Oltre 100 milioni di donne e ragazze hanno subìto una qualche forma di mutilazione genitale e ogni anno altri milioni di donne la subiscono, anche presso le comunità immigrate in Europa e in Nord America, dove comunemente queste pratiche sono ritenute espressioni di valori “alieni”, alimentando, così, anche stereotipi negativi su questi gruppi di persone. Ne esistono alcune varianti: la prima tipologia di operazione, la clitoridectomia, consiste nella sola rimozione del prepuzio della clitoride e di una parte della clitoride stessa; il secondo tipo prevede, in aggiunta, anche l’escissione delle piccole labbra, mentre la tipologia successiva, l’infibulazione, comprende in più la cucitura delle grandi labbra tra loro, lasciando solo una minuscola apertura. In realtà, a differenza di quanto si potrebbe credere, questo tipo di mutilazioni non sono state estranee nemmeno alla nostra cultura: riconoscerlo e studiare il percorso che ha portato al loro superamento può aiutare anche a promuoverne l’abbandono laddove siano ancora praticate.
Nel 1860 il dottor Isaac Baker Brown, ginecologo e chirurgo ostetrico fondatore della London Surgical Home, notò che le donne affette da epilessia nella sua clinica tendevano a masturbarsi spesso e ritenne questo comportamento causa della patologia, che avrebbe portato poi ai passaggi successivi: isteria, idiozia e morte; bisognava quindi intervenire per evitarlo, opinione appoggiata anche dal celebre endocrinologo, fisiologo e neurologo Charles Brown-Séquard, che sosteneva la clitoridectomia come forma di prevenzione per una varietà di quelle che erano considerate gravi patologie: malinconia, paralisi e cecità. Tra gli illustri uomini di scienza che seguivano queste teorie c’era anche il ginecologo Howard Kelly della Johns Hopkins University, secondo cui il contatto tra la clitoride e il suo prepuzio provocava “irritazione”, cosa che induceva alla masturbazione – una vera e propria ossessione all’epoca – per cui, se la pulizia non bastava, era necessaria la circoncisione femminile.
Così si interveniva sugli aspetti considerati patologici della natura femminile, proprio come succedeva per quanto riguardava la pratica delle sterilizzazioni forzate. Infatti, anche queste mutilazioni – e altri interventi invasivi, come la rimozione di ovaie e o dell’utero – venivano considerate trattamenti terapeutici o preventivi, dettati però da pregiudizi misogini, che assumevano i contorni più o meno sfumati di vere e proprie azioni oppressive di dominio sui corpi delle donne, con cui si intendeva regolare pratiche o inclinazioni sessuali “devianti”, come il lesbismo, ma anche il rifiuto di avere rapporti sessuali con il marito o, al contrario, il goderne “troppo”. Tutti considerati problemi da risolvere. Si voleva ottenere una regolazione della libido femminile, anche se ufficialmente si perseguivano innanzitutto igiene, rispettabilità, purezza morale e moderazione sessuale. Queste convinzioni – tutt’altro che bizzarre per l’epoca – erano così radicate che anche dopo la caduta in disgrazia di Brown, nel 1867 – quando fu isolato dai colleghi invidiosi del suo successo e le sue teorie vennero messe in discussione – l’operazione continuò a essere ampiamente praticata in Europa e Stati Uniti.
Per certi versi, queste argomentazioni non sono troppo diverse dalle principali ragioni per cui le mutilazioni genitali femminili vengono praticate ancora oggi in alcune regioni e presso diversi gruppi etnici. Tra le motivazioni, infatti, ci sono: la conservazione della “matrimoniabilità” di una donna, cioè il mantenimento dei valori di verginità, purezza e moderazione sessuale che garantiscono che venga scelta da un buon partito; e la riduzione del piacere sessuale femminile, per garantire la moralità, dunque, in definitiva, per limitare la libertà personale e controllare i comportamenti delle donne, così da sottometterle. Per esempio, in alcune culture il contatto fisico tra la clitoride e il bambino durante il parto viene ritenuto potenzialmente fatale per il neonato. Queste convinzioni, pur non avendo ovviamente alcuna validità scientifica, sono talvolta così radicate da superare le preoccupazioni per i rischi a cui sono esposte le donne che subiscono queste operazioni in condizioni igienico-sanitarie inadeguate, che comprendono infezioni gravi che possono portare a menomazioni, infertilità, parti problematici e di conseguenza aumentare enormemente il rischio di morte.
Una costante che emerge nel corso della storia e che attraversa tutte le latitudini è il tentativo di controllare la sessualità femminile e allinearla con obiettivi che non riguardano necessariamente i desideri delle donne coinvolte, per esempio per quanto riguarda la contraccezione e i “doveri coniugali”. Non è un caso, quindi, che alcune forme di mutilazione genitale femminile abbiano iniziato a essere praticate – si ritiene per la prima volta presso gli Egizi – sulle schiave, cioè coloro che dovevano più di tutti essere controllate e sottomesse, con una pratica diffusa anche nell’antica Roma.
