Il cielo ci affascina come tutto ciò che è lontano. Costantemente visibile eppure spesso ignorato, dimenticato, scordato. La postura dell’essere umano contemporaneo, a quanto pare, è sempre più influenzata dai device che osserviamo di continuo – 2, 3, 4, 5, 6 ore al giorno, cosa dicono i vostri “Tempi di utilizzo”? – il nostro sguardo sempre più rivolto a terra. Pettorale contratto, scapole abdotte, mento in avanti. La nuca si piega, l’attenzione si rivolge allo smartphone. Le spalle si avvicinano alle orecchie, il diaframma si blocca. A volte cadiamo. Sopra c’è il cielo che cambia perennemente, di notte le stelle, eppure nelle città – sempre più contratte e piene – sono faticose da vedere; meglio stare attenti ai propri piedi, a non inciampare, a non calpestare qualche qualcosa di sporco che violi l’immaginazione sempre più asettica della vita.
D’altronde, chi guarda per aria è sempre stato considerato male. Già Talete di Mileto, filosofo e astronomo greco vissuto nel VI secolo a.C, come racconta Platone nel suo Teeteto per esemplificare la condizione dei filosofi, sarebbe caduto in un pozzo, perché passeggiava osservando le stelle, senza fare attenzione a dove camminava. La sua serva lo prese in giro perché si preoccupava troppo di conoscere le cose lontane, senza accorgersi di quelle che gli stavano letteralmente tra i piedi. Oggi, però, rischiamo di cadere perché siamo assorbiti dai nostri smartphone e dalle incombenze e possibilità che veicolano, tra cui dialoghi immaginari e to do lists che si allungano a dismisura, occupando ogni spiraglio di tempo, di noia, accumulandosi anche negli spostamenti.
Ciò che si deve fare va fatto, ciò che vogliamo fare può sempre essere fatto. Abbiamo costantemente qualcosa di urgente da portare a termine, da raggiungere: andare dal punto A al punto B, non importa cosa accada in mezzo. Non sappiamo come si sente il nostro corpo in questo preciso momento. La contemplazione del cielo è sempre stata roba da artisti, poeti, Luftmenschen, flâneurs, perditempo con la testa fra le nuvole: figure poco raccomandabili, improduttive, sempre un po’ schernite dal resto del mondo. Così, fatichiamo a capire che siamo del tutto inermi di fronte agli eventi atmosferici estremi, che il clima, in realtà, ha da sempre influenzato le azioni degli esseri umani, le culture che hanno preso forma alle diverse latitudini del pianeta, così come le norme e i miti che le caratterizzavano. È proprio questa la relazione che vuole far emergere “Everybody Talks About The Weather”, curata da Dieter Roelstraete a Ca’ Corner della Regina, sede veneziana di Fondazione Prada.
Millenni fa, gli esseri umani che svilupparono i metodi dello yoga, avevano capito invece quanto fosse importante la direzione del nostro sguardo e quanto fosse in grado di influenzare pensiero, abitudini, cultura, architettura. Alzare la testa, oggi, ci risulta faticoso, ci costringe all’apnea, se siamo troppo contratti ci può addirittura far venire le vertigini, un senso di svenimento. Non ci concediamo il tempo di sentire – cioè percepire – il caldo, il freddo, il vento, l’umidità, gli eventi atmosferici non influenzano più da tempo il nostro agire. C’è una frase in Cent’anni di solitudine che mi è rimasta scolpita in mente: “Aveva sempre vissuto come se stesse piovendo”. Ecco, oggi non sarebbe più credibile. Le nostre giornate non ammettono di essere influenzate dal tempo, dal maltempo, dalle emozioni che suscita. Immaginate un’esenzione sanitaria per i metereopatici, in una società che non riconosce nemmeno alcune condizioni croniche invalidanti.
