Un po’ di anni fa mi trovai a leggere un libro dalla copertina color carta da zucchero, uscito in allegato con L’Unità. Non era mio, e quando fu il momento di separarmene mi dispiacque così tanto che invece di restituirlo agli scaffali del proprietario, mi infilai il romanzo nella tasca del cappotto.
Io avevo ventidue anni, L’amore molesto quasi quindici, ed ero appena arrivata a Napoli: questo è stato il mio primo incontro con Elena Ferrante. Ho continuato a leggerla nel tempo, stavolta acquistando i suoi libri e recuperando i film.
Poi, nel 2011, arrivò L’amica geniale. E mano a mano che uscivano Storia del nuovo cognome, Storia di chi fugge e di chi resta e Storia della bambina perduta, le cose sono cambiate, e non solo per me. In una sorta di reazione allergica, smisi di leggere Ferrante. Non m’irritava lei, di cui ogni tanto andavo a riprendere un vecchio libro. M’irritava la critica riguardo ai nuovi, quelli di successo internazionale: le Neapolitan Novels.
Nei primi vent’anni di produzione letteraria – L’amore molesto è del 1991 – la critica all’opera di Ferrante era sostanzialmente italiana, in genere positiva e, soprattutto, incentrata sulla capacità narrativa dell’autrice e sui temi da lei trattati. Eppure, qualunque fosse la storia raccontata, emergeva sempre il tema dell’identità: la sua. Se Elena Ferrante se ne era disfatta a livello autoriale, scegliendo uno pseudonimo e rifiutando la parte pubblica – per non dire promozionale – dell’ambito letterario, lei stessa continuava a tornarci nei suoi scritti, quasi a colmare la distanza tra il racconto e la vita che ne stava fuori. Ma voci, allusioni e smentite a riguardo all’epoca erano poche e sommesse, come pettegolezzi: t’arrivavano solo se andavi a cercarle e ti lasciavano libero di pensarla come meglio credevi. L’esistenza di Elena Ferrante al fuori dalle pagine non aveva l’appeal che ha oggi.
Negli anni successivi però, mentre le Neapolitan Novels venivano pubblicate all’estero, mentre il New Yorker, la Paris Review e il Guardian s’interessavano al fenomeno, contribuendo alla sua nascita e crescita, mentre in America la traduttrice Ann Goldstein diventava la più prossima personificazione dell’autrice senza volto, mentre nel 2014 la rivista Foreing Policy la inseriva tra i 100 pensatori più influenti del mondo “per aver scritto romanzi anonimi e onesti” e, nel 2016, il Time faceva lo stesso, in Italia pareva fossimo divenuti capaci di una sola domanda: chi è Elena Ferrante? All’estero, Jonathan Franzen, Elizabeth Strout, Hillary Clinton ne lodavano lo stile potente e ipnotico, ne consigliavano la lettura scrivendone, parlandone con i giornalisti e, più di recente, anche con il docu-film Ferrante Fever. Nel nostro Paese, secondo appassionate comparazioni di opere e rimandi non solo stilistici, L’amica, prima ancora che da una recensione positiva e negativa, veniva scalzata dalla più inesorabile ricerca d’una carta d’identità (o più d’una). Altrove, scrittrici come Jeanette Winterson denotavano malizia e sessismo dietro queste indagini. Ma in Italia, i cori di “lasciatela scrivere in pace” e “non ci importa” venivano etichettati come patetici o interessati.
Quasi si trattasse di un farmaco di cui leggere prima posologia ed effetti collaterali, dietro la variabile Ferrante è stato possibile scorgere, giunti e disgiunti tra loro, Goffredo Fofi e Mario Martone, poi Domenico Starnone, Marcella Marmo, Anita Raja e persino la coppia di editori Sandro Ferri e Sandra Ozzola della E/O Edizioni, che sarebbero stati capaci non solo di pubblicare tutti gli scritti, ma, secondo alcuni, anche di scriverli. Questo solo per citare alcuni dei nomi tirati fuori dal paniere in maniera direttamente proporzionale al successo della tetralogia. Le smentite sono state varie per ognuno dei sopra citati: basti dire che per Starnone, quello di “Io non sono Elena Ferrante” è diventato un mantra che è ancora costretto a ripetere in occasioni pubbliche, come è successo all’ultima edizione del Festivaletteratura di Mantova.
Allo stesso modo, sono poi comparsi i primi pareri discordanti sulla composizione e la struttura dell’opera. Molti giornalisti e critici l’hanno letta e sostenuta: Annalena Benini ne ha scritto a più riprese, Roberto Saviano ha candidato Elena Ferrante al Premio Strega 2015 (Ferrante rispose e accettò) e proprio a partire da quella candidatura e della reazione di alcuni giurati, Tiziana de Rogatis ha portato avanti studi approfonditi, chiedendosi: “Chi ha paura di Elena Ferrante?” C’è anche un asse italo-americano composto da HBO, Wildside, Rai e Fandango per dare vita a una serie TV tratta dalla tetralogia, diretta da Saverio Costanzo.
