Poche altre feste hanno ricevuto negli ultimi anni l’attenzione mediatica riservata al Día de Muertos. Per capirlo, basti pensare che dal 2014 al 2019 i lungometraggi d’animazione dedicati a questa ricorrenza sono stati ben tre: Il libro della vita (prodotto da Guillermo Del Toro), il capolavoro Pixar Coco e il più indipendente Día de Muertos. Si tratta di tre film molto diversi tra loro, ma tutti uniti dallo stesso immaginario di partenza, ormai in grado di affascinare bambini e adulti anche ben al di fuori dai confini del Messico, patria di questa ricorrenza, e dell’America Latina.
Un’ulteriore certificazione della ribalta internazionale raggiunta dalla festività è il fatto che il Día de Muertos sia stato omaggiato di recente anche all’interno di blockbuster hollywoodiani di lunga tradizione, come la saga di 007. Secondo molti, l’iconica scena iniziale di Spectre, in cui James Bond insegue un cattivo in mezzo alla parata tradizionale del Giorno dei morti, avrebbe segnato l’inizio di un fenomeno singolare: la rinnovata popolarità di questa festa a livello internazionale, che da celebrazione intima e familiare si è trasformata in uno dei simboli della cultura messicana nel mondo, un’occasione da celebrare con ampie manifestazioni di gioia collettiva, quali appunto la cavalcata di teschi giganti e i festaioli in costume che animano la parte iniziale del film sull’agente segreto più famoso di sempre.
In realtà, il cinema è sempre stato considerato uno dei media più adatti per restituire l’immaginario vivace del Día de Muertos, da ben prima che se ne accorgesse Hollywood. Non a caso, il primo importante film in cui si racconta la magia di questa festività risale addirittura al 1931 e porta la firma del leggendario regista sovietico Sergej Ėjzenštejn. Quando quest’ultimo decise di girare un film intitolato ¡Que Viva México!, capì subito che il suo ritratto del Paese non poteva prescindere dal racconto della sua festività più rappresentativa. Secondo Ėjzenštejn, il culto della morte era infatti “ciò che aveva reso il Messico il Messico”. A ispirare l’autore de La corazzata Potëmkin, erano stati in primis i murales dell’amico artista Diego Rivera. In quegli anni, Rivera stava contribuendo a rendere immortale il Día de Muertos grazie a opere come Sogno di una domenica pomeriggio nel parco dell’Alameda del 1947, in cui ritraeva una delle figure simbolo della festa – la calavera (in italiano “teschio”) in abiti eleganti de La Catrina – insieme ad altri importanti personaggi della storia messicana.
Dopo essere stata inserita nel murales di Rivera, la popolarità de La Catrina crebbe sempre di più, fino a farla diventare una delle maschere più amate della festa. A inizio millennio, fu resa co-protagonista di un cortometraggio girato con la tecnica della stop-motion molto famoso in Messico: Hasta los huesos di René Castillo, un animatore specializzato nell’animazione fatta con la plastilina e che ispirò con questo lavoro opere più celebri a livello internazionale come La Sposa Cadavere di Tim Burton. La visione di questa pellicola premiata in diversi festival nel mondo, da quello di San Sebastian a quello di Seul, è utile per comprendere come la morte in America Latina non venga vista, com’è più comune in altre culture, come l’irrimediabile fine di tutto: nel corto, dopo essere trapassato, il protagonista raggiunge infatti un Aldilà che di lugubre ha molto poco. Si tratta piuttosto di una grande festa, in cui la Catrina, simbolo di una visione anche frivola e leggera della vita, fa da anfitrione. In un’intervista pubblicata sul sito web del governo messicano, il regista René Castillo ha spiegato cosa intendesse comunicare con la sua opera: “Mi piace pensare che dopo la vita ci siano altre cose. (Il corto) parla molto di noi e della nostra paura della morte, così come del modo in cui la conciliamo ogni giorno con le nostre convinzioni personali”.
Questa continua riflessione sulla vita e su quella che in altre parti del mondo è considerata la sua antitesi è alla base del Día de Muertos, ma anche di molto del cinema che da esso viene ispirato. In Italia, si decise di far uscire il primo film messicano candidato all’Oscar nel 1960 (Macario di Roberto Gavaldón) col titolo di Morte in vacanza, proprio per evidenziare come in quella cultura la fine dell’esistenza sia equiparata quasi a un momento di stacco. Nella pellicola, lo stretto rapporto con la morte è esplicitato dal fatto che il protagonista entra in contatto diretto con una personificazione della stessa proprio alla vigilia della sua festività. Del film ai tempi venne apprezzata soprattutto la colonna sonora realizzata da Raúl Lavista, musicista e compositore che avrebbe lavorato successivamente anche con Luis Buñuel. Questo successo non deve sorprendere, considerando quanto l’elemento musicale sia centrale nella creazione dell’atmosfera del Día de Muertos.
