Poche altre nazioni possono vantare un calendario congestionato di feste come quello dei messicani. Alcune sono molto particolari e uniche nel loro genere, come la Fiesta del Grito, che si celebra ogni 15 settembre e che fa riversare nelle piazze del Messico migliaia di persone, pronte a urlare all’unisono allo scoccare delle undici di sera per ricordare l’atto che diede inizio alla guerra d’indipendenza. Come fa però notare lo scrittore premio Nobel messicano Octavio Paz, “Da noi la festa è un’esplosione, un botto. La morte e la vita, la gioia e il lamento, il canto e l’urlo si uniscono nelle nostre celebrazioni, non per ricreare o riconoscerci, ma per divorarci a vicenda. Non c’è niente di più gioioso di una festa messicana, ma non c’è nemmeno niente di più triste”. Proprio per questo motivo forse di tutte le tante festività la più sentita del Paese rimane il Día de Muertos che, sebbene non si festeggi solo sul territorio nazionale, rimane quella che meglio rappresenta la continua comunità degli opposti su cui si fonda l’identità messicana.
Il Día de Muertos nacque grazie a civiltà antiche come Aztechi e Toltechi, unite nel considerare irrispettoso portare il lutto per un trapassato. Uno dei più grandi pensatori di epoca preispanica, il monarca della città-stato di Texcoco Nezahualcóyotl, rappresentò il rapporto speciale che già allora si aveva con la morte in alcune poesie: nei suoi versi, già allora, si riconosceva come l’inizio e la fine dell’esistenza avessero un legame indissolubile per quelle popolazioni.
Per tali culture la morte era parte del percorso della vita e viceversa, motivo per cui morire non significava scomparire: si era ancora membri della società e si ritornava sulla Terra proprio in occasione del “día” in cui si veniva celebrati. Come evidenzia sempre Paz, “La morte non era la fine naturale della vita ma piuttosto una parte di un ciclo infinito. La vita, la morte e la risurrezione erano le fasi di un processo cosmico, che si ripeteva insaziabilmente. La vita non aveva funzione più nobile che condurre alla morte, suo contrario e suo complemento; e la morte, a sua volta, non era fine a se stessa; l’uomo con la sua morte nutriva la voracità della vita, sempre insoddisfatta”. In questa idea si esplicita forse la differenza sostanziale che esiste tra il Día de Muertos e una festività con cui fuori dal Messico viene spesso confusa: Halloween. Mentre quest’ultima trasmette la paura del passare a miglior vita, attraverso scherzi e travestimenti paurosi, nella festa latina la morte viene accolta con manifestazioni di gioia e senza timori o ansie.
Il Día de Muertos che si celebra oggi non è comunque lo stesso che trovava posto nel calendario azteco. A cambiare sono state la data della festa, che in origine era prevista per l’inizio di agosto, e la durata delle celebrazioni, che si protraevano anche per diverse settimane. All’epoca la festa era dedicata a Mictecacihuatl, dea del regno ultraterreno che veniva chiamato Mictlan, e sopravvisse nella sua forma iniziale fino al Sedicesimo secolo. Furono gli spagnoli a trasformarla gradualmente, facendo combaciare la ricorrenza con il giorno dei morti cattolico e condensando ogni celebrazione nelle prime due giornate di novembre.
Nel 1943, lo scrittore messicano José Revueltas scrisse El luto humano. In questo romanzo, attraverso la storia di una famiglia che piange la scomparsa della figlia, Revueltas criticava il cattolicesimo in quanto colpevole di aver decostruito la visione della morte degli antichi per trasformarla in pura agonia. Va però ricordato come entrambe le visioni, sia quella cristiana che quella mesoamericana, abbiano qualcosa in comune: la vita, infatti, rimane in entrambi i casi aperta alla prospettiva di una morte che sia a sua volta una nuova vita. La differenza sta tutta nella natura del luogo dove si continuerà la propria esistenza: l’oltretomba di popoli come quello azteco non ha nulla in comune con l’equivalente cristiano. Non si divide in inferno, purgatorio e paradiso, perché dopo la morte non esiste punizione o premio da elargire altrove. Per queste popolazioni, le direzioni in cui potevano dirigersi i trapassati dipendevano solo dal modo in cui avevano lasciato il mondo dei vivi: nell’Omeyocan trovavano posto per esempio solo i morti in combattimento, mentre il Mictlan vero e proprio ospitava le morti naturali e il Chichihuacuauhco era il limbo in cui si trovavano le vittime di una morte in giovanissima età e in attesa di resurrezione.