L’allestimento è stato progettato dallo studio newyorkese 2×4, che ha intrecciato alle opere una serie di approfondimenti scientifici realizzati in collaborazione con il New Institute Centre For Environmental Humanities (NICHE) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia – diretto da Francesca Tarocco, professoressa ordinaria del Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea della Ca’ Foscari – che fanno da grandi contenitori semantici ed evocativi per le opere esposte, tra cui “Osservare le nuvole”, “È solo meteo”, “La notte sulla Terra”, “Quando il clima diventa tempo”, “Ascoltare il ghiaccio”, “La fine del mondo che conosciamo”, “Osservare e inventare il tempo”, “Previsioni e predizioni”, “Mondi acquatici”, “Il colore dell’aria”, “Nuvoloso con qualche probabilità di astrazione”, “Dimentichiamoci dell’acqua”. Dati e ricerche assumono forme affascinanti, attivando un meccanismo cognitivo simile a quello della poesia, rendendo umanistico il pensiero scientifico, apparentemente sempre più asettico, trasformandolo grazie a sottili rimandi semiologici in emozioni. Una volta, per sapere cosa sarebbe accaduto si guardava il cielo, si imparava a capirlo, se ne faceva esperienza. Oggi si guardano le app di previsioni del tempo smartphone, spesso sbagliano, a volte ci rovinano le prospettive per il week-end. Ma non è questo il loro scopo: la mostra sembra spingerci a riconsiderare il nostro posto nel mondo, il nostro valore, il nostro peso, la nostra relazione con l’habitat, gli elementi, le altre forme di vita; e l’unico modo per farlo consapevolmente è studiando, scoprendo, andando attivamente oltre la soglia dei saperi che ci informano.
Dopo la mostra del 2022 “Human Brains: It Begins with an Idea”, anche in questo caso, infatti, Fondazione Prada mescola scienza e arte, attivando l’esposizione con un public program, tenutosi il 5 e il 6 ottobre: due giornate di conferenze che – grazie alla partecipazione di alcune figure di spicco nel panorama accademico internazionale, tra cui Lesley Lokko, Curatrice della Biennale di Architettura di Venezia 2023 e Founder e Direttrice dell’African Futures Institute ad Accra, Ghana – hanno contribuito a sondare problematiche e riflessioni trasversali legate alla crisi climatica, a partire dagli argomenti messi a tema dalla mostra, come per esempio l’antropocene e le nostre responsabilità in quanto esseri umani, esplorati da Carlo Barbante, scienziato e professore ordinario dal Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica della Ca’ Foscari di Venezia; o l’esperienza animale, interrogata da Alex Jordan, scienziato del Max Planck Institute of Animal Behavior di Costanza; ma anche il legame sempre più evidente tra l’ambiente e le patologie neurodegenerative che ci affliggono, come ha avuto modo di approfondire il neurologo Giancarlo Comi, dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano – che già aveva collaborato con Fondazione Prada presiedendo il comitato scientifico “Human Brains”. Ultimo ma non ultimo, il tema centrale della seconda giornata di interventi: l’ampliamento del focus di indagine, a livello geografico, socio-antropologico, disciplinare e narrativo.
È infatti fondamentale che la riflessione coinvolga e si concentri in particolar modo su quegli ambienti che prima degli altri si trovano a dover fare i conti con l’impatto tremendo dei cambiamenti climatici, come sottolineato da Amitav Ghosh, il cui lavoro è stato di grande ispirazione per lo sviluppo della mostra. Dall’arcipelago delle isole Sundarban, tra il mare e le pianure del Bengala, che sta scomparendo velocemente; passando per le Isole Marshall, come ha raccontato l’attivista Selina Leem; fino alle Hawaii, la cui “scienza indigena” è stata analizzata dall’antropologa e professoressa associata del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali di NICHE, Roberta Raffaetà. È infatti urgente comprendere – non solo razionalmente – che ogni habitat e specie del pianeta è intimamente interconnesso, anche quando non sembra. È fondamentale un radicale cambio di paradigma a tutte le latitudini, soprattutto quelle dei Paesi ricchi e in crescita, perché le conseguenze dei loro sistemi hanno un impatto fortissimo, che prima di manifestarsi nel giardino dei diretti interessati colpisce altre realtà, più piccole, deboli, contribuendo a creare ingiustizie e disparità. Ma secondo Bjorn Stevens – direttore del Max Planck Institute for Meteorology di Amburgo – ormai non è più sufficiente parlare, cosa che accade sempre più spesso e purtroppo in relazione a più o meno raffinati meccanismi di greenwashing, è necessario agire. Per farlo, però, dobbiamo ricominciare a “pensare con gli elementi”, come ben evocava il titolo dell’intervento di Macarena Gomez-Barris, presidente del Dipartimento di Cultura moderna e Media della Brown University di Providence. Azione, pensiero, percezione e parola, infatti, sono un tutt’uno, come ben mostrato da questo capitolo di ricerca veneziana promossa da Fondazione Prada.
