L'angelo, il Veneto e un sacco di soldi

Sono le 4.30 di notte del 16 febbraio 1988. Anna Maria è incinta di nove mesi e per mano tiene sua figlia di due anni, Elena. Emerge dal buio di una cascina abbandonata e attraversa quattro corsie di tangenziale, urlando e sbracciandosi, diretta verso la sede di una vigilanza privata. Il telefono di casa mia squilla alle 7, mentre mia madre prepara la colazione e io la cartella. “Come, sparato?”, domanda. Mentre la vedo impallidire, ho 8 anni.

13 dicembre 1990. È pomeriggio. Cristina Pavesi, una studentessa di lettere di 22 anni, è seduta dal lato del finestrino del treno Mestre-Conegliano. Studia gli appunti di letteratura. All’altezza di Vigonza, il suo treno incrocia il Venezia Milano e rallenta di colpo. Lei si volta verso il finestrino, vede il treno fermo, poi viene spazzata via con l’intera carrozza da un’esplosione.

Campolongo maggiore conta poco più di 10mila persone. È tra un fiume, il Brenta, e le colline del Veneto che salgono verso le montagne. Non c’è niente, lì attorno, tranne botteghe e capannoni industriali. Sono zone dove il detto “magna e tasi” è una regola di vita, dove il motto degli Alpini è “tasi e tira”. Di generazione in generazione si passano aziende, attività, case e cattive abitudini. Fin dal 1950 il Veneto ha avuto banditi famosi come Adriano Toninato, un personaggio alla Don Camillo, che rubava galline e non aveva mai sparato un colpo in vita sua. Il bar Tre spade nel 1970 è un ritrovo di pregiudicati, gente povera che alterna furto, abigeato, coltellate e bicchieri di vino. I loro figli imparano presto a imitarli. C’è una compagnia di adolescenti figli d’arte che di giorno ruba polli, galline, forme di parmigiano, provole e burro, e di notte gioca a carte o va in discoteca per fare risse. Il loro leader è un ragazzino dall’aria innocente e la faccia pulita, figlio di un membro della banda di Toninato. Si chiama Felice Maniero, e dietro quella faccia d’angelo nasconde un’intelligenza mostruosa, determinazione e mancanza di scrupoli. Alla fine degli anni Settanta, l’Italia sta cambiando; la cappa di paura e terrore degli anni di piombo verrà presto sostituita dall’euforia drogata degli anni Ottanta, con Craxi e De Michelis, gli yuppie, Canale 5, le banche che regalano soldi, le donne in pelliccia, le vacanze a Cortina e i cocktail blu elettrico. Maniero vede il proprio vicino di casa girare in Mercedes, cascinali fatiscenti trasformarsi in ville, camicie di flanella sdrucite diventare completi sartoriali. Mentre lui e i suoi amici s’arrabattano per un pacchetto di sigarette, i loro coetanei vanno all’università, al tempo un privilegio e un vanto, e fanno la settimana bianca. E decide che li vuole anche lui.

Gianni De Michelis

Grazie alla sua capacità organizzativa e la rete di ricettatori che conosce, dalle forme di parmigiano la compagnia passa a rapinare gioiellerie; con passamontagna, corde e pistole assaltano i laboratori orafi usando i furgoni come ariete, arraffando tutto e scappando in pochi minuti. Non gli basta. Iniziano a intrufolarsi nelle ville dei gioiellieri, e se li trovano dentro non vanno per il sottile. Usano pistole vere e al minimo contrattempo picchiano e sparano, scappando per i campi che conoscono da tutta la vita. Sono così bravi che gli altri criminali iniziano a interessarsi a loro: Felice Maniero li contatta e li riorganizza in gruppi dette “batterie”, ognuna indipendente dall’altra. Lo chiamano Re Mida, perché quando c’è lui di mezzo, porti sempre a casa i soldi e la pelle. Nel 1979, in Veneto, ci sono tre gruppi di criminali alle dipendenze di Maniero. Lui gestisce la provincia di Padova, mentre la provincia di Venezia è in mano ai fratelli Maritan, di stanza a San Donà di Piave, e dai Mestrini. Venezia città, invece, è in mano ai fratelli Rizzi, detti “i giudecchini” perché la loro base è alla Giudecca. Obbediscono a Maniero, ma non in struttura piramidale, più in una sorta di franchising. Per qualche anno le cose restano stabili, con Maniero che a Padova mette le mani nel racket delle bische clandestine. Mentre spenna i ricchi che vede il giorno dopo pavoneggiarsi per strada, ascolta e si informa. Il gioco è un vizio che prende qualsiasi classe sociale. È nelle bische che Maniero scopre gli altarini di industriali, vip, magistrati, poliziotti, politici disposti a qualsiasi cosa per rimediare a una perdita sul tavolo verde. Ognuno di loro ha qualcosa da nascondere: un’amante, un vizio inconfessabile, un figlio nascosto, una dipendenza. Maniero colleziona informazioni e favori, poi decide di fare il salto di qualità.

