La storia di El Chapo, il narcos più ricercato al mondo
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3 marzo 1993, Queens, Stati Uniti
È pomeriggio e a Gladys Claudio, il proprietario del Madalax Real Estate, dicono che qualcuno vuole vederlo. È un ragazzo dai tratti sudamericani, che entra nell’ufficio sul retro, spara quattro colpi di pistola in faccia a Gladys ed esce. Non aveva nemici, era un banale agente immobiliare.

2 dicembre 1993, Brooklyn, Stati Uniti
In un vicolo viene trovato il corpo di Vladimir Beigelman, anche lui ucciso con quattro colpi in volto. Stesso calibro, stessa rigatura dei proiettili. Lui era un pregiudicato per spaccio e possesso di cocaina. Dopo anni di indagini, emerge che l’autore degli omicidi è Guillermo Benitez-Zapata, un sicario della malavita messicana. La Dea inizia così a seguire le sue tracce, incappando in una storia nata molti anni prima.

1960, Messico
Nel Paese sta nascendo la Guerra sporca; gruppi di guerriglieri comunisti del Partito Rivoluzionario Istituzionale si contrappongono al governo, che risponde con violenza e torture. Lontano dalle città, sulle montagne della Sierra Madre, c’è un paesino chiamato La Tuna; le case sono di fango, non ci sono né acqua né corrente elettrica e l’unico mezzo di trasporto sono i muli, perché anche i cavalli costano troppo. È uno di quei posti dimenticati che si vedono nei film western, con abitanti in tunica di lino, sandali e mosche. Joaquin Guzman è un bambino di tre anni con tanti fratelli e sorelle; la madre, Consuelo, li sfama a fagioli e mais, il poco che la terra offre. Le scuole sono poche e distanti chilometri, che vanno percorsi a piedi. Joaquin lascia perdere l’istruzione molto presto, e a dieci anni già trasporta su e giù per le colline ceste di mandarini da vendere per qualche peso. Magari agli agricoltori come suo padre, che sudano sulle colline rosa per coltivare papaveri. Li chiamano gomeros, in riferimento alla pasta nera che estraggono dai germogli per ricavarne l’eroina. È un lavoro poco redditizio e il padre di Joaquin beve tutto quello che guadagna. Joaquin, per raggranellare qualche soldo, coltiva marijuana assieme a suo cugino e la vende a chi capita, poi, appena ha il fisico per sopportarlo, a quindici anni diventa a sua volta un gomero. È il 1973, e gli Stati Uniti in piena controcultura hanno fame di droga, nonostante Nixon abbia lanciato la guerra agli stupefacenti e fondato la Dea nel 1971; il mercato cresce, Joaquin anche. Si fa notare dai narcotrafficanti del cartello di Guadalajara, comandati da “El Padrino”, soprannome di Miguel Angel Felix Gallardo, un ex poliziotto federale diventato il boss dei boss del narcotraffico messicano anche grazie ad alte coperture governative; prende la coca da Escobar e la fa arrivare negli Stati Uniti e in Europa.

Miguel Angel Felix Gallardo

Joaquin è giovane, ma si distingue subito per velocità, inventiva e ferocia, meritandosi il soprannome di “El Chapo”, riferito alla sua statura bassa ma massiccia. In poco tempo diventa uno dei più fidati uomini di Felix, soprattutto per la sua spietatezza e determinazione. Siccome tra i criminali messicani corruzione, tradimento e inganno sono una forma mentis radicata, El Chapo per farsi rispettare impone una regola: se la consegna di soldi o droga arriva in ritardo, si uccide il corriere. Dopotutto, se una cosa non manca, in Messico, è la manodopera. El Padrino lo sceglie come suo fedelissimo assieme a Rafael Caro Quintero, e a loro insegna tutto quello che sa.

