L’altro giorno in metropolitana ho visto una pubblicità. Elenco puntato: “Cofano funebre con imbottitura. Segno religioso e targhetta identificativa sul cofano. Carro funebre Mercedes Benz due posti. Quattro addetti necrofori al servizio. Trasporti all’interno del Comune di decesso. Denuncia di morte. Richiesta certificati di decesso. Offerta speciale: solo 1500 euro.”
Di solito non passo il mio tempo a pensare alla morte. Come per la maggior parte degli individui della mia epoca, la morte non è al centro dei miei interessi, ma quel listino prezzi per servizi funebri low cost ha catturato la mia attenzione. Esaminandolo bene, nella sua grafica rudimentale, nella sua più assoluta mancanza di ricerca estetica e di poesia, mi sono reso conto che quel che avevo di fronte era un documento di portata storica. Secoli di solenni cerimoniali che civiltà millenarie in tutto il globo hanno costruito intorno alla morte erano completamente sovvertiti e messi in ridicolo in quelle poche righe, chiuse da uno splash rosso per il prezzo: più irriverente di una danza macabra medioevale, mille volte più brutale del classico “Polvere siete e polvere ritornerete”. L’accostamento con pubblicità per trapianti odontoiatrici e tricologici non faceva che aumentarne la portata iconoclasta dell’annuncio.
La morte è un momento piuttosto deprimente della vita: un monologo interiore che si zittisce per sempre, miliardi di cellule che cessano di lavorare all’unisono, una lunghissima catena di sinapsi, parole e pensieri che sparisce nell’ignoto, gigabytes di conversazioni social e di flussi di dati user-generated che cessano per sempre di essere alimentati, destinati a rimanere raminghi su qualche server-farm lontana prima di essere un giorno per sempre cancellati. Per secoli il mistero della morte e la sua solennità hanno ispirato un sontuoso apparato iconografico e artistico: dalle avveniristiche opere ingegneristiche degli egizi fino al Requiem di Mozart e ai monumenti funebri di Canova, da sempre il rituale della morte ha dato da vivere a fior fior di maestranze artistiche: scultori, musicisti, lapicidi, poeti, cantori, maestri delle cerimonie, sacerdoti.
Quella mattina, osservando quella pubblicità in metro ho capito come doveva essersi sentito Ugo Foscolo di fronte agli Editti Napoleonici del 1806, altro documento epocale che più di duecento anni fa cambiò per sempre le norme sepolcrali, ispirando al sommo poeta quella interminabile sequenza di endecasillabi che ha appesantito la mia educazione tardo novecentesca: il carme Dei Sepolcri.
Lo smantellamento dei riti di morte cominciò forse proprio da quei decreti napoleonici che, ispirati al razionalismo illuminista, regolamentavano i luoghi di sepoltura: tombe lontane dalle abitazioni, in luoghi dedicati, sotto il controllo dalle autorità municipali, niente più sepolture domestiche e nelle chiese, lapidi tutte simili tra loro, tutti i cittadini eguali di fronte allo Stato, egalité di fronte alla morte, la grande livellatrice. La ventata illuminista spazzava via secoli di lugubri tradizioni oscurantiste e culti passatisti che avevano tenuto imbrigliate le società tradizionali in riti dispendiosi, spesso inutili, talvolta crudeli. Nel suo Dictionnaire Philosophique Voltaire deplorava le piramidi, futili “monumenti alla vanità e alla superstizione” che sovraccaricarono la società egizia con il peso colossale di quelle pietre mortuarie trasportate con manodopera schiavizzata.
Di sicuro gli illuministi non avevano tutti i torti. Ma come spesso è successo anche per altri riti di passaggio delle nostre vite come la procreazione e l’accoppiamento, anche in questa sfera il razionalismo illuminista-mercantile è andato molto più in là del necessario: burocratizzazione e standardizzazione dei riti mortuari e progressivo avvicinamento al settore smaltimento rifiuti speciali.
Privata del proprio apparato cerimoniale, l’industria mortuaria da allora ha perso gran parte della propria allure artistica e attrattiva economica per i lavoratori d’arte e d’ingegno e per lo showbiz. Salvo settori di produzione culturale specializzata – dal death metal all’horror e la cronaca nera – la morte vive oggi in un cono d’ombra mediatico, poco visibile, poco conosciuta.