Foto Segnaletica di Felice Maniero.

Il 10 ottobre 1980, a Venezia, è una notte fredda e nebbiosa. All’esterno di Ca’ Vendramin – il casinò di Venezia – nel viavai di uomini in smoking e donne in abito lungo, si muovono uomini soli, dall’aria dimessa. Di solito stazionano fuori, sul retro, fumano sigarette e studiano i giocatori. Sono i cambisti: è gente che fa prestiti con un interesse del 10% (al giorno) e arriva a guadagnare anche 200 milioni in una sera, solo prestando denaro a chi crede di non averne perso abbastanza. Maniero e i suoi arrivano in dieci, aspettano che i cambisti finiscano la serata, li seguono per le calli e al momento opportuno li massacrano di botte, poi li avvisano: da quel momento il business è loro. I cambisti non si oppongono, perché sanno chi hanno davanti. È un successo stellare: all’improvviso, Maniero e i suoi soci hanno più soldi di quanti potessero sognare. Si ripuliscono, cambiano modo di vestire, e diventano le star delle discoteche dove andavano a fare i bulli qualche anno prima. Sono gli anni Ottanta, e a Maniero basta presentarsi in Ferrari e aprire la portiera perché le donne ci saltino dentro. Poi lui non sa guidare e sfascia due Ferrari a settimana, ma non è un problema: ne compra altre. È fissato con la moda maschile e il suo idolo è J.R., il personaggio cattivo di una serie TV, Dallas. Tifa Juventus e nel tempo libero adora leggere manuali e trattati su qualsiasi argomento vagamente pertinente al crimine. Meccanica, medicina, psicologia, chimica. I soldi iniziano a far andare il sangue alla testa ad alcuni dei suoi, e il 16 luglio 1982 Maniero uccide Gianni Barizza, un ricettatore, colpevole di essersi tenuto soldi che non gli spettavano. Ed è solo l’inizio.

J.R. della serie “Dallas”

Maniero a nemmeno trent’anni amministra i suoi affari con precisione e intelligenza, alternando violenza a ricatti. Potrebbe vivere di rendita ma gli mancherebbe l’adrenalina, e cerca sfide impossibili nel campo che più gli va a genio: le rapine. Ancora oggi, studiare nei dettagli le operazioni di Maniero lascia sconvolti per la loro cura, pianificazione ed esecuzione. Non è un idiota che si presenta con la pistola in mano sperando nella fortuna. Maniero non lascia niente al caso, studia i minimi dettagli, trova i punti deboli della sicurezza e degli uomini, sceglie i complici più adatti e prepara i ricettatori. Poi colpisce. Il 16 luglio 1982 entra al Des Bains, uno degli alberghi più lussuosi del Lido, e fa sparire contanti e gioielli custoditi nelle cassette di sicurezza per un totale di 3 miliardi di lire. Il 26 ottobre la mala del Brenta, secondo il racconto che farà negli anni a seguire Giuseppe Lazzari, assalta l’ufficio postale della stazione di Mestre, portando a casa un bottino di 755 milioni di lire. La partecipazione a questo colpo sarà però smentita da Maniero. Il 1 maggio 1989 arriva a rapinare il Casinò di Venezia – non gli paga più il pizzo e in 12 minuti si porta via 2 miliardi e mezzo. I giornalisti lo adorano. Dedicano alle rapine decine di pagine, mascherando a fatica la simpatia per quel bandito di campagna che ruba ai nuovi ricchi per dare ai poveri. Gli omicidi, invece, sembrano meno interessanti. All’alba del 17 giugno 1983, a Eraclea, Maniero e i suoi complici irrompono a un party sfondando la porta e sparano sei colpi nel petto a Ottavio Andreoli, un pregiudicato che tentava di contrastare la leadership di Maniero. Nel 1984 tocca a Zeno Bettin, poi a Stefano Carraro e la sua fidanzata, crivellati di colpi mentre erano a letto. Sembrano intoccabili, quelli della mala del Brenta, e le loro rapine diventano imprese epiche. Maniero riesce a sapere quando decollerà l’aereo che contiene i gioielli degli artigiani vicentini, destinati alle cassaforti della Germania. Sa gli orari della sorveglianza, i turni, i punti di accesso, tutto spiegato da un artigiano strozzato dai debiti e da una donna pagata da Maniero. Il primo dicembre 1983, alla testa di un commando, entra all’aeroporto Marco Polo e senza sparare un colpo si porta via 170 chili di gioielli, per un totale di 3 miliardi di lire.