Rafael Caro Quintero

Innanzitutto, il narcotraffico funziona solo con l’aiuto dei governi, indipendentemente da quello che dicono in pubblico. El Padrino è protetto dal governatore in cambio di mazzette, così come le forze di polizia e funzionari dell’esercito. I soldi, una volta presi, vanno lavati e resi, se non giustificabili, almeno non tracciabili. Inoltre, la popolazione fa la differenza tra un criminale arrestato e un benefattore protetto: nei paesini del triangolo d’oro vengono costruite strade, case, parchi, scuole. Quando El Chapo si presenta alle feste di paese, lancia mazzi di banconote sulla folla; sui narcos si scrivono canzoni romantiche che li ritraggono come novelli Zorro, creando un clima di omertà e collaborazione passiva assoluta. Un cantante ed ex maestro in una comunità vicina a Badiraguato, Baldomar Caceres, dice che El Chapo “È un leader, un eroe per molti perché è partito dal basso, povero e paesano, e ora aiuta la gente. Costruisce strade dove c’era solo fango, paga l’ospedale agli ammalati”. Gli stipendi di politici e poliziotti non possono competere con tangenti che decuplicano il loro mensile e in cambio di qualche arresto di facciata concordato prima, tutto funziona a meraviglia. L’unico problema sono gli altri cartelli emergenti che si contendono il mercato, ma sono questioni che vengono risolte con il piombo senza che quasi nessuno protesti; non importa che i narcos si combattano e uccidano tra di loro, o vendano droga ai loro figli, se possono avere un’automobile di lusso e il viottolo di casa riasfaltato. El Padrino e il suo erede, però, non hanno freni. Un pomeriggio del 2 dicembre 1984, alla porta di Joaquin si presentano quattro testimoni di Geova; sono americani, due uomini e due donne. Joaquin crede che siano agenti della Dea in cerca di informazioni. Una volta fatti entrare, tortura gli uomini e stupra le donne; alla fine li uccide tutti e quattro con un colpo di pistola alla nuca e poi fa sparire i corpi. Aspetta qualche tipo di reazione da parte delle autorità – che in effetti arriva, ma per caso. Completamente all’oscuro della strage, l’agente della Dea Enrique “Kiki” Camarena trova il Rancho Búfalo, sorvolando la zona con un aereo da ricognizione. È una tenuta enorme, dove riconosce ettari di piante di marijuana. Organizza un blitz assieme alle forze speciali messicane e verso la fine del 1984 lo assalta, arrestando tutti e dando alle fiamme 10mila tonnellate di droga, causando così ai narcos una perdita d’introiti di svariati milioni di dollari. La risposta non si fa attendere.

El Chapo
Enrique “Kiki” Camarena

7 febbraio 1985, Messico
Kiki Camarena esce dall’ufficio per pranzare con sua moglie. Non molto distante dal consolato americano, una macchina gira l’angolo ed escono cinque uomini, che si presentano come poliziotti del Jalisco e gli dicono che “El comandante” vuole vederlo. Quando Camarena risponde che il protocollo prevede prima una notifica, uno dei cinque gli mette un giubbotto in faccia, lo prendono di peso e lo gettano dentro un furgone Volkswagen. Contemporaneamente, Alfredo Zavala, il pilota che ha condotto Camarena sopra il Rancho Búfalo, da un’altra parte della città sale in macchina, ma prima che riesca ad avviare il motore due uomini armati di AR-15 aprono le portiere, occupano il sedile posteriore e quello del passeggero e gli intimano di partire. Dopo qualche ora, la Dea annota la sua scomparsa e inizia a cercare Camarena in collaborazione con la polizia messicana, guidata dal comandante Jorge Armando Pavón-Reyes. È inutile: Pavón è dalla parte dei Narcos, ha già ricevuto una tangente di 300mila dollari per aiutare la fuga di prigione di Rafael Quintero. Durante il processo per la morte di Camarena, in aula verranno ascoltate le due ore registrazioni audio delle torture al poliziotto e al suo pilota. Un testimone confesserà che, durante il pestaggio, il fisico Humberto Àlvarez Machain, somministra Lidocaina ai due prigionieri per non permettergli di svenire dal dolore, e rimanere coscienti; i loro corpi verranno ritrovati solo un mese dopo, tumefatti. A quel punto, Washington ordina alla Dea di interrompere le indagini e lasciarle in mano al governo messicano. La Dea finge di accettare, ma in realtà inizia a selezionare con cura gli uomini affidabili all’interno della polizia messicana, li contatta e pianifica con loro l’operacion Leyenda. Pavón Reyes viene arrestato insieme a tredici poliziotti: tutti vengono interrogati con metodi non proprio convenzionali, tanto che uno di loro muore. Ma le risposte iniziano ad arrivare: gli uomini dietro il sequestro sono El Padrino e i suoi luogotenenti Ernesto Fonseca, Rafael Quintero ed El Chapo. Eppure c’è qualcosa che non va: bisognava sapere dove si trovasse l’ufficio di Camarena, sapere se pranzasse lì o fuori, a che ora uscisse normalmente per la pausa, sapere che quel giorno a quell’ora sarebbe andato a pranzo con sua moglie e dove, conoscere il percorso che faceva per arrivarci, se fosse scortato o armato, studiare il posto migliore per l’agguato, preparare la trappola con uomini fidati e portare il furgone nel luogo esatto dopo un necessario sopralluogo che assicurasse che la polizia e l’esercito non pattugliassero regolarmente la zona. È possibile che dei narcotrafficanti con la seconda elementare abbiano organizzato un simile piano? Sequestrare un agente della Dea per strada in pieno giorno non è come sequestrare un contadino. E anche se avessero saputo tutte queste cose, perché non farlo prima? Non sono mai state rese pubbliche né esistono testimonianze della pianificazione del sequestro. Forse i Narcos sono andati in giro per la città a caso con un furgone, forse hanno ricevuto un’imbeccata dalla Cia, forse l’intero sequestro è stato pianificato dalla Cia e loro hanno solo eseguito. Chissà. C’è di sicuro qualcosa che non torna e mancano troppe informazioni per dare giudizi.

