Come il dualismo di Cartesio ha rovinato la nostra salute mentale

Verso la fine del Rinascimento, un radicale cambiamento nell’epistemologia e nella metafisica ha investito il pensiero occidentale. I progressi di Copernico, Galileo Galilei e Francesco Bacone posero un serio problema al dogma cristiano e al suo dominio sul mondo naturale. Seguendo il ragionamento di Bacone, ora il mondo naturale andava inteso solo sulla base di cause efficienti (cioè di effetti esterni). Ogni significato o scopo intrinseco del mondo naturale (ad esempio la sua causa “formale” o “finale”) veniva ritenuto un surplus rispetto ai requisiti. Nella misura in cui poteva essere predetta o controllata sulla base di cause efficienti, qualsiasi nozione di natura che andasse oltre questa concezione non solo era ridondante, ma anche lo stesso Dio poteva esimersi da essa.

Nel Diciasettesimo secolo, il dualismo della materia e del pensiero di Cartesio è stata una soluzione ingegnosa per il problema che questa rivoluzione creò. “Le idee” che prima erano state concepite come inerenti alla natura in quanto “pensieri di Dio” venivano salvate dall’avanzata della scienza empirica e custodite nella salvezza di un dominio separato, “la mente”. Da un lato, ciò garantiva una dimensione propria a Dio, e dall’altro serviva a “rendere il mondo intellettuale sicuro per Copernico e Galileo”, come ha scritto il filosofo americano Richard Rorty in Philosophy and the Mirror of Nature (1979). In un colpo solo, la sostanza divina di Dio veniva protetta e alla scienza empirica veniva data sovranità sulla “natura come meccanismo”, qualcosa di empio e quindi un campo libero. 

Galileo Galilei (Pisa, 15 febbraio 1564 – Arcetri, 8 gennaio 1642)

La natura venne quindi prosciugata della sua vita intrinseca, resa un apparato sordo e cieco regolato da una legge indifferente e priva di valori, e l’umanità doveva affrontare un mondo fatto di una materia inanimata e senza senso, nel quale proiettare la sua psiche – la sua carica vitale, il suo scopo di vita – solo nella sua fantasia. Era questa la visione del mondo disincantata, all’alba della rivoluzione industriale che poi seguì, che i Romantici trovavano così disgustosa, e contro la quale si rivoltarono fuoriosamente. 

Il filosofo francese Michel Foucault in L’ordine del discorso (1966) coniò il termine “episteme” che, detto semplicemente, indica un sistema di conoscenza. La psiche occidentale, secondo Foucault, un tempo era caratterizzata dalle somiglianze e le similitudini. In questo episteme, la conoscenza del mondo derivava dalla partecipazione e dall’analogia (quella che lui chiama “la prosa del mondo”), e la psiche era essenzialmente estroversa e rivolta verso il mondo. Ma dopo la biforcazione tra mente e natura, un episteme strutturato sull’identità e la differenza ha preso possesso della psiche occidentale. L’episteme che ora prevale è, nei termini di Rorty, solamente concentrato sulla “verità come corrispondenza” e sulla “conoscenza come accuratezza delle rappresentazioni”. In questo modo la psiche è diventata introversa e distaccata dal mondo.

Secondo Foucault, questa mossa non è stata una sostituzione in quanto tale, piuttosto ha costituito un’“alterità” della modalità sperimentale precedente. Come risultato, non solo si negava la validità della sua dimensione sperimentale ed epistemologica, ma essa diventò “occasione di errore”. L’esperienza irrazionale (per esempio, un’esperienza che corrisponde in modo non accurato al mondo “oggettivo”) diventava un errore insensato, e il disordine una perpetrazione di quell’errore. Questo è il momento in cui Foucault colloca l’inizio della moderna concezione della follia.

Michel Foucault (Poitiers, 15 ottobre 1926 – Parigi, 25 giugno 1984)

Nonostante il dualismo di Cartesio non abbia vinto il dibattito filosofico, in Occidente siamo ancora figli di quella biforcazione disincantata che ci ha accompagnati. La nostra esperienza rimane caratterizzata dalla separazione della mente e della natura a cui diede vita Cartesio. La sua moderna incarnazione – che potremmo chiamare una posizione empirico-materialista – non solo predomina in ambito accademico, ma anche nelle nostre assunzioni quotidiane su noi stessi e il mondo. Questo è particolarmente evidente nel caso dei disordini mentali.