Secondo Carroll Smith-Rosenberg, docente di Storia, Cultura americana e Studi di genere, e Charles E. Rosenberg, storico della scienza, il ruolo sociale assegnato alle donne ha da sempre – o almeno dai tempi di Ippocrate e Aristotele – motivato una varietà di presunte giustificazioni mediche e biologiche per le diverse procedure – spesso invasive – praticate per modificare, controllare e domare il loro corpo, o per fare sperimentazioni su di esso. In particolare nella seconda metà del Diciannovesimo secolo – non a caso proprio in un’epoca in cui le donne reclamavano con crescente forza il proprio spazio e i propri diritti – in Occidente ci fu una vera esplosione di chirurgie ginecologiche sempre più estreme eseguite su donne ritenute nevrotiche o isteriche, sulla base, secondo molti storici, di un’insistenza sulla natura intrinsecamente malata della donna, dal momento che si distaccava dallo standard, che è sempre stato il corpo maschile. Basti pensare che l’ovaio e l’utero erano considerati sede della nevrosi.
Si riteneva che il sistema riproduttivo femminile non governasse solo le funzioni biologiche ma anche le capacità mentali ed emotive delle donne, convinzioni così radicate che – ad esempio – fino al 1963 la professione di magistrato in Italia era preclusa alle donne perché “uterine”. Ecco perché si riteneva che le clitoridectomie fossero terapeutiche. D’altronde, varie forme di intervento sul corpo delle donne sono sempre state imposte sul loro sistema genitale e riproduttivo, per minare loro autonomia e libertà decisionale, oltre che la loro dignità e appartenenza; ne sono esempi – solo per citarne alcune – le sterilizzazioni forzate imposte alle donne appartenenti a minoranze, portatrici di disabilità e gli stupri di guerra.
Fortunatamente, i progressi della medicina poco alla volta smentirono tutte le credenze dietro alle mutilazioni genitali femminili – anche se nonostante tutto il Novecento è stato attraversato da pregiudizi che sono arrivati fino a noi e tuttora inquinano la ricerca scientifica – e nel 1865 persino Baker Brown si disse disposto a smettere di operare se le ricerche avessero smentito le sue ipotesi sugli effetti della clitoridectomia. Per lo meno il dubbio gli era venuto. Lo stesso anno, la London Surgical Home for Women decise di non eseguire più l’operazione, a meno che un’indagine professionale non ne confermasse la validità sulla base di quello che nel frattempo si era evoluto diventando il metodo di validazione scientifica. Così, complessivamente, negli anni Novanta dell’Ottocento la clitoridectomia venne sempre più esclusa dall’ortodossia medica dei Paesi europei e dei vari Stati americani; cosa che però non andò di pari passo allo smantellamento della convinzione secondo cui il corpo delle donne rappresentasse una deviazione dallo stato “normale” di salute e che andasse quindi medicalizzato di default, né contribuì a distruggere la volontà di controllarne la sessualità, e infatti le violazioni mediche dell’autonomia corporea femminile non si sono ancora fermate. Nonostante tutto, poi, in alcune aree degli Stati Uniti queste operazioni hanno continuato a essere praticate, in determinati contesti, addirittura fino agli anni Sessanta del Novecento.
La storia delle mutilazioni genitali in Europa e negli Stati Uniti è stata rimossa nel tempo e da quando, dalla seconda metà del secolo scorso, diversi Paesi europei hanno sperimentato l’inizio di un massiccio afflusso di immigrati che hanno portato con sé i propri usi e costumi, le pratiche di circoncisione femminile sono state ritenute loro esclusivo appannaggio attraverso una strategica mossa politica, volta a cancellare le responsabilità dell’Occidente. Conoscere quelle vicende, ricordandoci quanto poco sappiamo della nostra stessa storia, serve a mettere in dubbio questa prospettiva stereotipica incentrata sul nostro presunto ruolo di occidentali evoluti, civilizzati e civilizzatori, ricordando anche che la sessualità femminile ha sempre fatto paura, a tutte le latitudini, e che per sottomettere le donne si è sempre agito sui loro corpi. Così, indirettamente, si dipana una visione più ampia sul tema, che contribuisce a smontare anche alcune narrazioni ideologiche, che sfruttano a loro vantaggio i corpi delle donne per nutrire xenofobia e discriminazioni. Analizzando la storia della medicina e quella dell’emancipazione delle donne e della loro riappropriazione del proprio corpo – un percorso ancora lontano dall’essere concluso – si può comprendere meglio il ruolo delle mutilazioni genitali femminili e soprattutto i fattori che possono portare al loro superamento, che non si ottiene semplicemente vietandole, ma incentivando emancipazione, istruzione, ascolto e parità di genere e promuovendo un’identificazione alternativa.