In questo vuoto, la morte oggi è affidata all’industria medica e a quella delle pompe funebri. Il mercato è in crescita. L’invecchiamento della popolazione fa sì che nel mondo industrializzato il numero di decessi cresca di anno in anno: 647mila nel 2017 in Italia, 31mila in più del 2016.
L’industria farma-ospedaliera gestisce l’ante-mortem. Fino al XIX secolo l’aspettativa di vita media dell’uomo era simile a quella di uno scimpanzé. Oggi la scienza e la crescita economica hanno fatto sì che nessun mammifero terrestre viva più a lungo di noi. Una conseguenza non voluta di questo processo è stata la trasformazione della morte in un’esperienza medica. Il moribondo è un paziente e in quanto tale genera profitti per l’industria medica. I soldi arrivano dai rimborsi della sanità pubblica, dalle assicurazioni o direttamente dalle famiglie che pagano per le terapie. Più lunga è la malattia, maggiori i profitti: un incentivo economico all’accanimento terapeutico.
Nei paesi ricchi, gli umani trascorrono in media dagli otto ai dieci anni gravemente malati prima di morire, tra un crescendo di trattamenti per il prolungamento della vita. Grazie ai prodigi della scienza medica oggi un degente con morte celebrale può continuare a “vivere” anche per anni. In gergo la chiamano “ventilazione di cadaveri”. Come racconta The Economist, quasi un terzo degli americani che muoiono dopo i 65 anni trascorre più di tre mesi in un’unità di terapia intensiva. Quasi un quinto di loro è sottoposto a un intervento chirurgico nell’ultimo mese. Con il loro corredo di ansia, solitudine e cateteri, non sempre questi ultimi frangenti di esistenza iper-medicalizzata valgono la pena di essere vissuti. Come l’anziana oncologa Barbara Ehrenreich reclama nel suo recente libro Natural Causes, la riduzione della morte a un’esperienza medica a volte va a discapito della serenità, la dignità e la poesia di questo solenne momento di passaggio.
Certo il punto di equilibrio tra eutanasia e suicidio, tra staccare la spina e omicidio, rimane molto sottile. Nessuno vorrebbe un sistema di incentivi economici per affrettare la morte degli infermi. Ma una cosa è certa: qualcosa non va nella gestione attuale dell’esperienza ante-mortem. Secondo una ricerca di mercato condotta dalla Kaiser Family Foundation, solo pochi morituri dichiarano che, arrivata la loro ora, vorrebbero essere tenuti in vita il più a lungo possibile. Per la maggior parte dei rispondenti la priorità è morire senza dolore fisico, circondati da persone care, senza sentirsi un peso per i vivi.
Come per l’aborto, nel mondo si sta diffondendo un approccio pro-choice, in cui il morituro e le famiglie possono stabilire in autonomia quando e come sia giusto morire. Rimangono però molte zone grigie. Per esempio: quale organo vitale va preso in considerazione per definire il decesso? Cuore o cervello? Nell’Euro-America, dove prevale una visione cerebrale dell’esistenza, si predilige il cervello. Ebrei ortodossi e musulmani privilegiano il cuore: finché c’è battito c’è vita, anche in presenza di morte celebrale, anche se cuore e polmoni sono tenuti in funzione da macchine. Come nel recente caso di Shalom Ouanounou, dichiarato morto dal punto di vista celebrale, resuscitato per vie legali dai famigliari ebrei ortodossi e tenuto in vita da un respiratore per altri cinque mesi. Qualunque sia la predilezione individuale, è evidente che per i parenti, per un ospedale, per una compagnia di assicurazioni o per l’anagrafe c’è un problema: che una persona sia viva o morta non può essere un’opinione personale, vanno trovati criteri univoci. Il dibattito rimane aperto, insieme a quello sull’uso di farmaci che alleviano il dolore fisico delle fasi terminali. La quantità di droghe che è lecito somministrare a un malato terminale varia a seconda dell’atteggiamento delle società verso le sostanze stupefacenti, ma l’approccio generale sta andando verso un uso sempre più disinvolto di droghe, per fortuna di tutti.