I latini e in particolare i messicani compongono già dai tempi dei primi popoli precolombiani come gli Olmechi, vissuti tra il 1200 e il 400 a.C., canzoni sul tema del trapasso, e continuano a farlo. Basta vedere il gran numero di playlist dedicate alla festività presenti nei servizi di streaming musicale: insieme ai brani più tradizionali, ci sono anche canzoni più recenti, composte non molto tempo fa da pesi massimi del pop latino americano, da La muerte chiquita della rock band messicana Café Tacuba, a Mis muertos della popstar nazionale Julieta Venegas, fino a Que la vida vale di Natalia Lafourcade. Tutte queste canzoni, uscite in tempi più o meno recenti, non fanno che ricordare come sia sopravvissuta in certi luoghi una visione preispanica della morte, nella quale si arriva ad avere un rapporto intimo ed estremamente naturale con essa. Tra questi brani è facile trovare spesso una delle tante versioni della canzone dedicata alla Llorona, un altro dei simboli del Día de Muertos. La vicenda della Llorona, una donna che ha perso i propri figli e vaga in forma di spirito nella speranza di ritrovarli, è diventata famosa anche nel resto del mondo, passando ovviamente da Hollywood. Il tentativo di rendere il mito latino materiale da film horror ha prodotto però risultati modesti, che non sono riusciti a rendere giustizia alla leggenda millenaria, trasformandola purtroppo nell’ennesima generica storia di un demone che non ha colto l’essenza di una tradizione che nasceva per essere una celebrazione intima, lontana dagli eccessi di chi, sbagliando, la vede solo come una rilettura “un po’ più strana ed esotica” di Halloween.
Quando ci si approccia a tradizioni e culture diverse, come in quest’ultimo caso, il rischio è quello di snaturarle o di impoverirle. Fortunatamente, la storia è piena di esempi in cui l’immaginario del Día de Muertos è stato utilizzato da chi ne ha tratto ispirazione in maniera rispettosa ma anche molto creativa. È il caso di uno dei più grandi videogiochi di tutti i tempi: Grim Fandango. L’avventura grafica immaginata da Tim Schafer alla fine degli anni Novanta si svolge durante quattro Días de Muertos. In queste giornate, lo scheletro protagonista Manuel “Manny” Calavera (il cui cognome, come detto, significa “teschio” in spagnolo si muove a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, attraversando anche i diversi luoghi che formano l’aldilà nella tradizione mesoamericana, fino ad arrivare al Mictlan, la parte dell’Oltretomba che viene da sempre maggiormente celebrata durante la festività, perché è qui che i morti dovrebbero finalmente trovare pace.
Grim Fandango è un grande omaggio al Día de Muertos e alla cultura che lo ha generato. Già il nome è infatti un riferimento a Gran Fandango, un’illustrazione dell’inventore del personaggio de La Catrina, José Guadalupe Posada. Nei suoi lavori, Posada utilizzava i teschi tipici della festività per fare commenti sulla situazione politica e sociale del suo Paese e per dare voce al popolo oppresso dalla dittatura. Una delle frasi che gli sono state attribuite sintetizza bene il suo pensiero e spiega perché tutto il suo immaginario, come il mondo di Grim Fandango, sia popolato di calaveras: “La morte è democratica. Alla fine dei giochi, non importa che sia bionda, mora, ricca o povera: qualunque persona finisce per diventare un teschio”.
Quest’ultimo elemento è d’altronde quello più immediatamente riconducibile al Día de Muertos. Nella cultura che dà origine a questa festività, la calavera non è infatti solo simbolo di pericolo, ma rappresenta anche il legame che rimane con la persona scomparsa: l’atto di colorare i teschi, abbellendoli con gioielli e altri oggetti e accessori, era una maniera per ricordare che la persona, sebbene ormai priva di esistenza fisica, rimaneva ancora presente nello spirito. Questa idea, ad esempio, è sopravvissuta anche grazie ai tatuaggi: molti, ormai non solo in America Latina, ricordano un defunto inchiostrando la propria pelle con uno dei coloratissimi simboli del Giorno dei morti, che, oltre al loro importante significato, hanno anche indiscutibile valenza artistica.
La risignificazione di questa festività attraverso altri mezzi non si è fermata ai tatuaggi, ma ha toccato anche iniziative commerciali e simboli estremamente pop, come la Barbie abbigliata per il Día de Muertos, e diverse forme di street art. Se i murales fanno parte dell’eredità artistica messicana ormai già da tempo, grazie a nomi come José Clemente Orozco, David Alfaro Siqueiros e il già citato Diego Rivera, ora per arte di strada si intendono anche nuove forme espressive. Ad esempio,le due calaveras giganti che spuntano dall’asfalto nella municipalità di Tláhuac, a Città del Messico, create in occasione della festività dello scorso anno. Le enormi sculture temporanee erano state costruite in cartone dal collettivo di artigiani Jaén Cartonería: l’idea dei creatori dell’installazione era quella di trovare un modo spettacolare per mostrare ai bambini del quartiere di Santa Cecilia il patrimonio del loro Paese, affinché questa tradizione non venisse dimenticata.
Il rinnovato successo di una festività come il Día de Muertos non si spiega tuttavia soltanto con la fascinazione per la cultura popolare e il crescente desiderio di conservarla. A pesare è anche il significato più profondo che questo giorno porta con sé: riconnettersi con i propri cari che se ne sono andati per poter tornare a celebrare con più forza la vita di chi resta. Perché, un po’ come nel quadro di Frida Kahlo Ritratto di Luther Burbank, il ricordo di chi ci ha lasciato finisce per alimentare sempre quello che siamo. Il Día de los Muertos è oggi soprattutto una festa utile per riscoprire il senso di comunità e la propria identità attraverso il legame con i propri antepasados (antenati). In un mondo sempre più alienato, celebrazioni come il Día de Muertos diventano un’opportunità di sentirsi parte di qualcosa e superare la sensazione straniante di non avere radici cui appoggiarsi. Per questo vale la pena conservarle e renderle popolari, a patto che lo si faccia senza svuotarle di significato.