Modelle dal fisico perfetto e dal volto angelico occhieggiano dalle pagine dei giornali, dai negozi di abbigliamento online, dai cartelloni pubblicitari. È facile percepire un senso di inferiorità estetica nella vita di tutti i giorni in una società che ha il culto della palestra e della dieta salutista, in cui gli ideali a cui aspirare sono le inavvicinabili star della passerella e del grande schermo, in cui si fatica a combattere il bullismo e si inizia appena a prendere coscienza dei danni del body shaming. Ci si sforza di essere inclusivi e si iniziano finalmente a diffondere, anche nella moda, esempi di corpi reali, di tutte le taglie e di tutti i colori. D’altro canto basta una foto su un social per decidere se scartare irrimediabilmente qualcuno per una relazione o se, al contrario, concedergli una chance oppure, si fanno i complimenti ai bambini dicendo loro che sono bellissimi e quasi mai lodandone l’intelligenza. Che il giudizio estetico continui ad avere un grosso peso è chiaro e negarlo sarebbe ipocrita, ma si attribuisce la stessa importanza a un giudizio sulle capacità intellettive di qualcuno?
Di fronte a una persona brutta – o, meglio, dai tratti irregolari e sproporzionati, perché un giudizio estetico ha sempre un margine di soggettività – è alta la probabilità che qualcuno sottolinei che, però, è simpatica, autoironica o intelligente e si levino cori di protesta verso l’impietosa valutazione; al contrario, se in un gruppo di amici qualcuno definisce stupida una persona assente, raramente gli altri si affannano a negare e a difendere il malcapitato. Non si vuole qui avvallare il giudizio, la condanna, la sentenza, sempre sbagliate e pericolose, su qualsiasi aspetto, ma riflettere sui motivi per cui essere brutti è considerata un’infamia peggiore di essere stupidi.
L’aspetto fisico è la prima cosa che notiamo in una persona, perché l’occhio è il primo dei cinque sensi a esercitare la sua funzione, anche a distanza – laddove, per esempio, un profumo avvolgente o una voce calda non arrivano – e senza necessità di contatto fisico né di interazione di alcun tipo. Prima, quindi, e a prescindere dai giudizi che di qualcuno possiamo dare sulla base dei pensieri interessanti che esprimono le sue parole o le sue azioni. Applicando i nostri metri di giudizio estetico agli sconosciuti, quel che vediamo influenza l’impressione complessiva che abbiamo di una persona, anche non necessariamente nei termini di un possibile partner sessuale: ci sono studi che dimostrano l’influenza dei modelli erotici della cultura di massa sul grado di attrazione che proviamo nei confronti di persone “reali” e, dall’altro lato, alcune ricerche dimostrano che i tratti del viso di qualcuno influenzano la fiducia degli altri nei suoi confronti. Per questo motivo, a un livello superficiale di conoscenza (che è poi quello che lega la maggior parte delle persone che si incrociano più o meno casualmente nel corso della vita), quando un individuo non ha tratti somatici nella media è come se l’interezza della sua persona fosse definita da una sola caratteristica, che sia il naso grosso o la bocca grande, con il risultato di trasformare l’umanità in un esercito di insicuri cronici alla costante ricerca di un corpo tonico, di una pelle giovane e di un sorriso luminoso.
Le discriminazioni sulla base dell’aspetto fisico non sono vietate (come invece quelle su base etnica o di orientamento sessuale), forse anche perché più difficilmente dimostrabili, considerato il margine di soggettività, ma esistono dei casi, anche eclatanti come quello dell’epurazione delle ragazze meno avvenenti da parte di un’associazione studentesca femminile di un’università americana nel 2007; e i riferimenti fatti da personaggi pubblici alla scarsa avvenenza altrui come mezzo di critica dimostrano quanto la bellezza sia un obbligo e un criterio socialmente accettato su cui basare giudizi di valore. Basti pensare alle critiche rivolte da Feltri a Greta Thunberg, definita una “racchia”, o da Rita Pavone, che ha sottolineato come l’attivista sembri “uscita da un film horror”.
Questo è tanto più grave considerando che si reputa brutto tutto ciò che si discosta dai canoni universalmente accettati e dominanti nei media, in particolare per quanto riguarda l’aspetto delle donne, ma non solo: tutto ciò che si allontana da un’ideale e irrealistica perfezione e ci ricorda che siamo esseri umani, con peli, cellulite, cicatrici, smagliature, lentiggini, doppio mento e occhiaie mette a disagio e va censurato in quanto tabù e i commenti sui social ne sono chiara dimostrazione. Persino le iniziative pubblicitarie dalle finalità inclusive come quelle di noti marchi di prodotti di cura del corpo che mostrano donne di etnie e taglie diverse e con segni particolari come le lentiggini, si inseriscono nella narrazione del tabù della bruttezza, confermandolo anziché scardinandolo. Invece di rivendicare un nuovo canone che ridimensioni l’importanza dell’aspetto esteriore in favore di un maggiore benessere fisico e psicologico, si convoglia il messaggio “tutte le donne sono belle”: la bellezza è ancora una volta l’obiettivo più desiderabile. Abbiamo un valore se siamo belli, quindi scoprire di essere belli o più belli di quanto noi stessi ci giudichiamo, ci rende felici. Il vero messaggio dovrebbe essere: sentiti bene e a tuo agio con il tuo corpo, sii sano, non importa se corrispondi o meno ai canoni per i quali si è reputati belli. Ma forse non venderebbe molto.
