Avete mai provato a cercare “feminism” su LinkedIn? Forse è l’ultimo posto dove vi verrebbe in mente di fare una ricerca del genere, ma io l’ho fatto, principalmente perché ho notato che i contenuti della mia bacheca si stavano progressivamente trasformando in una serie di sviolinate sulle virtù delle donne, di quelle che di solito si vedono intorno all’8 marzo. Solo che in questo caso non erano immagini in Comic Sans con mimose e rose, ma post a tema aziendale. Storie di Ceo donne, meglio ancora se mamme, in grado di concludere affari milionari mentre allattano il pargolo e sistemano la casa, oppure interviste e video di riunioni di sole donne, riunioni in rosa, workshop sull’empowerment.
Con mio grande stupore ho scoperto che, cercando “feminism” su LinkedIn, trovi offerte di lavoro dove il femminismo è considerato una skill, come l’uso di WordPress o il pacchetto Office. Così ho capito che il femminismo è diventato una cosa che piace un sacco alle aziende. Siccome non ne avevamo abbastanza delle t-shirt femministe, a quanto pare ora il femminismo è diventato una tazza con scritto sopra “Girls just wanna be Ceo”. Fino a qualche mese fa, la bio di Ivanka Trump su Instagram recitava: “Moglie, madre, sorella, figlia. Imprenditrice e sostenitrice dell’educazione e autodeterminazione delle donne e delle bambine.” Sembra assurdo, ma Ivanka Trump è stata, fino a un certo punto e forse a sua insaputa, una femminista. Con i suoi ormai conclusi successi nel mondo della moda e il suo libro Women Who Work: Rewriting the Rules for Success, la figlia del presidente degli Stati Uniti rimasta in silenzio di fronte alle innumerevoli accuse di molestie sessuali nei confronti del padre, per una certa parte di opinione pubblica è diventata la Simone de Beauvoir del nostro secolo. Per ottenere l’etichetta di femminista a quanto pare basta essere ricche, famose e “avere un bel caratterino”. Perché una donna che detiene il potere, sia esso politico ed economico, dev’essere necessariamente una tosta, una “con le palle”, insomma una femminista che sgomita in un mondo di maschi a lei ostili.
Anche Marissa Mayer – per quanto in modo molto meno controverso rispetto alla signora Trump – è diventata senza saperlo un’icona del femminismo della terza ondata. Prima ingegnere donna assunta da Google, ha guidato per cinque anni Yahoo!, che ha lasciato quando le cose per l’azienda si stavano mettendo male. Wow! Una donna che fa un lavoro da maschi e per giunta da maschi nerd, dev’essere per forza un’eroina dell’emancipazione! O forse, molto più semplicemente, è una che sa fare il suo mestiere e grazie alle sue capacità e al suo lavoro è ora l’ennesima persona bianca privilegiata che è riuscita a guadagnare una media di 34 milioni di dollari all’anno. Mayer si è addirittura dissociata pubblicamente dal femminismo, che concepisce in maniera negativa, dicendosi convinta che per le donne ci siano più opportunità se si usano le energie positive e non quelle negative.
Peccato che il femminismo non sia una questione di semplici energie, ma un movimento con valori e radici, che però può diventare facilmente una mossa commerciale. L’8 marzo dello scorso anno a New York è comparsa, di fronte alla famosa scultura in bronzo del toro di Wall Street, la statua di una piccola bambina trionfante, con il petto in fuori, intitolata Fearless Girl. La scultura, realizzata da Kristen Visbal, è stata celebrata non solo in quanto raro ed efficace esempio di opera in grado di modificare il significato di un’altra, ma soprattutto come simbolo della resistenza femminile di fronte alla violenza e all’irruenza maschile. Peccato che non si tratti di un’installazione delle Guerrilla Girls, ma di un’operazione di marketing della State Street Global Advisor per sponsorizzare un progetto di inclusione femminile nelle aziende loro clienti. Una mossa discutibile, considerato che la multinazionale è stata recentemente costretta a pagare una multa di cinque milioni di dollari per le discriminazioni salariali nei confronti delle dipendenti donne e di colore. Nella nota stampa di Fearless Girl è puntualmente illustrato come un maggior numero di donne nell’organico migliori le performance di fatturato e riduca i problemi di governance. E a quanto pare serve a cancellare le multe.