Humberto Alvarez
Il corpo di Enrique Camarera viene trasportato in California per i funerali, 1985

El Padrino e i suoi uomini, intanto, diventano sempre più paranoici: il 30 gennaio 1985, John Walker e un suo amico del college, Albert Radelat, sono in Messico per scrivere un romanzo sulla mafia messicana; cercano di entrare in un ristorante di Guadalajara, L’Aragosta, dove El Padrino sta pranzando coi suoi uomini, tra cui El Chapo. La guardia all’ingresso dice loro di andarsene, ma per i narcos un sospetto vale quanto una prova: li fanno entrare, li portano sul retro e li torturano per farli confessare di essere agenti della Dea. El Chapo infierisce per un’ora e mezza; uno dei suoi uomini dice che gli piace tagliare la gente. Si presume che chiunque, sotto tortura, confessi qualsiasi cosa; anche di essere un agente della Dea, magari per salvarsi la vita. Quando è soddisfatto, El Chapo li sgozza e li fa seppellire nel deserto. Sono altri cadaveri di cui nessuno sentirà parlare per molti anni, perché l’opinione pubblica americana e messicana si concentra su un altro problema: il 14 marzo 1989 si consuma l’omicidio di Mark Kilroy a Matamoros da parte dei Narcosatanist, una branca impazzita che pratica sacrifici umani e cannibalismo. Quando ad aprile dello stesso anno El Padrino viene arrestato, la notizia passa quasi in secondo piano. Eppure è il momento in cui il cartello di Guadalajara si scinde in due fazioni che cominciano a massacrarsi tra loro per il controllo del territorio.

Il ritrovamento dei corpi delle vittime dei Narcosatanists, Matamoros, Messico

8 novembre 1992, 2.30 del mattino, Messico
El Chapo e i suoi uomini irrompono in una discoteca di Puerto Vallarta, sparano alle luci, poi concentrano il fuoco sui membri della Arellano Felix organization, cioè il cartello di Tijuana. Muoiono sei persone. È qui che inizia l’impero di El Chapo, e la guerra tra Narcos più sanguinosa della Storia. Gli agricoltori con sandali e sombreros sono diventati militari in tutto e per tutto, con giubbotti antiproiettile, fucili d’assalto, bombe a mano e caschi da soldati; El Chapo non è più un trafficante, ma un vero e proprio signore della guerra che il popolo adora, e gli altri cartelli vogliono morto. Nel maggio 1993 alcuni sicari di Tijuana gli tendono un agguato, ma sbagliano bersaglio e crivellano a colpi di mitragliatrice la macchina dell’Arcivescovo di Guadalajara, Juan Jesus Posadas Ocampa, uccidendo lui e altri sei uomini.

