Code ai caselli, stabilimenti balneari, flirt estivi, biliardini, spaghetti alla marinara e la sera gelato sul lungomare col golfino sulle spalle. Ad agosto Tg e video-tormentoni ripropongono, sempre uguale, l’iconografia dell’estate italiana, già celebrata in decine di film e commedie rosa. Elemento culturale unificante per la nazione, oggi quell’apparato iconografico è però mera celebrazione di un mito del passato. La chiusura estiva quasi totale delle città tipica dell’età fordista è un lontano ricordo, le vacanze sono sempre più brevi, le partenze sempre più intelligenti, le mete più variegate. E nei quartieri gentrificati più à la page emerge la tendenza delle staycations, le vacanze in città.
Di fronte al declino di questo topos della cultura pop che è l’estate italiana, è utile rievocarne le origini, per poi smettere di guardare al passato e affrontare con serenità il tepore dolce-amaro dell’estate post-fordista in cui stiamo entrando.
Prima dei juke-box e delle playlist YouTube, a scandire l’inizio e la fine dell’estate erano i campanacci pendenti al collo di vacche e pecore sulle vie di transumanza e d’alpeggio. Grandi masse di capi di bestiame si muovevano risuonando dai fondovalle ai pascoli d’altura, dai colli appenninici alle pianure costiere, in una sorta di tormentone estivo primordiale. Fiorivano feste, fiere, baccanali, momenti panici e dionisiaci, che insieme ai pellegrinaggi, rappresentavano le prime occasioni di vacanze low-cost per gli abitanti del contado. Per i ricchi borghesi e le tante piccole aristocrazie locali dell’Italia pre-unitaria c’erano invece le dimore estive di collina, i giardini d’estate, le palazzine di caccia. La balneazione marina non era ancora stata inventata e le spiagge rimanevano terreno di gioco per figli di pescatori.
E così scorreva l’estate italiana dell’era pre-fordista. Poi arrivò il boom manifatturiero. Nel giro di pochi decenni l’Italia divenne un paese di fabbriche, patron industriali e operai, con uno tra i più imponenti settori manifatturieri al mondo – anche se gli italiani non amano ammetterlo. Le spinte dell’economia industriale si fondevano con i retaggi agricoli e le antiche usanze delle aristocrazie locali, per dar forma al rito dell’estate italiana come oggi lo conosciamo: da un lato le città industriali in espansione, sempre più inospitali; dall’altro le stazioni di villeggiatura, prima accessibili solo all’alta borghesia tramite autovie e ferrovie belle époque, poi via via a porzioni sempre più vaste della popolazione urbana.
Il potente blocco industriale metalmeccanico spingeva verso la iper-motorizzazione di massa, per fare dell’Italia uno dei Paesi con la più alta percentuale di auto pro-capite al mondo; la conformazione della città-fabbrica fordista, refrattaria alle funzioni ricreative, generava desiderio di fuga; lo stesso sistema produttivo di fabbrica incentivava un’organizzazione del tempo a intermittenza, con impianti che chiudevano all’unisono, intere filiere di fornitura che andavano in stand-by. L’industrializzazione cambiava le forme dei riti d’estate, ma lo schema di fondo rimaneva lo stesso dell’Italia agraria, basato su un’accentuato bipolarismo città-campagna, collina-pianura, costa-entroterra.
Fu così che nella psicologia collettiva si insediò quel bug percettivo che per anni ha inquinato la nostra identità nazionale, in una sorta di schizofrenia geografica, per cui la città industriale sarebbe solo un luogo di lavoro, su cui non vale la pena investire emotivamente, da cui fuggire appena possibile. Il divertimento è altrove, il baricentro emotivo è altrove. Con le conseguenti prese di posizione: non mi interesso alla qualità della città in cui vivo, non me la godo a fondo, tanto poi ci sono le vacanze, tanto là fuori c’è la campagna, il mare, le montagne. La borghesia voltava le spalle alla città e le piazze italiane si trasformavano in comodi parcheggi: l’importante era avere posti auto a sufficienza per potersi mettere alla guida e scappare nei weekend e durante l’estate.