Insomma, secondo le logiche di mercato una donna in un’azienda ci deve stare solo se vi porta un beneficio economico. Questo dovrebbe valere per ogni dipendente, ma per merito delle sue capacità, e non del suo genere. Sembra proprio che per le donne non ci sia altro spazio se non essere strumenti per gli interessi di qualcuno. Un’azienda (o una nazione) guidata da una donna non è necessariamente migliore di quella guidata da un uomo, soprattutto se si scende la gerarchia lavorativa e si guarda quali sono le condizioni di tutte le donne lavoratrici. Emblematico è il caso di Sophia Amoruso, la creatrice dell’e-commerce di moda Nasty Gal. Amoruso è riuscita in una straordinaria operazione di auto-narrazione di “boss al femminile”, tosta e determinata, con tanto di libro bestseller e serie Netflix al seguito, in grado di cancellare non solo la bancarotta della sua attività, ma anche le voci circolate sul trattamento dei suoi dipendenti, in gran parte donne. Dovremmo chiederci se il femminismo aziendale è davvero quello di cui tutte le donne, non solo quelle bianche e ricche, hanno bisogno. Spingere la narrazione sul successo individuale di alcune donne tirando in ballo il loro presunto femminismo, come si è fatto con Ivanka Trump o persino con la nostrana Chiara Ferragni a dimostrazione che il mondo del lavoro sta cambiando in direzione dell’inclusione delle donne, è una forzatura. Puntando l’attenzione sullo sparuto numero di Ceo donne “con le palle”, passa in sordina che in Italia solo il 49,3% delle donne tra i 15 e i 65 anni lavora o ci si dimentica dei ben più reali problemi che tutte le donne, e non solo le top manager, devono affrontare se decidono di avere un figlio.
Non è un mistero che il mondo del lavoro, soprattutto ai vertici, sia dominato dai maschi. Questa condizione è senza ombra di dubbio una conseguenza del sistema patriarcale in cui siamo immersi, ma questo non significa che una giovane donna abbia il diritto di strumentalizzare il femminismo per rivendicare una qualche pretesa sul sistema o, ancora peggio, che un’azienda lo trasformi in una skill per attirare candidati donna e migliorare la performance aziendale. Il femminismo non è un abbonamento a Netflix che si può sottoscrivere, utilizzare e disdire quando si vuole. Non si può sventolare la bandiera dell’emancipazione se quell’emancipazione è unicamente rivolta al proprio successo personale o al fatturato. La carriera e il successo si dovrebbero costruire sulle proprie abilità personali e non sulle spalle di un movimento che è uno strumento di lotta e autodeterminazione per tutte le donne, e non un corso online di coaching professionale.
Il femminismo della terza o della quarta ondata, come convenzionalmente viene chiamata questa nuova epoca di consapevolezza delle donne, ha avuto il pregio di abbattere la barriera dell’elitarismo borghese degli anni Sessanta e Settanta, rendendo il discorso femminista decisamente più accessibile. Ma questo sdoganamento ha portato con sé anche un impoverimento della lotta, rendendola la caricatura di quello che era all’inizio, nella sua espressione più radicale. Si è preferito adottare l’aspetto più condivisibile del femminismo, trasformandolo in uno strumento di auto-affermazione ai limiti dell’egoismo. In tutto questo si è persa la sua matrice socio-economica e l’idea che ne è alla base: solo una messa in discussione del capitale e una più equa distribuzione delle risorse può garantire la vera liberazione della donna.
Il femminismo aziendale è forse l’espressione più distruttiva dell’emancipazione femminile, perché dietro parole di empowerment si cela la perpetrazione di quello stesso sistema che umilia ed esclude la maggior parte delle donne. Se si riduce la lotta femminista all’immagine di una bambina bianca che sfida il toro di Wall Street per entrare a far parte del mondo dell’alta finanza, non c’è alcun beneficio per, ad esempio, una bambina del Bangladesh che deve far fronte a ostacoli materiali molto più consistenti. Portiamo il femminismo sul posto di lavoro, ma come ideologia, non come competenza. E, per favore, teniamolo lontano da LinkedIn.