Vittime dell’agguato organizzato per uccidere l’Arcivescovo Juan Jesus Posadas Ocampa, 1993

El Chapo se la cava e scappa in Guatemala, dove la Dea e i Marines messicani lo trovano e arrestano il 9 giugno 1993, pochi mesi prima che Pablo Escobar venga ucciso a Medellin. Accusato di traffico di droga, omicidio e rapimento, dovrebbe scontare vent’anni a Jalisco, un carcere di massima sicurezza; non è un problema, per El Chapo. Appena dentro comincia a far piovere denaro su guardie e detenuti che gli fanno avere tutto quello che gli serve, incluse visite, prostitute, droga. La Dea impiega poco a capire che non è cambiato niente; la droga continua a muoversi e nel triangolo d’oro non ci sono scontri tra gli altri cartelli, segno che tutto funziona tale e quale a prima. Quando nel 2000 il cartello di Sinaloa e quello di Tijuana entrano in conflitto trasformando il Messico in un unico campo di battaglia, El Chapo capisce che dev’essere fuori per coordinare le sue truppe ed evade. Si racconta che sia fuggito nascosto in un cesto della biancheria mosso da una guardia corrotta, ma non è vero. El Chapo evade travestito da poliziotto con tanto di scorta di poliziotti veri, tutti corrotti, il giorno dopo che la sua evasione era stata dichiarata e il ministro aveva fatto visita al carcere. La narrazione del cesto di biancheria serve a ingrandire la leggenda da “mago dell’evasione” e soprattutto a coprire le decine, se non centinaia, di forze dell’ordine prezzolate che l’hanno reso possibile.

Il corpo dell’Arcivescovo Juan Jesus Posadas Ocampa

Ora che è fuori, però, oltre a ingrandire il traffico deve affrontare una guerra. Da un lato c’è il cartello del Golfo, dall’altro gli Zetas, una squadra di ex forze speciali passate al narcotraffico. El Chapo dà ordine di catturare, torturare ed esporre ogni membro che i suoi uomini riescono a trovare. In almeno un’occasione, li uccide lui personalmente, mentre il suo narcotraffico si trasforma in un’azienda multinazionale con introiti fantascientifici. Negli anni 2000, El Chapo ha una flotta di Boeing 747 a cui ha rimosso i sedili e che usa per spostare 13 tonnellate di cocaina per ogni volo. Decollano dal Messico carichi di vecchi vestiti spacciati come aiuti umanitari, atterrano in Colombia, bruciano i vestiti e caricano la cocaina che fa scalo in Messico, da cui poi viene venduta a Chicago, Washington, New York, Detroit, Philadelphia, Cincinnati, Columbus, Los Angeles e Vancouver, in un mondo che di quella polvere bianca non ne ha mai abbastanza. Solo Chicago, in un mese, ne sniffa due tonnellate. La Dea, dopo l’evasione, brancola nel buio. Aumenta la sorveglianza ai confini del Paese, inconsapevole che El Chapo fa passare tonnellate di cocaina sfruttando tunnel sotterranei, a volte scavati apposta, altre volte sfruttando il letto di fiumi che aveva imparato a conoscere da piccolo. E intanto la violenza aumenta, coi narcos che decapitano e lasciano mucchi di teste in mezzo alle strade e scatenano sparatorie.

Studenti di polizia si esercitano nel corso della Merida Initiative, Messico

Nel 2007 El Chapo sposa Emma Coronel, ex miss Messico. Nel 2009 la rivista Forbes lo inserisce tra gli uomini più potenti del pianeta, con un patrimonio stimato di 9 miliardi di dollari: in tutto il mondo fa scalpore. In Messico, invece, è motivo di orgoglio. Nei negozi di Sinaloa vendono cappellini con scritto “Chapo” e “CDS”, ossia “Cartello de Sinaloa”, un mercato estremamente florido che fa il verso ai brand più noti. Il tutto mentre El Chapo carica su YouTube le torture che infligge a chi sgarra, o ai cartelli rivali. È all’apice del narcotraffico mondiale, mentre le strade arrivano a contare 119mila morti in soli dieci anni: il doppio della guerra in Afghanistan (o almeno così si dice). Le armi le comprano negli States; nel 2011 l’ATF (Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives) viene criticato perché ha lasciato che oltre 2mila armi semiautomatiche venissero comprate in Arizona dai cartelli colombiani, e nello stesso anno viene arrestato Jesus Vincente Zambada, un trafficante di Ciudad Juarez. Si dichiara non processabile perché veniva pagato dalla Dea per fare da tramite con il cartello di Sinaloa e sterminare gli altri cartelli concorrenti.

