Era la sera del 29 ottobre 1945 quando il filosofo francese Jean-Paul Sartre fu invitato a tenere una conferenza pubblica sul tema L’esistenzialismo è un umanismo presso il Club Maintenant di Parigi. L’intento dell’autore – già molto celebre, in Francia come all’estero, per il successo del suo romanzo La Nausea del 1938 – era quello di portare le teorie filosofiche esistenzialiste fuori dalle aule universitarie, presso un uditorio più vasto e non specialista, e di contribuire a “mutare al tempo stesso la concezione sociale dell’uomo e la concezione che egli ha di se stesso”.
La manifestazione avveniva in un contesto sociale, politico ed economico completamente stravolto dalla Seconda guerra mondiale conclusa pochi mesi prima. La conferenza superò ogni più ottimistica aspettativa. Per averne un quadro chiaro, si può leggere il racconto (ironico) dato dal famoso romanziere Boris Vian all’interno del romanzo La schiuma dei giorni: “Fin dall’inizio della strada, la folla faceva a spintoni per riuscire a entrare nella sala dove Jean Sol-Partre avrebbe tenuto la sua conferenza. La gente escogitava ogni tipo di astuzia per eludere la sorveglianza […]. Alcuni arrivavano dentro un carro funebre. Altri si facevano paracadutare con aerei speciali. Altri ancora, infine, tentavano di arrivare passando per le fogne”.
Dal discorso tenuto da Sartre in quella occasione è stato tratto un resoconto stenografico, pubblicato (secondo alcuni, contro la volontà del filosofo stesso) l’anno successivo dalle Edizioni Nagel e intitolato, appunto, L’esistenzialismo è un umanismo. All’interno del volume – rispondendo ad alcune critiche che gli erano state rivolte soprattutto dai comunisti e dai cattolici – il filosofo espone le sue teorie filosofiche. Sartre afferma che l’esistenzialismo è tacciato di essere una dottrina “scandalosa” per il fatto che lascia una possibilità di scelta all’uomo.
Per gli esistenzialisti è l’esistenza a precedere l’essenza. Ciò significa che “l’uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo e si definisce dopo […], all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto”. L’idea del filosofo è in controtendenza rispetto al pensiero cattolico, per cui Dio crea gli uomini dotandoli di specifici caratteri che ne formano l’intrinseca natura; si contrappone anche alla psicoanalisi, al marxismo o a filosofi come Voltaire e Kant, che assumevano, pur con delle motivazioni differenti, l’idea dell’esistenza di una natura umana universale e invariabile. Per capire come questo pensiero sia scomodo e “sconvolgente” ancora oggi, basti ricordare che proprio il rispetto di una presunta natura e la demonizzazione di ciò che è presentato “contro natura” sono ancora oggi le basi di ogni discriminazione razziale o di genere.
L’individuo, dunque, si trova in un primo momento soltanto a “esistere”: egli è “gettato nel mondo” tra gli altri esseri, non ha particolari attributi, né un piano, una morale a priori che possa suggerirgli cosa fare o come comportarsi. È proprio l’assenza di Dio – sostenuta dagli esistenzialisti atei come Sartre o il tedesco Martin Heidegger – e di valori prestabiliti di riferimento a condurre l’uomo all’abbandono, cioè a costruirsi un “avvenire” in solitudine, creando da sé i significati (Fëdor M. Dostoevskij nel suo romanzo I fratelli Karamazov ha scritto che “Se Dio non esiste, tutto è permesso!”). Ma, precisa il filosofo, non per questo l’esistenzialismo deve essere inteso come “la dottrina del quietismo”, dell’inazione: dopo lo sconcerto iniziale, infatti, ciascuno di noi è chiamato a progettare se stesso, scegliendo quale forma attribuirsi: “L’uomo non è nient’altro che quello che progetta di essere, egli non esiste che nella misura in cui si realizza; non è nient’altro che l’insieme dei suoi atti, nient’altro che la sua vita […] egli è condannato in ogni momento a inventare l’uomo. È condannato a essere libero”.