Mentre i canoni estetici si sono imposti con relativa facilità diffondendo a tutte le età il mito della giovinezza e in tutto il mondo il desiderio di tratti somatici occidentali e di corpi ipersessualizzati – come dimostrano le classifiche degli interventi di chirurgia plastica più richiesti – è difficile stabilire dei modelli ideali per quanto riguarda l’intelligenza. Gli esempi di personalità geniali non sono esaltati dai media con la stessa frequenza e spettacolarizzazione, perché non possono essere rappresentati visivamente, cioè attraverso il canale comunicativo più immediato e oggi dominante. A questo si aggiunge la percezione per cui sull’aspetto fisico si può lavorare, con la dieta, con i prodotti giusti e con il makeup, mentre sull’intelligenza il margine di manovra è più ristretto.
Nonostante bellezza e intelligenza siano due caratteristiche indipendenti l’una dall’altra, vi è ancora lo stereotipo (solitamente sessista) che le vede come opposte. Basta aprire un qualche forum dedicato per farsene un’idea: tra le domande che si incontrano frequentemente è ricorrente la discussione “è vero che i belli sono stupidi?”. Chi si sente rigettato dalla società perché fisicamente non all’altezza invidia chi è stato benedetto dalla genetica e lo percepisce come nemico. Ma, alla domanda “è meglio essere belli e stupidi o brutti e intelligenti?” tutti i membri del forum, che si definiscono “brutti”, confermano senza incertezze la prima opzione: chi è in qualche modo frustrato dalla propria condizione reputa stupidi i belli, ma vorrebbe essere come loro. Gli avventori di questi centri di aggregazione online ritengono l’avvenenza un desiderabile salvacondotto per il successo con l’altro sesso e per la felicità; che alcune situazioni si sblocchino di fronte alla gradevolezza è una realtà che dimostra, ancora una volta, quanto questa sia importante: nella società dell’apparenza, laddove non c’è bellezza ci sono frustrazioni e rancori, che si esprimono anche attraverso la terminologia utilizzata dagli incel, vittime e complici loro stessi del sistema basato sulla spietatezza del giudizio estetico.
Nonostante il grado di intelligenza, l’acutezza del pensiero e l’ironia possano determinare le capacità lavorative e il successo sociale e politico, lo stesso stigma sociale della sgradevolezza estetica non è percepito nei confronti della stupidità. È vero che entro certi limiti l’intelligenza può essere soggettiva, ma anche la bellezza lo è. Se l’evoluzione ci fa sentire attratti da persone esteticamente belle (con tratti del viso regolari e un corpo proporzionato, mediamente parlando, perché se si scende in dettagli si sconfina nelle preferenze personali) è perché inconsciamente si ritengono più sani e forti i suoi geni e dunque le si considera potenziali partner con cui generare una discendenza; si tratta dello stesso motivo evoluzionistico che spinge a trovare più attraente chi ha un corredo genetico diverso (ma non radicalmente) dal nostro e che ha all’incirca lo stesso grado di avvenenza che abbiamo noi; d’altro canto, la regolarità dei tratti ci attrae perché gli estremi suggeriscono mutazioni che potrebbero essere deleterie per la prole.
Da questo punto di vista sembrerebbe un cortocircuito dell’evoluzione non reputare respingente la stupidità tanto quanto lo è la bruttezza. Per quel che dovrebbe essere la norma nella ricerca di un partner si è addirittura inventato un termine, sapiosessuale, per indicare chi è attratto da intelligenza e cultura. Mentre la stupidità è guardata con compassione, anche con simpatia, e non necessariamente determina l’insuccesso nella vita (ci sono casi di famosi di successo definiti variamente stupidi), la bruttezza è associata più o meno inconsciamente alla bruttezza interiore, per l’antico adagio che associa al valore un aspetto esteriore piacevole: lo facevano già gli antichi Greci, con la definizione di καλοκαγαθία, kalokagathia, propria dell’eroe, l’essere bello e buono in tutti i sensi.
Nel 2007 Oliver Curry, uno scienziato evoluzionistico britannico della London School of Economics, sosteneva che la razza umana raggiungerà nell’anno 3000 il massimo grado di evoluzione, quando avrà sviluppato al massimo livello tutte le caratteristiche che attraggono gli altri; allora l’umanità si spaccherà tra un’élite di belli e intelligenti e un gruppo di brutti e stupidi. Lo studioso non chiarisce, però, se i due gruppi anche allora si giudicheranno spietatamente e porteranno rancore a vicenda o se avranno capito che accoglienza e inclusione sono le chiavi del vivere sociale.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 09/05/2019.