L’attrice 63enne Andie MacDowell la scorsa settimana si è presentata sul red carpet del Festival di Cannes con i capelli grigi, anziché sfoggiando la sua famosa chioma riccia e castana. Quello che una singola donna su quattro miliardi che esistono al mondo decide di fare con i propri capelli non dovrebbe costituire una notizia, eppure i giornali sono impazziti per commentare il nuovo look di MacDowell. Da subito si sono costituiti due schieramenti: gli entusiasti per l’attrice che non si vergogna di presentarsi con i segni dell’età e chi ritiene la star una vittima del “politically correct estetico”, ammiccando alla solita retorica del “ci stanno privando di tutto”, persino della vista dei ricci di un’attrice di Hollywood. MacDowell, che da quarant’anni è testimonial di tinte per capelli, ha spiegato in un’intervista che la sua è una scelta personale e che lasciando ingrigire i suoi ricci vuole “essere come un uomo, cui è permesso di invecchiare”.
In effetti, sui capelli grigi vige un doppio standard molto marcato. Gli uomini in genere sono liberi di far incanutire i propri capelli, senza che nessuno si scandalizzi troppo. La rivista People negli anni ha incoronato diverse celebrità, da George Clooney a Richard Gere, come “Sexiest Man Alive” nonostante i capelli grigi. In inglese esiste anche un termine, silver fox (volpe argentea), per designare gli uomini affascinanti che lasciano i propri capelli al naturale, mentre non esiste un corrispettivo femminile. Al massimo, è l’uomo che fa la tinta – o che segue qualsiasi rituale di bellezza – a essere considerato ridicolo o poco virile, uno che “non ci sta” e si ostina a farsi passare più giovane di quello che è. Invece, la donna che non nasconde l’avanzare dell’età viene vista come sciatta e poco curata o come una che ha rinunciato definitivamente alla sua femminilità. A maggio dello scorso anno, per esempio, la corrispondente della Rai Giovanna Botteri, che all’epoca compariva più spesso del solito in tv per raccontare la pandemia in Cina, fu presa in giro da Striscia La Notizia proprio a causa dei suoi capelli grigi e non in piega.
I capelli da sempre rivestono una grande importanza culturale, come simbolo di potere, ricchezza o status sociale. Hanno anche un ruolo intimo e significativo per ciascuno di noi, tanto che la loro perdita può avere conseguenze psicologiche anche gravi e la rasatura è stata sempre usata come forma di punizione e umiliazione, soprattutto nei confronti delle donne. I capelli sono portatori di complessi messaggi culturali che sono cambiati nel corso del tempo: oggi le reginette di bellezza hanno tutte lunghi capelli ondulati e folti, mentre nel Cinquecento le donne più belle si rasavano la fronte quasi fino a metà testa. In ogni caso, l’acconciatura è un metro di giudizio di bellezza. I capelli bianchi o grigi, in ogni momento della storia, sono stati un segno di rispettabilità e saggezza, perché associati all’età avanzata. Tra il Sette e l’Ottocento, tutti gli uomini dell’aristocrazia e dell’alta borghesia indossavano una parrucca bianca, che veniva regolarmente incipriata per mantenerne il candore. La parrucca bianca, oltre a camuffare la calvizie e a nascondere malattie e infestazioni dello scalpo (nonostante in realtà le favorisse), dava un aspetto maturo e saggio a prescindere dall’età. Anche le donne indossavano questo tipo di parrucche, ma il capello bianco naturale restava un tabù, tanto che l’ormai leggendario sbiancamento della chioma di Maria Antonietta nella notte della sua esecuzione è entrata nella storia.
Esistono molte testimonianze di rimedi naturali per tingersi i capelli diffusi prima dell’invenzione della tinta moderna, ideata dal fondatore di L’Oréal Eugène Schueller nel 1907, ma nessuno di questi sembra fosse utilizzato per tingere i capelli bianchi. Anzi, proprio negli stessi anni in cui le donne cominciarono a cambiare il colore delle proprie chiome con le tinte artificiali, si diffuse la moda di imitare il bianco cospargendosi la testa di cipria: secondo i giornali dell’epoca, a essere interessante era il contrasto tra il viso giovane e i capelli da donna matura. Ma si trattò comunque di una moda passeggera: le tinte presero presto il sopravvento, grazie soprattutto alle dive di Hollywood che sfoggiavano colori arditi e poco comuni come il biondo platino o il rosso.