Importanti sommovimenti investono anche il settore industriale del post-mortem. Con l’invecchiamento della popolazione, quella delle pompe funebri è un’industria in crescita. Malgrado non sia tra i più sexy, in epoca di crisi questo mercato inizia a far gola a tanti. Da qui la ventata di innovazione competitiva, che, partita da USA e UK, vede impegnata una congerie di venditori, esperti di marketing, service designer e immancabili start-uppers e business angels.
Una delle grandi novità è l’arrivo del low cost, da qualche anno anche in Italia, come dimostrava quella pubblicità in metropolitana. Nel mercato delle pompe funebri la scelta di acquisto tipicamente avviene in un momento di grande vulnerabilità emotiva, da responsabili d’acquisto non nella miglior disposizione d’animo per fare un attento benchmarking tra le varie opzioni. Così per anni il settore è rimasto terreno incontrastato di società che offrivano un servizio standardizzato, piuttosto scadente e con margini relativamente alti. Il costo medio di un funerale in USA è intorno a 10mila dollari: una grossa spesa per una famiglia media. Agguerriti operatori low cost stanno accorrendo in aiuto ai consumatori con offerte no-frills (senza fronzoli), pre-pagate (paghi in vita, uno sconto per te), all inclusive (no stress, ci prendiamo noi cura di tutto, senza costi occulti aggiuntivi, incluse certificazioni), sconti famiglia.
Insieme al low cost, a interessare il settore è anche la differenziazione. Ad oggi in Italia la scelta si riduce per lo più a “fuoco o terra”, cremazione o inumazione. I funerali tendono a essere tutti uguali, monotoni, procedurali. Il gesto simbolico del gettare la terra sul feretro è spesso sostituito dall’azione di ruspe o, vista la penuria di terreni per l’inumazione, da operai che cementano i mattoni di un cubicolo murario. Ma dagli USA stanno arrivando cataloghi sempre più variegati, rituali più curati. Lì, grazie a un sistema normativo più lasco e una maggiore abbondanza di suolo, sono sempre più à la page le sepolture naturali: corpi racchiusi in bare e sudari biodegradabili, interrati nei boschi o immersi negli oceani, per tornare a essere humus o cibo per pesci.
In USA amici e famiglie vivono spesso sparsi sull’intero continente e hanno bisogno di più giorni di preavviso prima di potersi ricongiungere intorno alla bara. Tra morte e cremazione possono trascorrere anche parecchi giorni. Da qui la necessità di imbalsamare il corpo iniettandovi formaldeide, una sostanza inquinante. Per ridurre le emissioni ecco dunque l’opzione eco-friendly, in cui l’imbalsamatura avviene con sostanze naturali. Altri sviluppi ammiccano invece ai consumatori di inclinazioni geek-tecnologiche. Come questa start up che per soli 2500 dollari può lanciare le tue ceneri nello spazio interstellare, o questa ditta che produce display touchscreen per funerali, dove gli astanti possono registrarsi nella guest list, scorrere foto ricordo, postare condoglianze, elargire donazioni.
A partire da duecento anni fa, il razionalismo illuminista e la scienza medica hanno progressivamente smantellato i cerimoniali di morte. Insieme ai lugubri eccessi delle società tradizionali ad essere smantellato però è stato anche il contorno che rendeva il rituale di morte una grande, liberatoria celebrazione della vita, per rinserrare le fila dei viventi e andare avanti uniti verso il baratro che prima o poi a tutti tocca. Quei rituali rappresentavano un passaggio di consegna tra generazioni, uno dei mattoni fondativi nella costruzione di senso della vita collettiva e di senso della storia. Qualcosa di quei rituali può essere recuperato.
Da parte mia, quando arriverà la mia ora, preferirei non essere attaccato a troppe macchine, essere abbastanza dopato per non sentire forti dolori e avere la serenità d’animo di fare come Anton Checov, il quale, come si racconta, una volta arrivato il suo momento, ringraziò i medici, li congedò, chiamò amici e parenti e fece stappare la migliore bottiglia di champagne, per un ultimo brindisi di addio prima di riposare in pace.