 Ottavio Andrioli, boss mestrino, 18 giugno 1983

Appena esce parte a tavoletta per la campagna veneta, dove in una cascina lo aspettano con la forgia già calda: fondono l’oro e lo trasformano in lingotti la notte stessa, per poi consegnarli al ricettatore che li mette in commercio nemmeno 12 ore dopo. È la rapina che lo consacra agli occhi dell’opinione pubblica, e mentre nei bar la gente lo applaude e invidia, la strada di Maniero s’incrocia a quella della cosca Fidanzati, direttamente collegata a Stefano Bontate. Sono picciotti mandati dai giudici in soggiorno obbligato al nord, allo scopo di separarli dal loro ambiente. In realtà è un’idea disastrosa, perché i mafiosi esportano il loro modello economico. La cosca importa al nord coca ed eroina, Maniero ne compra un chilo a 40 milioni, lo taglia a metà e lo distribuisce in tutto il Triveneto, creando uno stuolo di clienti fidelizzati che prima di morire lo rendono oscenamente ricco. Quando non gli bastano le forniture di eroina del sud passa a Salvatore Enea, a Milano. Poi da un trafficante turco del Pkk, mentre la cocaina se la fa arrivare direttamente da Medellìn. Tutto questo è possibile grazie alla complicità della popolazione, perché l’idea più geniale di Maniero è quella di comprare i favori di chi ha attorno. A Campolongo, dove abita, compra una villa e ci fa costruire un campo da tennis. Negli anni Ottanta era proibito avere piscine a causa di carenze idriche, ma per lui non c’è questo problema. Per qualche tempo, nel municipio, è rimasta in cornice una richiesta di costruzione di piscina presentata alle ore 8 e autorizzata alle ore 8.20: è quella di Maniero, che ogni domenica organizza feste a cui invita i concittadini con figli, mogli e amici che mangiano pesce, bevono prosecco e si divertono senza sborsare una lira. Basta questo a comprare i favori dei residenti che in cambio fanno finta di non capire né vedere cosa gli succede attorno, gli mettono a disposizione garage, nascondono armi e latitanti nelle proprie case, rendendo le indagini complicatissime. Ma nessun impero dura per sempre.

Il 14 maggio 1984, alla Toscana, un ristorante di Modena, Felice Maniero sta pranzando con amici e mogli quando entrano tre poliziotti con la pistola puntata. Lo arrestano per associazione a delinquere di stampo mafioso e lo mettono in galera. Non cambia nulla. Dal carcere, sfruttando le visite di suo fratello, Maniero manda biglietti e ordini a chi è fuori, continuando ad amministrare il suo impero. Dietro le sbarre la sua fama lo precede, i detenuti fanno la fila per conoscerlo e restano affascinati da quanto sia affabile, cordiale e socievole. Dopo tre anni così i magistrati iniziano a preoccuparsi dell’ascendente di Maniero e lo trasferiscono nel carcere di Fossombrone. Non cambia nulla, anzi. Lì conosce un ex brigatista, Giuseppe Di Cecco, che come buona parte della sinistra estrema – e di quella radical chic degli anni Novanta – ha una forte simpatia per banditi e rapinatori. Giuseppe non ha mai assaggiato il tartufo in vita sua. Maniero glielo fa arrivare, diventano amici e decidono di evadere. In cambio del suo aiuto, Maniero gli mette a disposizione un appartamento a Padova, poi grazie ai complici che scavano un tunnel sfruttando le vecchie fognature, il 16 dicembre 1987 percorrono i vecchi cunicoli ed escono alle 17 sul bordo del fiume, dove trovano una macchina ad aspettarli con all’interno i Maritan e i documenti falsificati con una nuova identità. Sono fatti talmente bene che quando a un posto di blocco li fermano, un carabiniere prende in disparte Maniero e gli dice “lei che è una brava persona, perché gira con questi pregiudicati?”. Anche questa volta Maniero potrebbe vivere di rendita, magari trasferendosi in Costa Rica, dove ha investito miliardi e potrebbe invecchiare tra mille lussi in un paradiso tropicale. Non ci pensa nemmeno. Per Maniero, il suo impero non va solo mantenuto: va espanso.

