Più passa il tempo, più mi convinco di come uno dei più grandi fraintendimenti dei nostri tempi sia la volontà di considerare la parola femminista un sostantivo esclusivamente femminile. Nella società in cui viviamo – nonostante alcuni passi avanti negli ultimi anni – è raro concepire che anche un uomo possa essere femminista, o per lo meno appare come un fenomeno marginale, una sorta di forzatura. Anche perché il primo passo per essere un uomo femminista è accettare un senso di colpa capitale. Nascere maschio non vuol dire essere un carnefice o un maschilista, ma la presa di coscienza di ritrovarsi in un mondo fatto a propria misura dovrebbe esortare a nuove e diverse riflessioni, tra cui la tesi per cui il contrario di femminista sia maschilista, non appunto maschio.
Sembra invece che l’accezione più in voga del termine “femminista” – soprattutto nei Paesi conservatori, e il nostro vi rientra in pieno – sia un collegamento a una frangia di donne, spesso considerate estremiste o anche solo fastidiose, intenzionate a ribaltare i ruoli sociali arrivando a togliere diritti all’uomo. Ovviamente non è così, per la stessa logica che porta la comunità LGBTQ+ a non voler sottrarre diritti alle persone eterosessuali e via dicendo. L’acquisizione di un diritto da parte di una minoranza non prevede la rimozione dello stesso ad altre categorie, a meno di casi specifici che non rientrano di certo in questo fenomeno, come per esempio quelli ottenuti in seguito a guerre e conquiste territoriali e sociali a scapito di un altro popolo.
È già dal linguaggio che certi – molti – uomini mostrano lo strisciante retaggio del patriarcato. Prendiamo in analisi tutte le volte in cui Salvini ha parlato di femminismo: l’ha fatto sui social per criticare l’azione di alcune attiviste e per ostruire la coesistenza tra femminismo e genere maschile. Dunque espone delle donne al giudizio del suo pubblico con mezzi capziosi: “Le femministe hanno fatto questo”, “Le femministe non hanno fatto quello”. E così “femminista” diventa una sorta di insulto, mentre personalmente io non vedo perché tutti non si considerino tali. Si crea dunque una crociata con nemici immaginari, che in realtà sono individui che portano avanti istanze che dovrebbero essere supportate a livello comunitario. Per questo motivo, una delle frasi sul femminismo che considero più efficaci nella sua semplicità è quella di Cheris Kramarae, professoressa all’Università dell’Oregon e coautrice di A Feminist Dictionary: “Il femminismo è la nozione radicale che le donne sono persone”.
Un uomo che non si definisce femminista non si astiene semplicemente da una fondamentale questione civile e sociale decidendo di prenderne le distanze: si schiera in automatico dall’altra parte della barricata. Ovvero tra chi ha costruito e continua a voler mantenere i diktat del sistema patriarcale. Allo stesso tempo, essere una donna ed essere femminista non è un sinonimo, e purtroppo lo stiamo notando proprio con il governo attuale, il primo della storia repubblicana presieduto da una donna e contemporaneamente uno dei più imbevuti di patriarcato di sempre.
Dopo aver messo in discussione il diritto all’aborto, il governo Meloni ha appena varato la nuova manovra con misure che appaiono ben poco gratificanti per le donne. Per esempio, riguardo ai contributi previdenziali che verranno pagati dallo Stato solo alle madri di due o più figli. La stessa premier ha spiegato che “una donna che ha messo al mondo almeno due figli ha già dato un contributo importante alla società”. Qualcuno potrebbe considerarla un’infelice scelta di parole, quando invece è il riassunto perfetto di una persona cresciuta nel maschilismo degli ambienti conservatori e neofascisti, dove la femmina serve alla società in quanto fattrice e la sua funzione è quella di sfornare prole. Tutte le altre, milioni di persone che non vogliono o non possono avere figli, sono declassificate a semi-donne, persone che non adempiono ai loro doveri sociali. Sembra che oggi vengano discriminate dallo stesso Stato.