Il modernismo fascista diede un grosso impulso in questa direzione. Ammaliata dal futurismo, la borghesia industriale di destra spianò molti centri storici per far posto alle auto. Nel 1924 aprì l’AutoLaghi, la prima autostrada a pedaggio al mondo, inaugurata da re Vittorio Emanuele III in persona a bordo di una Lancia. Avveniristico nastro d’asfalto riservato ai soli veicoli a motore, l’AutoLaghi serviva a collegare la città-fabbrica con le residenze lacustri, proiettando l’Italia in una posizione d’avanguardia nella motorizzazione di massa legata al ricreativo.
I medici di famiglia facevano la loro parte nella costruzione del rito collettivo dell’estate italiana, prescrivendo soggiorni alle terme, bagni di iodio al mare, sole e aria pura di montagna per i gracili figli della borghesia urbana che cresceva tra gli impianti a carbone e a gasolio delle grandi città industriali iper-inquinate. A completare il quadro c’erano gli ultimi grand tourists che ancora arrivavano dall’estero e la tradizione delle vacanze scolastiche di tre mesi, eredità di quell’Italia “grande proletaria” in cui le famiglie nei mesi estivi reclamavano a sé i figli per il lavoro nei campi.
Nel dopoguerra, con il boom della società dei consumi, l’escapismo estivo assumeva dimensioni davvero di massa, interessando ora anche le famiglie operaie. All’AutoLaghi si aggiunsero l’AutoFiori e l’AutoSole e via via tutte le altre autostrade, ora affollate da utilitarie a basso costo. Il rombo dei motori a combustione interna e l’autoradio sovrastavano ormai del tutto il suono dei campanacci della transumanza. Le spiagge si popolavano di capanni estivi, poi industrializzati in stabilimenti balneari. Fiorivano stazioni termali convenzionate Inps, villettopoli costiere, nuovi villaggi montani con residence e unità abitative in stile chalet di montagna. I flussi di migrazione interna accentuavano la tendenza, introducendo il rito estivo del “ritorno al paese”.
Un dato su tutti basta a descrivere il bipolarismo geografico italiano: il primato della seconda casa. Con il suo 25% l’Italia è in cima alle classifiche mondiali per percentuale di possessori di duplici o triplici dimore. Un cataclisma per il territorio, con il suo corollario di pendolarismo di massa e di eccessi nel consumo di suolo. Relegata un tempo ai soli aristocratici e agli allevatori transumanti e alpeggianti, nel secondo dopoguerra la seconda casa è diventata un fenomeno che riguardava anche la piccola borghesia e la classe operaia. Con i risparmi degli anni del boom anche le famiglie appartenenti a quest’ultima erano in grado finalmente di ristrutturare la casa dei genitori ex-contadini per farsi la loro casetta di campagna.
Oggi tutto questo è cambiato. La città fordista non esiste più. L’auto non è più uno status symbol, le immatricolazioni crollano. Il rito delle ferie d’agosto è ancora ben vivo, ma le città post-industriali tornano a essere popolate anche d’estate, le vacanze si stanno scaglionando, la saturazione estiva delle località costiere si sta allentando, la tradizione della neo-transumanza estiva sta sfumando. Ed è inevitabile.
L’estate italiana ha agito per anni da copertura ideologica all’immobilismo e al fatalismo democristiano tipico del popolo italiano dalla Prima alla Terza Repubblica. La vacanza è stata per anni l’oppio dei popoli che stemperava le tensioni sociali e le frustrazioni esistenziali, facendoci sentire tutti un po’ signori; un’evasione temporanea, una performance collettiva che metteva in scena un cambiamento geografico-esistenziale ben circoscritto nel tempo. Ci siamo riempiti gli occhi di bellezze naturali, faraglioni e borghi storici della nostra Bella Italia per poi tornare tutti freschi e riposati alle nostre esistenze remissive in città malcostruite, fatte di palazzine post-belliche con affaccio su strade carrabili a scorrimento veloce.
Non conosciamo quale futuro ci riserverà l’era post-fordista che ci attende né quali saranno i rituali d’estate delle generazioni a venire. Probabilmente sarà tutto meno corale, i comportamenti più differenziati e frammentati in nicchie e sotto-nicchie globali. Di certo il ricordo dell’estate italiana come l’abbiamo conosciuta rimarrà con noi ancora a lungo, suscitando sentimenti di nostalgia e di odio.