Eppure, allo stesso tempo, a Elena Ferrante sono stati fatti diversi appunti sulla qualità letteraria, le è stato rimproverato a più riprese uno stile elementare, una voce piana, riabilitata dalle traduzioni, adatta a chi legge poco e non ha grosse pretese. La diffusione dei suoi ultimi 4 libri è stata presentata a riprova non solo di dubbia qualità, ma di un’operazione puramente commerciale, studiata a tavolino da un mefistofelico autore di sesso maschile. Le tematiche, invece, per quanto ricorrenti nel corso di tutta la produzione Ferrante, sono diventate al femminile, rosa, fino a ridurre L’amica a poco più di un pretenzioso, noioso Harmony in salsa mediterranea di cui è possibile capire tutto fin dalla copertina. Infine, Napoli: la prepotente, viscosa, sporca Napoli in cui si vive in maniera tollerabile solo se si ha a disposizione un certo patrimonio è stata segnalata come ennesima macchia su un vestito che fa difetto da più parti ed è comunque un capo da grande magazzino, non certo adatto all’élite.
Il punto non è se queste critiche siano lecite o meno, giuste, veritiere, cosa che ogni lettore ha la possibilità e il diritto d’appurare da sé leggendo o, quanto meno, provando a leggere. Il punto dev’essere chiedersi perché, in un’Italia in cui ogni rapporto Istat su produzione e lettura di libri equivale a rendicontare una generale “moria delle vacche”, la tetralogia di Elena Ferrante e il suo successo non rappresentano un vanto, ma quasi una vergogna.
“L’amica geniale,” mi è stato detto, “sei tu”. E la cosa, più che un complimento, sembrava una constatazione, non so dire se positiva o negativa. Era andata di pari passo alle indiscrezioni, alle critiche e agli elogi, paralleli all’uscita dei diversi volumi, nei quali, in passato, mi sarei tuffata per capire se mi ci ritrovavo. Stavolta invece non sapevo come prenderla, temevo di scoprire cose bruttissime non solo sul romanzo, o su chi l’aveva scritto macchinando una sorta di House of cards della narrativa italiana, ma su di me. Prima ancora di dare una scorsa alle 300 e più pagine, feci quello che fanno tutti: cercai su Google.
1700 e più pagine in un mese e mezzo: la scrittura tanto bistrattata era fluida, lo stile vituperato era lo stesso che ricordavo sin dall’incipit:
“Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno.” (L’amore molesto, 1991)
“Un pomeriggio d’aprile, subito dopo pranzo, mio marito mi annunciò che voleva lasciarmi.” (I giorni dell’abbandono, 2002)
“Stamattina mi ha telefonato Rino, ho creduto che volesse ancora soldi e mi sono preparata a negarglieli. Invece il motivo della telefonata era un altro: sua madre non si trovava più.” (L’amica geniale, 2011)
Anche nel caso della tetralogia, l’arco della narrazione era imperniato sulla maturazione dell’identità dei personaggi e sulla storia, e andava ben oltre le tematiche “sole-cuore-amore” a cui veniva ricondotta sistematicamente. In ogni caso, i rimandi ai romanzi precedenti, romanzi che molte meno critiche sul tema avevano ricevuto, erano evidenti. Ad esempio, sul tema del sesso:
“Consumiamo e perdiamo la vita perché un tale in tempi lontani, per voglia di scaricarci dentro il cazzo, è stato gentile, ci ha eletto tra le donne (…)” (I giorni dell’abbandono, 2002)
“Voleva comunicarmi che il tempo delle pretese era finito, che caricare il piacere con la responsabilità era una stortura (…)” (Storia di chi fugge e di chi resta, 2013)
Altri temi, come la politica o la criminalità, la competizione rabbiosa e insieme sfottente connaturata a entrambe, lo studio, il lavoro intellettuale e quello che si distingue più per il sudore che per l’ingegno necessario a portarlo avanti, occupavano altrettante pagine se non di più e non avevano genere, solo declinazioni. E, meraviglia, erano presentate, sbrogliate, affrontate, dal punto di vista d’una bambina, d’una ragazza, d’una donna, d’una signora che cerca soprattutto una cosa: capire se stessa e capire gli altri.
“Mi imposi una disciplina ferrea, molto più dura di quella che mi ero data fin dall’infanzia. Tempo scandito, una linea retta cha andava dall’alba fino a notte fonda. In passato c’era stata Lila, una continua felice deviazione verso territori sorprendenti. Ora tutto ciò che ero volevo ricavarlo da me. Avevo quasi diciannove anni, non sarei mai più dipesa da nessuno, e di nessuno avrei mai più sentito la mancanza.” (Storia del nuovo cognome, 2017)
Perché non chiedersi, discutere o anche gioire, del personaggio Elena Greco, piuttosto che tentare metaforicamente di mangiar vivo il personaggio Elena Ferrante? Mi sono chiesta. E poi c’era la città.