Silvano Maritan, ex boss del Veneto Orientale

Donato Agnoletto gestisce una società di sorveglianza privata, la Cvp. In piena notte si presentano a casa sua dei finanzieri, dicono a lui e alla moglie, Anna, di vestirsi e di portare con loro anche la figlia piccola. C’è qualcosa di strano, ma davanti alle divise si obbedisce. Appena escono li caricano a bordo di due auto diverse, e lì Donato capisce che è una trappola. Li portano in un cascinale abbandonato, li fanno scendere, e mentre i sequestratori tengono la moglie e la figlia in ostaggio, portano lui dentro e lo interrogano. Vogliono sapere la combinazione del caveau dell’autostrada, che tiene i soldi degli automobilisti. Donato dice che non può saperlo, perché la combinazione viene cambiata ogni giorno. Non li convince, così uno dei banditi gli punta la pistola alla testa. Lui sente il cane armarsi e d’istinto – è pur sempre un vigilante – l’afferra e sposta la testa. C’è una colluttazione e lui si prende due proiettili, che l’avrebbero ucciso se non avesse avuto una malformazione. I banditi scappano e la moglie, non sentendo il marito, è costretta a cercare aiuto nonostante stia per partorire. Attraversa le quattro corsie di via Fratelli Bandiera e raggiunge la sede della vigilanza, e i soccorsi arrivano appena in tempo. Maniero è latitante, ma la moglie di Agnoletto è convinta uno di quelli col passamontagna fosse lui. Lo acciuffano nove mesi dopo, mentre cerca di andare in Svizzera, un tempo sufficiente per ripristinare e consolidare la sua leadership. Il suo avvocato, Enrico Vandelli, sfruttando una scappatoia legale, gli fa ottenere gli arresti domiciliari. All’inizio degli anni Novanta la mala del Brenta ha tra i 400 e i 500 affiliati. C’è chi dice che Felice Maniero abbia accumulato un un patrimonio di 100 miliardi di vecchie lire.

Prigioniero della sua gabbia dorata, dove continua a vivere con l’adorata madre, Maniero manda i primi segni di cedimento psicologico. Suo padre è morto di cancro al fegato e lui mangia mele di continuo, perché gli hanno detto che lo previene. Ha il terrore delle malattie, fa installare in casa sterilizzatori e un abbattitore per il cibo, e a chi lo va a trovare chiede di lavarsi le mani e togliersi le scarpe. Mostrarsi debole al branco di lupi che amministri non è mai una buona idea, soprattutto se il tuo personaggio è considerato l’equivalente di Conan il barbaro. I ragazzini nelle sale giochi parlano di lui come fosse Robin Hood. Le donne sono pazze di lui, gli scrivono lettere, fanno la fila nelle discoteche dove si dice lui vada. I commercianti usano il suo nome come spauracchio, i giornalisti lo tirano in causa quasi ogni giorno. L’invidia divora chiunque gli stia attorno, così arrivano i ribelli.