Dobbiamo calarci mente e corpo nell’ambiente, perché in determinati contesti può essere molto più accurato il nostro naso di alcuni modelli predittivi. Stasera pioverà, senti quanta elettricità c’è nell’aria? Eppure non stiamo mai quieti (neanche mentalmente) – non ci soffermiamo mai ad annusare, ad ascoltare, a interrogarci: non ce ne diamo il tempo – perché sappiamo che le pause potrebbero disintegrare la nostra identità, l’Io in cui ci identifichiamo; potremmo accorgerci di stare male, di sentirci a disagio, di dover cambiare qualcosa, di esserci comportati male. E cambiare è difficile, soprattutto quando abbiamo fatto di tutto per allinearci alle aspettative della società. Eppure, l’arte può aiutarci proprio in questo. Ci sono luoghi in cui cambiare sembra più facile, o semplicemente in cui ci riesce più agile toglierci la maschera, sfilarci dall’immagine che ci si è incrostata attorno, piangere in mezzo a un bar affollato, rompere la nostra costruita espressione da selfie, da foto profilo, curriculum, LinkedIn. Ecco come sono quando mi rompo. Ecco come sono quando mi mostro senza forma.
Tra le stanze di “Everybody Talks About The Weather” accade proprio questo. Gli spunti di riflessione sono tanti, tantissimi, così come gli approfondimenti, i rimandi, i richiami, le sollecitazioni analogiche e virtuali, letterarie e sonore, scientifiche e artistiche. L’atmosfera è quella di una Wunderkammer della crisi climatica, ma anche esistenziale, estetica, valoriale, l’arte infatti integra spesso i fenomeni atmosferici a riflessioni sociali e politiche. Ne sono un esempio le foto del cielo che Chantal Peñalosa ha scattato sul confine tra Messico e Stati Uniti, rilevando i cambiamenti delle nuvole nel tempo impiegato ad attraversare dall’alto una delle zone più ossessivamente presidiate del mondo, come cercando di fissare un miraggio.
O le coperte appoggiate sul pavimento ordinatamente ripiegate e chiuse da uno spago, quasi come furoshiki giapponesi, i tradizionali pezzi di stoffa per trasportare oggetti, o impacchettare doni. Questi involti – che attirano l’attenzione, perché incomprensibili, misteriosi – contengono la distanza simbolica tra le nostre azioni e le loro conseguenze, tra la terra e il cielo e viceversa. Jason Dodge nella sua serie di opere Above the Weather ha infatti fatto tessere ad artigiani e donne di tutto il mondo – dall’Algeria, alla Transilvania, all’Uruguay, solo per fare qualche esempio – fili di vari materiali del colore del cielo di notte, della lunghezza tra il suolo della terra e la fine della troposfera, la zona dell’atmosfera in cui si scatenano gli eventi atmosferici e che varia a seconda dei diversi punti del pianeta: da un massimo di 20 chilometri, in prossimità dell’equatore a un minimo di 6, nelle zone polari. A seconda della dimensione del filo e del modo di tesserlo ne sono uscite coperte di dimensioni diverse. Quelli esposti a Venezia vengono da Bielorussia, Brasile, Iran e Myanmar, Paesi attualmente alle prese con forze antidemocratiche, e sembrano contenere un messaggio segreto da dipanare.
L’arte ci fa vedere l’invisto, immaginare l’impensabile, qualcosa di ben lontano dal prevedere il tempo, la trasformazione dei dati in emozioni, un po’ come le tante storie fantascientifiche scritte dagli anni Settanta del Novecento in poi, quando già gli studiosi ci avevano messo in guardia e sembrano dirci che “l’essere umano resta un dilettante”, come il signor Geiser de L’uomo nell’Olocene, scritto nel 1979 da Max Frisch; e con ben poca presa sulla realtà, come la Giuliana di Deserto rosso, di Michelangelo Antonioni. L’essere umano immagina il peggio come catarsi, ma le sinossi di opere distopiche – ormai estremamente realistiche – battute a macchina e giustapposte in una linea retta da Beate Geissler & Oliver Sann, sembrano trasformarsi man mano da dimensione fantastica a un documentario. Non a caso, il public program è stato preceduto da un seminario a porte chiuse dal titolo “Immaginari speculativi per mondi futuri: la narrativa sul clima nelle arti e nella letteratura”, rivolto in particolare a studenti e ricercatori. L’impressione, di fronte a questa carrellata di trame, è che dal futuro ci si trovi di fronte a una testimonianza. Come accadde a Rainer Maria Rilke nel 1908 davanti al torso arcaico di Apollo esposto al Louvre, emerge allora forte e chiaro l’imperativo: “Du mußt dein Leben ändern”, “Devi cambiare la tua vita”. Ancora una volta: per farlo è necessario conoscere, solo così sarà possibile immaginare una nuova forma a cui adattare questa nuova, necessaria, mutazione esistenziale.