Se inizialmente la tinta era vista come un cosmetico per divertirsi a cambiare aspetto, negli anni Venti – decennio dominato dal mito della giovinezza – i colori per capelli cominciarono a essere presentati come rimedi per cancellare i segni dell’età. Le riviste di moda e le pubblicità che ospitavano rimarcavano quanto i capelli grigi fossero inadatti per la donna moderna, creando l’ancora diffusa equazione tra capelli bianchi e sciatteria: “Le donne con i capelli grigi sono oneste? Non quando sostengono che non c’è rimedio ai capelli bianchi! Oggi, ciocche sbiadite e ingrigite significano che una donna non si prende cura di sé”, recitava un annuncio delle tinte Goldman del 1926; L’Oréal negli stessi anni metteva invece a confronto una triste donna anziana con i capelli bianchi intenta a osservare una giovane che balla con un uomo affascinante con lo slogan “Non lasciare che la giovinezza vada via”. Non è l’unico caso in cui uno standard di bellezza femminile si è imposto attraverso decenni di pubblicità che presenta come innaturale o disgustoso qualcosa che fa normalmente parte dell’esperienza corporea delle donne: anche la depilazione è diventata una necessità contemporaneamente all’invenzione del rasoio “femminile” e la cellulite una malattia con la commercializzazione dei rimedi per combatterla.
Come sostiene Naomi Wolf nel suo classico del pensiero femminista Il mito della bellezza, nel momento in cui le donne si sono esposte nella sfera pubblica e il mito della domesticità ha cominciato a scricchiolare, l’unico strumento per contenerle e mortificarle è diventato l’ossessione per l’aspetto fisico. In particolare, la vecchiaia e i suoi marcatori sono socialmente condannati nelle donne perché associati al potere, che le donne giovani e vulnerabili non detengono. Considerando quanto nel passato i capelli bianchi sono stati un importante segno di nobiltà, saggezza e rispettabilità, è molto significativo che a un certo punto queste caratteristiche siano state sottratte alle donne e siano state risignificate come indesiderabili o addirittura contrarie alla “natura femminile”.
Oggi siamo senz’altro in una fase di transizione culturale per quanto riguarda i canoni estetici. Per ogni persona che ha storto il naso vedendo il nuovo look al naturale di Andie MacDowell ce ne sono tante, o forse più, che hanno celebrato la sua scelta come qualcosa di coraggioso, o come una vittoria di tutte le donne. Se fosse successo anche solo una decina di anni fa, MacDowell sarebbe stata probabilmente stigmatizzata all’unanimità. Tuttavia, lo scalpore che ancora suscita una donna famosa che smette di tingersi i capelli è il segnale che una piena liberazione del corpo è ancora un processo in corso. Non solo perché una cosa del genere fa notizia, ma soprattutto perché sentiamo la necessità di interpretarla come un messaggio: cosa avrà voluto dire Andie MacDowell con i suoi capelli? Voleva perorare la causa dell’emancipazione femminile? Non ci balena nemmeno per la testa che la sua possa essere una personale e indiscutibile scelta, dettata semplicemente dal suo desiderio. In un senso o nell’altro, sembra impossibile non dare un giudizio morale al corpo delle donne o smettere di attribuirgli il potere – soprattutto se appartiene a una donna che ha una certa visibilità – di influire anche su quello delle altre. Come per qualsiasi altra cosa riguarda il suo corpo, ciascuna dovrebbe essere libera di scegliere se tingersi i capelli o lasciare il grigio, se depilarsi o meno, se e quanto aderire ai canoni di bellezza, senza che questo la definisca come persona, come donna o come professionista. Senza che diventi vittima o emblema di alcunché.