I primi a volersi opporre allo strapotere di Maniero sono i fratelli Rizzi, alla Giudecca. Il 5 gennaio 1990, in una pizzeria dalle parti del Rio Terà, entrano con un fucile a pompa e una semiautomatica, raggiungono il tavolo di Giancarlo Millo e gli sparano sette colpi, escono e scappano su un cacciapesca, svanendo nel nulla. Millo era uno dei tanti tronchettari che truffa i turisti – tutt’oggi un business estremamente florido – ma soprattutto era un uomo di fiducia di Maniero, e suo amico. È un colpo durissimo, e vendicarsi non è facile. Per trovare i Rizzi, Maniero impiega otto mesi e tutti gli uomini che ha a disposizione, rivoltando gli argini e i nascondigli. Alla fine, quando li trova, dice di non avere problemi con loro, che sta preparando una rapina e li vuole a bordo. Si sa che una rapina con Maniero sono soldi facili e i Rizzi accettano. Non solo: Maniero chiede loro di presentarsi sul Brenta disarmati, perché le armi le ha lui. Come abbiano fatto a cascarci è incomprensibile, soprattutto dato che uno della banda, Alessandro, li sconsiglia di andarci. Lo ignorano, e la notte del 10 luglio si presentano a Campolongo disarmati in compagnia di Franco Padovan. Vengono torturati, uccisi e seppelliti sull’argine.

Il 13 dicembre dello stesso anno, una batteria di Maniero prova a rapinare il vagone postale del Venezia-Milano. Sbagliano tutto, e l’esplosivo necessario a far saltare il portellone sventra il treno che sta passando sull’altro binario uccidendo Cristina Pavesi e ferendo 15 persone. È la prima volta che i cittadini “per bene” ci vanno di mezzo, e le forze dell’ordine vengono messe sotto pressione. Ma Maniero ha studiato la Storia, conosce il popolo veneto e soprattutto da piccolo ascoltava i racconti dei ladri veneziani, che hanno una tradizione centenaria. Così decide di usare un vecchio trucco già in voga nel 1700. Il 10 ottobre del ’91 entra con due complici nella basilica di Padova e ruba la mandibola di Sant’Antonio. Oggi sembra ridicolo, ma l’Italia del 1991 era molto diversa; il cattolicesimo ufficialmente era vissuto da “non credenti”, ma aveva ancora una potenza e un dominio assoluto sugli animi dei cittadini. I giornali montano il caso, indignati. Il vescovo tuona dalle pagine della stampa locale accusando le sette sataniche. È allora che Maniero tratta con la polizia, dicendo dove possono ritrovare la reliquia. Le forze dell’ordine fanno la figura degli eroi, vengono organizzate due conferenze stampa a Roma e a Padova, c’è una processione che la riporta a Padova tra ali di folla festante e l’omicidio di Cristina è dimenticato. Non solo: ora la polizia gli deve un favore. E Maniero sa rendersi affascinante agli occhi delle divise – e forse non solo. Dopotutto, nel ’91 compra armi dalla Croazia, che è in piena guerra civile. Si dice che sia amico di famiglia del presidente Franjo Tudjman, i cui bastimenti di armi partono da Zagabria e arrivano nel porto di Chioggia;da lui e da suo figlio, capo dei servizi segreti, impara parecchie cose. Investe milioni in immobili dell’Istria.

Cristina Pavesi
Il treno su cui viaggiava Cristina Pavesi il 13 dicembre 1990
Fausto Donà, affiliato della mala del Brenta 

Con questo trucco, Maniero ottiene il ricollocamento dei detenuti della sua banda, così da facilitare le visite dei parenti. E i detenuti, per questo, gli sono grati. Offre mazzette corpose a tutti, e impingua le tasche di svariate guardie carcerarie, di un ispettore di polizia e addirittura di un maresciallo dei Carabinieri. Ma una mela marcia non corrompe il cesto. Inizia il processo. Nel 1993 i carabinieri gli sequestrano mezzo miliardo, un Renoir e un De Chirico, che aveva comprato per pulirsi i soldi. Poi una villa, una pizzeria, sette appartamenti intestati a dei prestanome – cittadini qualsiasi che si sono prestati alla mala per una festa in piscina, una strada ripavimentata, un vicino spaventato. In quello stesso anno in cui Campolongo maggiore vota in plebiscito la Lega nord e sposa le sue battaglie contro i terroni mafiosi, buona parte dei residenti sono collusi e conniventi alla malavita. Le interviste agli abitanti che ha riportato History channel sono indicative.

“È uno più furbo degli altri” dicono “Per me è una brava persona” fa un altro.