È fondamentale che gli uomini riconoscano le loro responsabilità legate direttamente o indirettamente alla subordinazione femminile. In Italia si è esposto Lorenzo Gasparrini con il libro Perché il femminismo serve anche agli uomini, spiegando dettagliatamente come il dispositivo patriarcale sia opprimente anche per il maschio, intrappolato nella sua stessa ragnatela e costretto a seguire modelli che non possono e non dovrebbero più appartenere alla nostra cultura. Dello stesso avviso è lo scrittore olandese Jens van Tricht, che nel suo saggio Waarom feminisme goed is voor mannen (tradotto in inglese con Why Feminism Is Good For Men) chiede esplicitamente una liberazione anche degli uomini dai codici restrittivi che il patriarcato impone alla società. Sia Gasparrini che van Tricht contrastano la presunta incompatibilità tra il maschio e il femminismo, perché la categorizzazione di genere su una battaglia dai tratti universali mette il freno a un’autodeterminazione utile per tutta la comunità.
La vera svolta del femminismo intersezionale passerà inevitabilmente dal sostegno attivo degli uomini alla causa. Probabilmente sarà il passaggio fisiologico tra l’attuale quarta ondata e la quinta. La quarta ondata è stata fondamentale perché ha aggiunto l’intersezionalità a una battaglia sempre più ampia e non legata esclusivamente alle identità di genere, che comunque già tentava di includere gli uomini nel movimento femminista, considerandoli e spingendoli a considerarsi alleati, e non protagonisti su un piedistallo. Permangono però ancora alcune resistenze interne, con un’ala separatista che teme che la loro presenza possa contaminare l’intero movimento con meccaniche sessiste e maschiliste di rimando, o addirittura paventando l’ipotesi che possa essere considerato un intervento esterno teso a dimostrare una forma di subordinazione. Credo invece che le basi per progredire debbano partire anche dall’inclusività e da gesti e azioni che possano coinvolgere l’uomo – non educarlo, perché quella è un’azione su se stesso che dovrebbe mettere in atto da solo – facendogli comprendere la differenza tra un diritto acquisito e uno da ottenere, tra un privilegio e una conquista.
Personalmente quel senso di colpa io lo percepisco. Anche se non abbiamo una parola specifica per definirlo, sento comunque la responsabilità ereditata di vivere in una società che ha penalizzato le donne per secoli. In quanto maschio bianco, etero e cisgender questo vale anche per il privilegio di non essere discriminato per il colore della mia pelle o per il mio orientamento sessuale. Mi chiedo davvero il motivo per cui io debba avere più diritti di un altro membro della mia stessa specie. E non c’è bisogno di andare lontano: ho più diritti di mia madre, di un mio amico italiano di seconda generazione o della vicina di casa omosessuale. Viviamo nella stessa bolla, eppure io ho delle protezioni in più. Il fatto che non sia una mia colpa diretta non mi consola e non attutisce il senso di straniamento di fronte a qualcosa che io stesso non riesco a spiegarmi, se non studiando i canoni sociali che hanno indirizzato secoli di Storia fino a oggi. Il senso di colpa deriva anche dal fatto di non poter comprendere fino in fondo certi disagi: posso solo immaginarli, ma non ho la pretesa di mettermi sullo stesso piano di una donna che cammina per strada di sera con la paura di essere molestata, un afroamericano fermato a un posto di blocco in Texas o di un partecipante a un Pride in Ungheria.
In teoria sono problemi che pensavo non riguardassero me direttamente, eppure l’individualismo è una delle piaghe del nostro tempo e una militanza esterna sempre più attiva non può che essere la soluzione per rovesciare sistemi e microsistemi che delineano lo spaccato della società in cui viviamo. Capire che invece queste tematiche ci riguardano eccome – e non solo per la visione patriarcale di dover proteggere la propria madre, sorella, figlia o compagna – è la chiave di volta per osservare un fenomeno e riconoscerne le falle. Non considerarmi un femminista mi porrebbe nella posizione del maschilista, e l’indifferenza equivarrebbe all’accettazione dello status quo. A volte basta poco: per esempio sensibilizzare un parente o un amico sul tema della differenza di salario tra uomini e donne. È soprattutto un atto politico, un modo per prendere posizione e combattere un sistema che porta al primo posto in classifica un libro dove le femministe vengono descritte come “moderne fattucchiere”, solo perché difendono la propria integrità e pretendono una parità in tutti i campi. Dobbiamo essere femministi per non pensare come Vannacci, Salvini, Meloni; per non alimentare una colpa che fatichiamo ancora a riconoscere; perché la libertà non può essere solo di pochi. O, più semplicemente, perché quella delle donne coincide con la mia, così come tutti gli altri loro diritti.