L’etica sartriana assegna all’uomo tutta la libertà e, pertanto, gli affida la responsabilità totale della sua esistenza, di quello che è, di quanto fa. Non si può sfuggire da questa condizione se non attraverso la “malafede”, una menzogna raccontata a se stessi per mascherare una verità spiacevole, cioè la completa gratuità e la libertà del loro vivere. A farlo sono i lâches, cioè i vili, e – come li definisce Antoine Roquentin ne La Nausea – i salauds, vale a dire gli “sporcaccioni”: i primi si difendono con scuse deterministe come “le circostanze sono state contro di me, io valevo molto di più di quello che sono stato”, i secondi ritenendo di avere diritto all’esistenza, di essere chiamati per realizzare una missione. D’altronde, scrive il filosofo: “La gente vuole che si nasca o vili o eroi. L’esistenzialista, invece, dice che il vile si fa vile, che l’eroe si fa eroe. Quando descrive un vile, dice che questo è responsabile della sua viltà; […] non è così per il fatto che ha un cuore, un polmone o un cervello vile; non è così in base ad una particolare organizzazione fisiologica: è così perché coi suoi atti si è dato la forma di un vile”. C’è un altro modo utilizzato per fuggire dalla responsabilità del proprio operato: risiede nel non-scegliere, evitando di prendere posizione. Ma il rifiuto di fare una scelta è, esso stesso, una scelta. Scegliere di non-scegliere significa comunque scegliere: “fossimo anche muti e quieti come sassi – scrive in un altro lavoro il filosofo – la nostra passività sarebbe ugualmente un’azione”.
All’interno de L’Esistenzialismo è un umanismo Sartre pone ripetutamente l’attenzione sul singolo uomo, esaltandone la libertà di valutazione e di scelta. Con questo, tuttavia, non bisogna pensare che la sua filosofia venga meno alla solidarietà umana, considerando l’uomo solo come isolato nella propria individualità. Al contrario, egli tende a sottolineare che l’individuo, nel momento in cui compie una scelta per sé, in realtà si sta impegnando per tutti gli uomini, sceglie per ognuno. Attraverso i nostri atti non creiamo solo l’uomo che vogliamo essere, ma anche l’immagine dell’uomo quale noi crediamo che debba essere: “Se io sono operaio e scelgo di far parte di un sindacato cristiano piuttosto che essere comunista; se, con questa mia scelta, voglio mostrare che la rassegnazione è la soluzione che conviene all’uomo, che il regno dell’uomo non è su questa terra, io non metto in causa solo il mio caso personale: io voglio essere rassegnato per tutti e, di conseguenza, il mio atto ha coinvolto l’intera umanità”.
Se è chiara l’importanza che il filosofo esistenzialista attribuisce all’impegno e alla responsabilità, si comprende bene anche la volontà di fondare negli stessi anni la rivista politica e letteraria Les Temps Modernes. Che non si trattasse di un periodico comune, simile a molti altri che circolavano al tempo negli ambienti parigini, era facile capirlo già leggendo i nomi del comitato direttivo: oltre Sartre, ne facevano parte Simone de Beauvoir, Jean Paulhan, Maurice Merleau-Ponty, Raymond Aron, Albert Olivier, Michel Leiris.