Intanto, nella nazione, quella strana rivoluzione chiamata Tangentopoli sta velocemente trasformandosi nel Terrore. Dai politici intoccabili e ai grandi imprenditori, la magistratura sta scendendo i ceti sociali in un vortice di arresti interminabile, e le parole “carcerazione preventiva” iniziano a fare paura. Ci sono stati parecchi suicidi e in quello strano clima sospeso tra omertà, paura e giustizialismo, Maniero ha bisogno di essere al posto giusto. Alle 4.30 di notte, quattro finti Carabinieri si presentano alle porte del carcere di massima sicurezza e portano via Felice Maniero “solo suonando il campanello”. È un’evasione fatta così bene che qualcosa non torna. Un colpo di scena inaudito, la cui eco rimbalza in tutta Italia. Maniero scompare nel nulla. Secondo il giornalista e scrittore Maurizio Dianese, vivere da latitante ha un costo elevato: una media di 10 milioni di lire al giorno. Un prezzo che il boss può permettersi serenamente per il resto dei suoi giorni, ma si fa catturare di nuovo, a Torino, il 12 novembre 1994, mentre fa shopping in una via del centro. È strano? Eccome. Il suo vecchio avvocato è convinto si tratti di un arresto concordato, perché le modalità sono anomale. È anomala l’intervista poi, è anomalo come uno col cervello di Maniero riesca a evadere da un carcere di massima sicurezza e poi si faccia prendere come un dilettante. Questa volta lo rinchiudono a Opera, e dopo l’intervista  distaccata e serena, in meno di 48 ore Maniero diventa un pentito. Prima fa incarcerare i mestrini, cioè quelli che avrebbero modo di ucciderlo o vendicarsi, poi tutti gli altri. Gli applicano uno sconto di pena di 22 anni di reclusione, nonostante venga giudicato colpevole di diciotto omicidi, omettendo quelli dove c’entrano i suoi familiari, di cui ne ha ammessi dodici. Felice Maniero viene condannato a 11 anni di prigione. Dopotutto, ha collaborato allo smantellamento di una rete criminale di oltre 400 persone, anche se alle domande dei Pm su dove sia il suo tesoro si dimostra reticente. Torna libero il 22 agosto 2010, con un’identità nuova. Report lo scopre per caso, e monta un servizio dai toni – e contenuti – assai discutibili. Maniero sparisce ancora, lasciandosi alle spalle molte domande. Che fine ha fatto?

Oggi lo sappiamo. Aveva 33 miliardi di lire, ossia 17 milioni di euro. Li aveva nascosti in Svizzera fin dal 1985, poi con le nuove leggi, aveva fatto sì che professionisti e familiari potessero ritirare il tesoro e occultarlo in Toscana. Aveva deciso che una quota doveva arrivare alla madre e sorella, Noretta Maniero, e venisse gestita da suo marito, Roberto Di Cicco, un dentista di Fucecchio. Dovevano investire i soldi e restituirgliene una parte, ogni volta, più o meno in base alle esigenze. Gli arrivano 5-6 miliardi di lire l’anno dal gennaio 1996 fino all’estate del 2015, poi il cognato inizia a non farsi trovare e a non rispondere più al telefono. Tra il natale 2015 e l’inizio del 2016, Maniero è in ospedale a Verona, lo vanno a trovare Noretta e la seconda moglie di Di Cicco promettendogli che convinceranno il dentista a staccargli un assegno da almeno 20 o 30 mila euro. Calcolando che sono soldi suoi, Maniero s’incazza e racconta tutto ai magistrati. La sorella e il cognato, intercettati, inizialmente avevano pensato di truffarlo mentendogli. Si erano comprate pellicce da 50 mila euro e una liposuzione da 30mila, poi macchine di lusso, ville, “mangiando i soldi della gente morta”.

Su Maniero è stato scritto molto e girato poco. Ne è stata tratta anche una serie Tv, che però non sembra essere riuscita a rendere in modo efficace un certo volto del Veneto, la sua mentalità, i suoi personaggi e la sua filosofia. O forse perché non si può cucire addosso a Faccia d’angelo la pelle della banda della Magliana. Sono cose diverse, per molti versi opposte, storie e orrori nati in quella provincia uggiosa e silenziosa che al cinema nessuno racconta più. Felice Maniero è ancora lì fuori. Ha cambiato faccia, nome e professione. Chi rimane uguale, invece, è quella massa senza volto che l’ha coccolato, idolatrato, assecondato, aiutato e alla fine rinnegato, quando il boss del Brenta non poteva più invitarli in piscina.

Segui Nicolò su The Vision | Twitter | Facebook