La nozione più comune di disordine mentale rimane quella dell’elaborazione di un “errore”, concepito come una “disfunzione interna” relativa a un mondo meccanicistico privo di qualsiasi influenza o significato. Queste disfunzioni possono essere curate o con la psicofarmacologia o con la terapia, tesa a condurre il paziente a riscoprire la “verità oggettiva” del mondo. Concepire la malattia mentale in questo modo non solo è semplicistico, ma è anche pregiudiziale.

Sebbene sia vero che è importante “normalizzare” le esperienze irrazionali, spesso questo avviene a un grande costo. Questi interventi funzionano (fino a un certo punto) svuotando le nostre esperienze irrazionali del loro valore o significato intrinseco. Facendo ciò, non solo queste esperienze si slegano da ogni significato che possono portare, ma anche ogni azione o responsabilità che noi o le persone intorno a noi hanno in merito: sono solo errori da correggere. 

Nell’episteme precedente, prima della biforcazione tra mente e natura, le esperienze irrazionali non erano semplici “errori” – parlavano un linguaggio significativo tanto quanto le esperienze razionali, se non maggiore. Imbevute del senso e della logica della natura stessa, erano esse stesse ricche del miglioramento o della sofferenza che portavano. Nel mondo percepito in questo modo, avevamo un terreno, una guida o un contenimento per la nostra “irrazionalità”, ma queste cruciali presenze psichiche sono svanite con l’eliminazione della vita intrinseca della natura e lo spostamento all’”identità e differenza”.

Di fronte a un mondo indifferente e insensibile che impedisce di rendere la nostra esperienza significativa al di fuori della nostra stessa mente – poiché la natura come meccanismo non ha potere di farlo – la nostra mente si è fissata sulle rappresentazioni vuote di un mondo che un tempo era la sua sorgente e la sua essenza. Quel che ci rimane, se siamo abbastanza fortunati da averne, sono i terapisti e i nostri cari che tentano quella che è, realisticamente e data la grandezza della sconfitta, un’impresa impossibile.

Non sto suggerendo che dovremmo “tornare indietro” in qualche modo. Al contrario, la biforcazione tra mente e natura è alla base di un progresso secolare incommensurabile: l’avanzamento medico e tecnologico, la nascita dei diritti individuali e della giustizia sociale, solo per nominarne alcuni. Ci ha anche protetti dall’essere vincolati all’incertezza intrinseca e al flusso della natura. Ci ha dato una certa onnipotenza, così come ha dato alla scienza empirica il controllo sulla natura, e la maggior parte di noi ha accettato volentieri, e ne ha usufruito volontariamente, l’eredità che ci ha lasciato, e giustamente.

Non si pone però mai abbastanza enfasi sul fatto che questa storia sia stata più dialettica che lineare. Proprio come l’unione tra psiche e natura ha inficiato il progresso materiale, il progresso materiale ora ha degenerato la psiche. Forse, allora, possiamo ritenere che sia ora di una svolta. Visto l’aumento drammatico dell’uso di sostanze, le notizie recenti di una “crisi di salute mentale” negli adolescenti, e i tassi di suicidio in aumento negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in altri luoghi – solo per nominare gli effetti più eclatanti – forse i tempi sono ormai troppo maturi.

Ci si potrebbe però chiedere: con quali mezzi? C’è stata una rinascita delle teorie “pan-esperienziali” e idealiste in molte discipline, che si sono occupate di sbrogliare il problema della biforcazione e della scomunica della natura vivente, per creare al suo posto qualcosa di nuovo. Questo è dovuto al fatto che i tentativi di spiegare l’esperienza soggettiva in termini empirico-materialisti hanno fallito (principalmente a causa di quello che il filosofo australiano David Chalmers chiamò “il nocciolo duro” della coscienza). L’idea che la metafisica sia “morta” va incontro a qualche significativa riserva in certi ambienti. Anche il filosofo canadese Evan Thompson e altri ne hanno parlato in un recente saggio su Aeon

Bisogna ricordare che il disordine mentale come “errore” nasce e muore con la metafisica empirico-materialista e l’episteme ne è un suo prodotto. Per questo, potremmo pensare che abbia giustificato la riconcettualizzazione della nozione di disordine mentale negli stessi termini di queste teorie. C’è stato uno spostamento decisivo nella teoria e nella pratica psicoterapeutica rispetto alla possibilità di cambiare parti o strutture dell’individuo, verso l’idea che è il processo stesso dell’incontro terapeutico a essere migliorativo. In questo caso, giudizi corretti o scorretti sulla “realtà oggettiva” cominciano a perdere senso, e la psiche come aperta e organica ritrova la sua importanza, ma la metafisica rimane. Abbiamo bisogno di ripensare il disordine mentale su un livello metafisico, e non soltanto entro i confini dello status quo

Questo articolo è stato tradotto da Aeon.

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