“In quel periodo mi convinsi che non c’era grande differenza tra il rione e Napoli, il malessere scivolava dall’uno all’altra senza soluzione di continuità (…) il rione rimandava alla città, la città all’Italia, l’Italia all’Europa, l’Europa a tutto il pianeta.” (Storia di chi fugge e di chi resta, 2013)
Chiunque abbia provato a raccontare Napoli ha dovuto vedersela con le conseguenze della sua narrazione, usata sempre fuori contesto e fin troppo spesso da chi cerca una giustificazione, un accomodamento, un prodotto o una morale pronta all’uso, unica e per questo pericolosa. Elena Ferrante chiunque lei sia, lo sa. Lo sa al punto che fa vivere questa situazione alla sua protagonista. Ma pur raccontando di una zona che è a dieci minuti, a passo spedito, da dove sono ora, pur menzionando avvenimenti noti e ancora attuali, pur descrivendo situazioni tipiche della vita in questa città e in certi suoi quartieri, Ferrante mi dava l’impressione di parlarmene per la prima volta.
La Napoli de L’amica è consequenziale, si manifesta come un tratto che il carattere finisce per prendere costretto dall’esperienza, quella della crescita, dell’affermazione di sé, della scoperta, del distacco e della fuga, del restare e del tornare. Le Neapolitan Novels non parlano di questa città. Piuttosto, Napoli è la loro l’ambientazione principale: la storia la tiene su come un’impalcatura, la fa comparire nei dialoghi, nei volti, nei fatti più che nelle descrizioni, fino a diventare un altro oggetto d’indagine, quella sui luoghi di Elena Ferrante con tanto di guida del New York Times, reportage del Guardian e pacchetto turistico “geniale”, come quello proposto dall’Hotel Romeo qualche tempo fa. La verità è che non il Rione Luzzatti, non le strade di Lenuccia, di Lila ed Enzo, Stefano o Marcello, ma quello che Lenuccia, Lila ed Enzo, Stefano o Marcello possono aver visto da lì, mentre crescevano, l’abbiamo visto anche noi: è periferia incastrata all’ingresso della città, tra la Stazione Centrale e il Centro Direzionale, scenari presenti anche in Gomorra.
Durante la lettura s’innesca un altro processo, uno che oggi sembra riservato, se non in rari casi, solo a una serie TV. E anche questo ha fatto inorridire molti. È la maratona, l’attesa. Anche con tutti i volumi già usciti, disponibili in libreria in edizione integrale, ci sono persone che si pungolano tra loro, si sollecitano alla lettura, per capire come va a finire e poterne poi discutere. E hanno età diverse, sono di sesso diverso. Vuoi vedere che i colpevoli sono loro, per non aver incespicato lungo quasi duemila pagine, per non aver avuto la necessità di tornare indietro a rileggere un certo passaggio, per essersi goduti la lettura per quello che è?
Conclusa la tetralogia, io, prima di tutto, mi sono maledetta per essere arrivata alla fine troppo presto. E mentre scandagliavo le librerie alla ricerca di qualcosa che s’avvicinasse anche solo un po’ a Elena Ferrante, dopo il fanta-casting della serie TV con un paio di amici, ho dovuto arrendermi a un’evidenza: per me e solo per me, Lila aveva già una faccia, un modo di parlare, le sembianze di una certa attrice; in Lenuccia m’ero riconosciuta fin troppo; fin dalla forma del naso, Nino aveva preso le sembianze di quell’ex di cui non sapevo mai dire se fosse Satana o l’arcangelo Gabriele; il rione, prima ancora di rendermi conto di quanto fosse fisicamente vicino a me, lo avevo in testa e sulla pagina. Perché avevo preteso, o mi era stato fatto credere, di dover pretendere qualcosa in più o qualcosa in meno da un libro?
Non l’Amica geniale, ma l’amica Ferrante ha spalancato per tutti, lettori, critici, giornalisti, le porte dell’immaginazione, del pensiero, della ricerca. Ci ha fatto dubitare, ci ha spinto a chiederci non solo come sarebbe andata a finire la storia che raccontava, ma anche della sua faccia, del suo nome, del marchingegno che ci potrebbe esser dietro. E ci è riuscita attraverso la sua scrittura fatta persona e fatta libro, come succede in Fahrenheit 451. Che il libro ci sia piaciuto o meno, l’abbiamo letto, lo stiamo leggendo tutti, anche chi crede di no. Di sicuro c’è chi ha tentato di darlo alle fiamme.