Non essendoci giudizio per quanto fatto in vita dopo la morte, era più facile per i popoli preispanici non vedere il trapasso come una condanna da affrontare il più tardi possibile. Nonostante l’influenza cattolica, col passare dei secoli questa visione della morte è comunque sopravvissuta nell’indole di chi è nato e cresciuto in certi luoghi e ne ha conservato le radici culturali. Lo psicologo messicano Gustavo Novelo spiega come lui e i suoi connazionali, proprio in virtù di queste radici, siano “portati a burlarci della morte: la abbelliamo e la celebriamo ancora oggi per renderla quotidiana e amabile, togliendoci così la paura di morire.” Proprio per questo motivo, André Bretón diceva che la morte come oggetto di uso quotidiano tra i messicani era stata portata “in tutte le aree, dal picaresco al surreale” e diversi elementi simbolo dell’iconografia del Día de Muertos lo certificano. Basti pensare all’ofrenda, la porta tra la vita e la morte, che è l’altare centro di tutte le celebrazioni che viene posto nelle case, nei cimiteri e persino nelle piazze, ricolmo di foto, fiori, cibo, candele e teschi coloratissimi.
Gli scheletri sono gli elementi più legati alla festività, anche perché rappresentano il perfetto tramite tra la vita e la morte. Nella tradizione li troviamo per esempio nei papado picado, strati di carta gialla o viola ritagliati a forma di scheletro che rappresentano l’essere costantemente a metà tra l’esistenza terrena e quella ultraterrena. Il teschio è anche uno dei simboli più recenti e amati della festività, la Catrina, maschera nata attorno al 1910 nei disegni dell’illustratore messicano José Guadalupe Posada. Il suo successo internazionale si deve però al pittore Diego Rivera, che inserì Posada assieme alla sua creazione nel quadro del 1947, Sogno di una domenica pomeriggio nel parco di Alameda. La Catrina era stata chiamata inizialmente “Calavera Garbancera” (teschio “garbacero”) con riferimento alle “garbaceras”, ovvero quelle donne che fingevano di essere europee rinnegando la propria cultura. Il personaggio rappresenta appunto una calavera vestita come una donna di classe alta nella Parigi di inizio Novecento. La Catrina è oggi uno dei travestimenti più amati del Día de Muertos ma rappresenta anche un monito a non trasformare eccessivamente la festa, facendole perdere le sue radici: un rischio che pure il solito Octavio Paz aveva sottolineato a suo tempo.
La Catrina è un teschio, il simbolo per eccellenza della festa e l’esempio più efficace per far capire quanto nel Día de Muertos si giochi non solo con le immagini ma anche con le parole. “La pelona“, “la buesuda” o “la calaca” sono solo alcune delle varianti ironiche della parola spagnola “calavera”. A farlo notare è l’artista messicana Betsabé Romero che ricorda come i giochi di parole siano una parte fondamentale della festa. Forse proprio per questo, tanti grandi poeti messicani hanno usato la loro abilità con le parole per riflettere sulla morte in maniera non banale: se per José Gorostiza la vita era una “morte senza fine”, per il suo collega Xavier Villaurrutia l’esistenza intera andava vista come una “nostalgia della morte”: perché è da essa che possiamo rinascere e non viceversa.
Oggi il Día de Muertos è riconosciuto come patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’Unesco e l’iconografia di questa celebrazione ha ispirato persino capolavori del mondo dei videogiochi come Grim Fandango o del cinema d’animazione come il recente film Pixar Coco. Anche l’epilogo dell’opera del grande regista sovietico Sergej Ėjzenštejn, incentrata sul Messico e rimasta incompiuta, consiste in una serie di riprese dei festeggiamenti del Día de Muertos. Difficile immaginare un miglior finale per una pellicola che si intitola ¡Que Viva México! e che mostra quanto, perché il Paese viva, debba prima passare attraverso la celebrazione della morte: se sono molte le culture che per tradizione ricordano i propri defunti con specifiche ricorrenze, nessuna lo fa infatti con la stessa forza del Día de Muertos messicano.
Questa ricorrenza è diventata ormai un unicum nella storia e la sua anima popolare va preservata: il Día de Muertos ha un significato profondo e ci ricorda non solo il rispetto e la “normalità” dell’evento luttuoso, ma anche l’importanza di chi è venuto prima di noi.