Emma Coronel Aispuro

Dal giorno dell’evasione, si dice che El Chapo e i suoi scagnozzi abbiano ucciso dalle 2mila alle 3mila persone, eppure ogni volta che si mostra la gente lo applaude come a una partita di calcio; l’acclamatissima attrice messicana Kate del Castillo, su Twitter, dice di credere di più al Chapo che “ai governi che nascondono verità sulla cura per il cancro, l’AIDS per il proprio beneficio e ricchezza”. È un modo nemmeno troppo sottile per mettersi in mostra ai suoi occhi; la sua popolarità è tale che dovrebbe essere semplice prenderlo. Perché non succede? Per capirlo bisogna tornare al 1980 e in due Paesi molto diversi: l’Iran e il Nicaragua.

El Chapo viene estradato negli Statu Uniti, 2017

Nel 1980, in Germania, il muro di Berlino è ancora in piedi; nelle hit parade gli A-ha cantano Take on me e l’occidente abbraccia il capitalismo per difendersi dall’ideologia comunista. Negli Usa Ronald Reagan ha vinto le elezioni, e ha promesso di aiutare qualsiasi moto di rivolta ai regimi comunisti nel mondo. Ma c’è un problema; subito dopo aver preso la maggioranza del Congresso, con il Boland Amendment sono stati enormemente ridimensionati i poteri della Cia e del Dipartimento della difesa. È un emendamento cucito apposta per i Contras del Nicaragua, delle truppe anticomuniste che si antepongono al governo Sandinista. Regan li definisce “l’equivalente morale dei nostri Padri fondatori”, ma quel che non viene reso pubblico è che la gran parte dei loro finanziamenti viene dal traffico di cocaina. Contemporaneamente, l’Iran è ai ferri corti con l’Iraq e trattiene sette americani considerati terroristi in Libano; Reagan ordina che vengano riportati a casa a ogni costo. Nel 1985, mentre El Chapo uccide lo scrittore Walker e il suo amico, l’Iran contatta gli Stati Uniti chiedendo di comprare armi per combattere contro l’Iraq. Non si potrebbe fare, perché c’è un embargo assoluto nato con lo scopo di vendicare la crisi degli ostaggi del 1979, quando 52 americani vennero presi in ostaggio per oltre un anno. Un bel problema. Da un lato, rimangiarsi l’embargo farebbe perdere la faccia davanti agli elettori americani. Dall’altro, rifiutare il commercio di armi metterebbe a rischio la vita dei sette ostaggi e comprometterebbe le relazioni con il Libano, che all’interno della scacchiera mediorientale sarebbe un comodo alleato. L’unico, in realtà. Accettare il traffico di armi in segreto, tuttavia, permetterebbe alla Cia di avere i soldi necessari a finanziare i Contras del Nicaragua. Reagan, convinto, accetta, ma purtroppo la cosa salta fuori: nel 1986, il quotidiano libanese Al-Shiraa racconta che l’Iran ha pagato 30 milioni di dollari per 1500 missili americani. Non è un problema, basta che le voci non arrivino in madrepatria; nel frattempo, tre dei sette ostaggi americani vengono rilasciati. Reagan va nel panico, smentisce le dichiarazioni del giornale e poi smentisce la smentita, mentre il procuratore militare Edwin Meese apre un’inchiesta e scopre che 18 dei 30 milioni pagati dall’Iran sono scomparsi. Il caso diventa nazionale, poi internazionale; nel 1987 tutti i vertici della Cia e Reagan stesso testimoniano davanti al Congresso, trasmesso in diretta nazionale. Le indagini proseguono finché nel 1992 George W. Bush, che all’epoca dello scandalo era vicepresidente, sostanzialmente perdona tutti e passa al contrattacco. McFarlane, quello che aveva avviato l’inchiesta, viene accusato di avere reso pubbliche informazioni riservate e di avere deliberatamente fuorviato le indagini, e viene condannato a 2 anni di carcere e una multa di 20mila dollari. Tutto finisce dimenticato, incluso quell’interrogativo: che fine hanno fatto, quei 18 milioni di dollari iraniani pagati alla Cia? Torniamo al 2013.

