 viene vietata ogni forma di manifestazione o contestazione. Il 2 ottobre viene annunciato che chiunque sarà responsabile di atti di sabotaggio verrà fucilato. La stessa minaccia vale per chiunque provi ad aiutare i soldati sbandati o gli oppositori, “anche solo con un bicchier d’acqua”. La Germania mette le mani su ogni risorsa italiana, dal settore minerario a quello energetico, schiacciando con il pugno di ferro chiunque si opponga, anche per il rancore feroce che prova nei confronti degli ex alleati italiani e degli ebrei.
Nel dicembre 1943 alcuni uomini della banda di Mario Carità hanno allestito un posto di blocco nelle campagne attorno a Firenze. Nel freddo dell’inverno, i fascisti piantonano la strada con i fucili spianati quando dalla curva spunta una bicicletta da corsa. La vedono passare spesso e conoscono il ciclista, ma alzano comunque la mano per fermarlo. La bicicletta che si avvicina nasconde nella canna dei documenti e sotto il sellino dei timbri per falsificare passaporti. Se scoperto lo fucileranno sul posto, nonostante sia Gino Bartali, il campione osannato dal regime.
Bartali nasce nel luglio 1914, praticamente con i pedali sotto i piedi. Già a 21 anni, senza squadra o allenatore, si iscrive alla corsa Milano-Sanremo e stacca tutti i concorrenti. Il direttore del mensile che l’ha organizzata è preoccupato all’idea che uno sconosciuto vinca e gli chiede “un’intervista in corsa”. Bartali è un novellino ingenuo e accetta, rallentando. Quando si rende conto che così sta compromettendo la propria gara è tardi e taglia il traguardo “solo” quarto. È il 1935, anni in cui il ciclismo ha sul pubblico lo stesso ascendente del calcio di oggi. La Frejus, fabbrica di biciclette di Torino, lo ingaggia subito e lo stesso anno vince i campionati di ciclismo su strada e arriva settimo al giro d’Italia. L’anno dopo Bartali firma con la Legnano e vince il Giro d’Italia del 1936 e quello del 1937. Nello stesso anno viene nominato capitano della squadra italiana per il Tour de France, la gara ciclistica per eccellenza, ma nella tappa di Grenoble cade e deve rinunciare alla vittoria, che arriva l’anno successivo con il primo posto.
L’Italia lo venera come una divinità anche per quella sua aria burbera e quella faccia da pugile suonato che ricorda, ante litteram, Paul Newman, aspetto che dalle sue parti gli è valso il soprannome di Ginaccio. La sua fama cresce anche per la rivalità, creata ad arte dalla stampa, con Fausto Coppi. Durante il Tour de France del 1940 Bartali cade ed è chiaro a tutti che non riuscirà a finire il giro. Lo farà l’appena ventenne Coppi che taglia il traguardo solo grazie a Gino che gli fa da gregario. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale Fausto Coppi viene arruolato in fanteria, inviato in Tunisia e catturato dagli inglesi, che lo spediscono in un campo di prigionia a Capo Bon. Bartali invece diventa un mezzo della propaganda del regime fascista, che gli detta l’agenda delle corse e gli risparmia la divisa per sfruttarlo come simbolo di italianità e prestigio.
Al posto di controllo Bartali regge la sua parte, ma viene comunque arrestato e portato in prigione per essere interrogato. Anche la bicicletta viene sequestrata, ma non esaminata, perché è una bici da corsa tarata sul peso di Bartali e toccarla potrebbe portare grane. Bartali, fedele cattolico, non ha mai fatto mistero della sua insofferenza per i fascisti, creando diversi momenti di imbarazzo per il regime, come quando alla vittoria del Tour de France del 1938 preferisce ringraziare la Madonna che il Duce. Era il tipico esempio del fuoriclasse troppo bravo per essere punito e troppo cocciuto per essere arruolato. Quando vengono promulgate le leggi razziali che definivano gli ebrei “nemici dello Stato”, Bartali nasconde un’intera famiglia nella sua casa di Firenze e porta loro viveri e informazioni. Quando la situazione precipita chiede aiuto all’arcivescovo Elia Angelo Dalla Costa, noto per aver dato l’ordine di chiudere tutte le finestre dei palazzi di proprietà del Vaticano in segno di lutto per la visita di Hitler a Firenze nel 1938 . L’arcivescovo spiega a Bartali che anche i preti nascondono migliaia di ebrei nei conventi e gli servirebbe qualcuno in grado di trasportare documenti con nuove identità per salvarli, come fece Olivetti con il suo contabile. Le strade sono pattugliate e i passanti perquisiti, ma un ciclista che si allena non darebbe nell’occhio, soprattutto se famoso. Bartali accetta.
Dopo 48 ore di interrogatorio, Bartali è provato, ma resta ostinato nel sostenere che si sta soltanto allenando. Alla fine viene rilasciato e, anche se provato, recupera la bici e porta a termine la consegna. Una delle tante che farà. Tra settembre 1943 e agosto 1944 percorre chilometri di campagna tra l’Umbria e la Toscana, mettendo in comunicazione il rabbino Nathan Cassuto con l’arcivescovo e gli ebrei nascosti, portando lettere, ritirando timbri o documenti falsificati, tutto sotto il naso dei nazifascisti. Ma è un gioco pericoloso, che non finisce sempre bene. Una volta ha un pacco troppo voluminoso per essere nascosto e lo porta sulla canna. Per strada un soldato fascista lo riconosce e per chiedergli l’autografo cerca di fermare Bartali, che per non rischiare scappa, mancando per un soffio tre colpi di pistola. Altre volte elude i controlli scappando così forte da cadere nei fossi al ciglio della strada. Una volta finisce in una vasca di acque nere, per cui quando torna a casa la madre lo copre d’improperi e lo obbliga a spogliarsi e lavarsi in giardino. Nel 1945 il rabbino Cassuto viene ucciso e molti iniziano a sospettare di Bartali che è costretto a passare gli ultimi mesi della guerra nascosto a Città di Castello, finché il CLN e gli Alleati non liberano l’Italia.
Ginettaccio salvò 800 persone e non ne parlò mai a nessuno. Si confidò solo a suo figlio Andrea, facendogli promettere di non dirlo a nessuno, anche se con il tempo si fecero avanti alcuni degli uomini che quel ciclista schivo e burbero aveva salvato.
Nel 2006, il presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi consegna ai suoi discendenti la medaglia d’oro al valor civile e nel 2013 lo Yad Vashem aggiunge il suo nome all’albero dei cittadini “giusti tra le nazioni”. In occasione del Giro d’Italia ospitato in Israele nel 2018, a Bartali viene insignita la cittadinanza israeliana postuma.