Il femminismo non è una gif di Beyoncé e una t-shirt di Dior - The Vision

Il femminismo va di moda, e di questo dovremmo essere contenti, almeno teoricamente. La corrente che stiamo vivendo in questi anni viene definita “quarta ondata” e si differenzia dalle altre tre per il mezzo attraverso cui si propaga, ovvero i media. Se la prima ondata era quelle delle suffragette, la seconda quella delle proteste degli anni ’70, la terza quella degli anni ’90, che ha introdotto temi come l’intersectional feminism e le questioni queer, questo ultimo flusso si serve di internet e di gif di Taylor Swift per dare voce alle molteplici correnti che lo compongono. Come tutte le cose che diventano mainstream, però, è giusto domandarsi se la massificazione contribuisca a sostenere la causa o se questa invece rischi di travisarla e strumentalizzarla per scopi meno nobili del suffragio universale. Poter assistere a un video di Kim Kardashian che parla di parità di genere mentre le fanno un massaggio ai piedi non è esattamente lo scenario che le paladine della lotta femminista si erano prefissate un secolo fa, anche se paradossalmente hanno combattuto anche per questo. Il femminismo è evidentemente un abito che fa comodo indossare oggi, ma tutti i vestiti prima o poi diventano fuori moda, specialmente se vengono ricoperti di ridicoli orpelli che rischiano di stancare chi lo indossa.

Poco tempo fa mi è capitato di imbattermi in un video che promulgava una manicure a tema mestruale con lo stesso tono di un pamphlet rivoluzionario: “Women are embracing that time of the month with gorgeous nail art […] encouraging women not to be ashamed of their period, but instead proud of their bodies” (“Alcune donne hanno deciso di accogliere quei giorni del mese con grandiose opere di nailart […] incoraggiandosi a vicenda di non vergognarsi del loro ciclo, ma anzi, di andare fiere del proprio corpo”). Simbolo dell’iniziativa, l’immancabile hashtag, pungente e puntuale come solo uno slogan di ribellione sa essere, #periodnails. La logica di questa iniziativa è dunque quella di spingere le donne a non vergognarsi di una funzione naturale del loro corpo, ma anzi di celebrarla attraverso spettacolari e raffinati lavori di onicotecnica. Un po’ come se celebrassimo la nostra regolarità intestinale con una manicure a tema, mostrando al mondo quanto fieri si può essere del proprio colon.

Mi domando davvero che motivo ci sia di appendere miniature di Tampax alle proprie unghie per osannare un normalissimo e fisiologico evento del proprio corpo, spesso anzi invalidante per il genere femminile, e travestirlo da iniziativa rivoluzionaria quando l’unico risultato mi sembra essere quello di avere il surrogato di un assorbente attaccato addosso, come se non bastasse già quello vero. Ecco, trend come le #periodnails sono esattamente quel genere di vezzo frivolo e di cattivo gusto che rende un abito prossimo a essere considerato inutilizzabile e obsoleto. Le #periodnails sono le spalline delle giacche anni Ottanta: sul momento potevano pure sembrare un’idea originale ma passato qualche anno appaiono ridicole e fuori moda.

Il 21 gennaio 2017 si è tenuta a Washington D.C. una manifestazione, la Women’s March. L’intento della protesta era opporsi alla politica razzista e sessista del neopresidente Donald Trump, appena insediato alla Casa Bianca. Sono intervenute diverse donne dello spettacolo, da Madonna a Scarlett Johansson, tutte molto determinate e ben preparate a tenere un comizio su tematiche come la parità di genere, i diritti sul lavoro, la questione ambientale. Insomma, questo è quello che potremmo definire un esempio virtuoso di femminismo della quarta ondata, capace di sfruttare le qualità oratorie di una grande comunicatrice come la signora Ciccone per sensibilizzare il suo pubblico su argomenti importanti, come appunto i diritti delle donne e il sessismo. Ed è molto più piacevole, anche se probabilmente un po’ meno sostanzioso, ascoltare il comizio di una pop star piuttosto che leggere polverosi saggi o partecipare a riunioni tra ex-sessantottine con le Birkenstok.

A coronare la marcia per le donne è stato il Pussyhat, un cappello rosa con le orecchie da gatta che ha fatto da sfondo cromatico alla protesta. Facendo riferimento all’ambiguità della parola “pussy”, nonché aggrappandosi alla celebre frase di Trump “grab ‘em by the pussy”, le attiviste per i diritti delle donne e per la parità di genere decidono di legare alla loro protesta un simbolo che, a conti fatti, le riporta esattamente in quel punto di ridicola leziosità assolutamente non necessaria. In un momento di solenne importanza, all’alba del catastrofico governo Trump, le donne della Women’s March scelgono di mettersi in testa un cappello rosa con le orecchie da gatta per dimostrare il loro dissenso verso un presidente sessista. Come se sentissero il bisogno in qualche modo di rendere più carina la lotta, dando quel famoso tocco femminile che è, in fin dei conti, esattamente uno stereotipo sulle donne trumpiano. Quale modo migliore di farsi prendere sul serio, dunque, se non quello di indossare un copricapo da deficienti? Che bisogno c’è di associare la propria lotta a un simbolo ridicolo, che altro non fa se non alimentare quel sentimento di scetticismo e di paternalismo nei confronti di tutte le iniziative femminili. È come se qualcuno desse rilevanza storica al movimento Girl Power delle Spice Girls, cosa che peraltro alcuni fanno.

Non possiamo rischiare di rendere il femminismo una cosa superficiale, i trend e gli hashtag vanno bene al massimo per Instagram, i cappelli con le orecchie da gattina sono un accessorio stupido e non c’è niente di stupido nella parità dei sessi. Non saranno delle ascelle pelose a cambiare il mondo, soprattutto perché dovremmo ormai essere coscienti del fatto che ognuno è assolutamente libero di depilarsi o meno, uomo o donna che sia, così come di sposarsi o meno o di fare dei figli o addirittura di essere una casalinga, se è ciò che si desidera. Non saranno neppure delle unghie a tema ciclo mestruale, né dei vestiti con slogan femministi come “Feminist AF” (in vendita alla modica cifra di 700 dollari) a fare in modo che il femminismo stesso sia talmente interiorizzato da non essere più nemmeno nominato. È invece la tendenza a rendere il femminismo un prodotto del marketing, una vittima di pink-washing, quel modo di servirsi una battaglia per i propri tornaconti, a far sì che questa moda sia destinata a estinguersi, a diventare niente di più che il ricordo di quella volta in cui il simbolo per eccellenza della disuguaglianza sociale, Kim Kardashian, è stata proclamata paladina dell’uguaglianza di genere, innescando un paradossale quanto ironico cortocircuito ideologico.

Il femminismo mainstream ha un grosso problema, quello di aver confuso la forma con la sostanza, quello di aver sostituito ai principi di parità i principi di apparenza, appiccicando hashtag e lustrini su idee che vanno ben oltre il semplice concetto di moda e tendenza. La lotta per la parità dei sessi non è un gadget che trovi sul Cioè assieme al poster di Miley Cyrus, non è un abitino rosa che indossi per una stagione e poi butti via perché da H&M ne hanno messo in vendita uno più cool, e non è un’ideologia che si merita di essere strumentalizzata dall’approccio consumistico del presente in cui viviamo. Se ne diventiamo consapevoli, forse siamo ancora in tempo per salvarlo dalla vena spendacciona e marchettara della quarta ondata e spogliarlo di quello stupido cappellino rosa che gli hanno messo in testa.

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