George W. Bush

Due ex agenti federali e un ex agente della Cia dichiarano alle televisioni americane che l’omicidio di Camarena non è stato solo opera dei Narcos, ma anche di gente mandata dalla Cia. Non che sia una storia nuova; era stata già raccontata 25 anni prima dalle narcorridos, le canzoni che i cantanti messicani intonavano per i narcos. Solo che tutti le avevano scambiate per deliri indotti dalla tequila. L’uomo in questione sarebbe Felix Ismael Rodriguez, detto “el Gato”, un cubano che aveva partecipato all’invasione della Baia dei porci nel ’61 e a al tentativo di omicidio per far fuori Che Guevara nel 1967, in Bolivia. È uno di quegli utili idioti di cui la Cia adora usufruire perché sono scaricabili e, soprattutto, poco credibili. Perché avrebbero dovuto farlo? Il comandante della polizia federale messicana, Guillermo Gonzales, dice che la Cia aveva registrato l’interrogatorio di Camarena perché l’agente della Dea aveva avuto un’idea giusta: inseguire i soldi e non la droga. Se l’avesse fatto avrebbe scoperto i traffici poco chiari tra Cia e Sudamerica, e avrebbe riportato i riflettori dei media sulle conseguenze dello scandalo Contras-Iran e su quei milioni di dollari svaniti nel nulla. Tutte congetture che la Casa Bianca e la Cia smentiscono categoricamente. All’improvviso El Chapo viene arrestato il 22 febbraio 2014 in un resort sulla spiaggia di Mazatlan, per poi essere rinchiuso nel carcere di massima sicurezza più crudele del Messico, l’Altiplano. Il copione è lo stesso e il finale altrettanto: dopo due anni di carcere in cui riceve prostitute, fa feste, si incontra con la moglie e i figli, gestisce e alimenta il suo narcotraffico, l’11 luglio 2015 scompare nel nulla. Le telecamere all’interno della sua cella lo inquadrano mentre entra nella doccia, si china, e scompare. Le autorità che investigano trovano un buco nel pavimento che conduce a un tunnel di 1,5 chilometri scavato sottoterra, che El Chapo avrebbe percorso in motocicletta e che sbuca in una cascina abbandonata poco fuori dal carcere. È vero? Chissà. Si è calcolato che per scavare quel tunnel sarebbero serviti tre anni e due milioni di dollari e mezzo. Comunque, ormai, Joaquin Guzman è più di El Chapo: è leggenda. Nessuno può fermarlo né incarcerarlo. È talmente fiero e sicuro della sua immortalità che decide di girare un film sulla propria vita, e inizia a contattare produttori e attori affinché partecipino. In America, intanto, da un po’ di tempo gira l’idea di documentare la realtà sudamericana e i suoi orrori. Sean Penn vuole finirci in mezzo: probabilmente per mostrarsi appetibile agli addetti del casting, contatta un’attrice messicana, la De Castillo, domandando se può metterlo in contatto con il boss. Lei dice di sì, e nell’ottobre del 2015, con l’incoscienza tipica degli attori hollywoodiani, Sean Penn intervista El Chapo per Rolling Stone. È troppo, e bisogna agire di conseguenza. Qualche mese dopo la Dea e i Marines messicani lo trovano in una casa a Los Mechis, ma lui scappa attraverso le fognature. Qualche altro mese dopo, con un blitz filmato e un conflitto a fuoco che lascia a terra cinque narcos, El Chapo viene arrestato ed estradato negli Stati Uniti. Quando sul web si sparge la voce che è colpa di Sean Penn che ha fatto la spia, lui smentisce e dichiara di non avere paura; il suo linguaggio corporeo sembra mostrare ben altro. Il processo a El Chapo è appena iniziato, ma che la sua carriera sia terminata lo dimostra il fatto che in Messico gli altri cartelli hanno già iniziato a massacrarsi per riempire il buco che ha lasciato. Sua moglie, intanto, sembra sia uscita dal Messico e ha un profilo Instagram molto attivo.

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