L’intento del filosofo – come appare chiaro dalla combattiva Présentation – è quello di smuovere dalla propria inerzia esistenziale lo scrittore del tempo, di origine borghese, che si è posto l’obiettivo di scrivere delle opere gratuite, assolutamente prive di radici, collocandosi ai margini della società; o ancora l’autore che, “troppo timorato per levarsi contro la borghesia che lo paga e troppo lucido per accettarla senza riserve”, ha deciso di prendere le distanze dal secolo in cui vive, limitandosi a osservarlo da una distanza di sicurezza. La letteratura, invece, ha una funzione sociale ben precisa: è engagement, cioè impegno; le parole stesse devono apparire sul foglio come delle “rivoltelle ben cariche”. “Lo scrittore – scrive Sartre – ha scelto di svelare il mondo e, in particolare, l’uomo agli altri uomini, perché assumano di fronte all’oggetto così messo a nudo tutta la loro responsabilità”. Attraverso la produzione dell’autore, nessun uomo può più dirsi innocente o ignorare le ingiustizie sociali, civili e politiche.
Les Temps Modernes nasce per prendere una posizione chiara: “È il futuro della nostra epoca che dev’essere oggetto delle nostre cure: quando finirà la guerra? Come si ricostruirà il Paese? Quali saranno le riforme sociali? Verrà la rivoluzione, e quale? […] È nostra intenzione concorrere a produrre certi mutamenti nella Società che ci circonda”. Sartre si schiera, in maniera a tratti violenta, proprio contro l’adesione passiva al corso della loro epoca di alcuni illustri intellettuali del passato. È la loro indifferenza, l’assenza di impegno a turbarlo: “Io ritengo Flaubert e Goncourt responsabili della repressione che seguì la Comune perché non hanno scritto una riga per impedirla. Non era affar loro, si dirà. Ma il processo di Calas era affare di Voltaire? La condanna di Dreyfus era affare di Zola? L’amministrazione del Congo era affare di Gide? […]. Lo scrittore è ‘in situazione’ nella propria epoca: ogni parola ha i suoi echi. Ogni silenzio anche”.
Le riflessioni espresse dal filosofo francese nel suo pamphlet e all’interno del manifesto della rivista possono darci, ancora oggi, preziosi consigli. La nostra epoca appare come immobilizzata, inerte nei confronti di alcune gravi problematiche come le discriminazioni razziali e di genere, l’emergenza climatica, la cultura del superlavoro. Percepiamo la nostra azione come un compitino, qualcosa di infinitesimale e perciò inutile per la risoluzione del problema: talvolta, facendo sfoggio dei propri privilegi, si preferisce deridere chi scende in piazza per l’ambiente o perché ha deciso di non sottostare all’etica degli schiavi, come la definisce Russell ne L’elogio dell’ozio, ed esige tutele dei diritti ed incrementi di salario. In altri casi ci affidiamo a una rassegnazione giustificata dalla nostra impotenza di fronte alla volontà divina. “Ciò a cui Sarte invita a rinunciare – scrive Moreno Montanari nell’Introduzione a L’esistenzialismo – non è tanto Dio in quanto tale, ma quel “Dio-tappabuchi” che Dietrich Bonhoeffer denunciava come comodo rimedio per uscire dall‘impasse della vita”. Altre volte ancora, al posto di affrontare un enorme problema come il femminicidio e la violenza di genere, tanti si nascondono dietro a slogan de-responsabilizzanti come “Not all men”, o addirittura negando l’esistenza dell’emergenza.
Anche l’informazione è chiamata all’assunzione delle proprie responsabilità: quello che è successo nelle ultime settimane con l’allarmismo infondato dei mass-media intorno al vaccino Astrazeneca, che ha avuto non solo l’effetto di aumentare la psicosi fra le persone, ma ha spinto la politica stessa a prendere decisioni avventate, rallentando una campagna vaccinale già in ritardo, è l’esempio perfetto e drammatico di cosa succede quando ciò non avviene.
L’etica che ci ha lasciato Sartre in eredità può quindi diventare uno strumento indispensabile per ragionare proprio su questo: ora più che mai, siamo chiamati all’impegno, a prendere una posizione chiara e ad affrontare con responsabilità il peso della scelta. Non è più il momento per le scuse che continuiamo a raccontarci: “l’uomo è responsabile di tutto”.