Il 9 luglio 2006, sui campi dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club di Londra andava in scena la 120esima edizione del torneo di Wimbledon. Poche ore prima che a Berlino l’Italia vincesse il quarto titolo mondiale di calcio grazie a un rigore di Fabio Grosso, attorno al manto erboso del sobborgo londinese si respirava un clima di attesa sobrio e quasi liturgico. Sul green Roger Federer e Rafael Nadal stavano per incrociare le racchette per l’ottava volta nella loro storia personale, chiamati alla prova del terzo slam della stagione. I numeri erano tutti dalla parte dello spagnolo, che dominava gli scontri diretti con un 7 a 1, con l’ultima vittoria ottenuta poco meno di un mese prima sulla terra rossa del Roland Garros, l’11 giugno. L’erba però è la specialità di Federer, già vincitore delle tre edizioni precedenti di Wimbledon, numero uno nella classifica Atp e determinato a difendere il titolo. Il maiorchino Nadal, nonostante i suoi vent’anni giocava come un veterano, con ambizioni da testa di serie e nessun timore reverenziale per lo svizzero. Alla fine, tutto andò secondo i pronostici della vigilia: in quattro set, dopo due ore e cinquanta minuti, Federer riuscì a imporsi su Nadal, conquistando Wimbledon per la quarta volta consecutiva, come era riuscito soltanto a Borg e Sampras prima di lui.
Tra i giornalisti provenienti da tutto il mondo per raccontare l’ottavo capitolo del duello tra Rafael Nadal e Roger Federer che, di lì a poco, avrebbe abbandonato la cronaca sportiva invadendo prepotentemente il terreno dell’epica, c’era anche lo scrittore statunitense David Foster Wallace, inviato a Londra dal New York Times come corrispondente per seguire l’evento. Diciannove anni prima Wallace aveva scelto di convertire la propria tesi di laurea in un romanzo, La scopa del sistema, scompaginando i canoni della letteratura americana. Nel 2006 era a Wimbledon perché conosceva bene la materia: negli anni della giovinezza, aveva dedicato ore e ore al tennis, riuscendo ad affermarsi a livello juniores e sfiorando il professionismo.
Dalla sua esperienza in terra inglese nascerà un articolo scritto per Play, l’inserto sportivo del New York Times, dal titolo iperbolico e particolarmente significativo: Roger Federer as Religious Experience. Come sanno i suoi estimatori, un articolo scritto da Dfw non può mai limitarsi a essere un semplice articolo. In breve tempo si trasformò in qualcosa di superiore, riuscendo a superare ogni confine di genere, diventò prima un saggio, poi un trattato e, alla fine, un vero e proprio oggetto di culto per gli appassionati. Roger Federer as Religious Experience venne tradotto in tutto il mondo, diventando un best seller anche per chi non si interessa di tennis e un classico della letteratura sportiva e non. Con questo articolo, il tennis aveva perso la sua etichetta di sport elitario, entrando a far parte dell’immaginario popolare.
Da quel momento in poi, Wallace ha smesso di essere considerato soltanto uno dei più grandi scrittori del mondo per diventare il più grande scrittore di tennis del mondo. Il testo, che potremmo definire al contempo saggio, romanzo breve e racconto, prende spunto dalla definizione dei cosiddetti Federer Moments, ossia quei momenti in cui Roger Federer abbandona i panni dell’essere umano e “fa cose che sembrano uscite da Matrix”, lasciando lo spettatore con gli occhi sbarrati e la bocca aperta per lo stupore. La descrizione quasi messianica della personalità di Federer, il racconto minuzioso del suo sport preferito (o meglio dell’unico in relazione al quale, nella sua visione delle cose, valesse la pena di scrivere), l’inedita terminologia utilizzata, la prosa pirotecnica, vertiginosa e totalmente fuori di testa: tutti questi elementi si fondono nell’apologia della bellezza del gesto atletico. Con la pubblicazione di Roger Federer as Religious Experience è nato un nuovo modo di raccontare il tennis attraverso la parola scritta.
Wallace abbonda con i neologismi e le citazioni della cultura pop, decostruisce il lessico tennistico per poi ricomporlo: si passa così dal dritto di Federer descritto come “a great liquid whip” (reso da Giovanna Granato, traduttrice della recente edizione Einaudi, come “una possente scudisciata liquida” e da Matteo Campagnoli, che si è occupato della traduzione per Edizioni Casagrande, con “un’ampia frustrata liquida”), ai “guardalinee che entrano in campo con le nuove divise Ralph Lauren che ricordano tanto i vestiti da marinaretto dei bambini”. Rafael Nadal viene descritto come “mesomorfo e marzialissimo”, mentre l’esperienza estatica che lo spettatore prova nel guardare in azione Federer diventa una “bloody near-religious experience” che permette all’essere umano di fare pace con i limiti connessi alla propria corporeità. Infatti, come Wallace ricorda in una delle sue note a piè di pagina, se sono tanti gli aspetti negativi connessi al semplice fatto di avere un corpo (come il dolore, le ferite, i cattivi odori, la nausea, la malattia), è anche vero che vedere atleti del calibro di Federer “fare cose con il corpo che il resto di noi può solo sognarsi” aiuta a sentirsi meglio. Accettare l’inevitabile decadenza del nostro corpo assistendo alle imprese sportive di uno dei pochi campioni rimasti non risolve tutti i nostri problemi, ma è sicuramente di grande sollievo per noi comuni mortali.
Quella tra David Foster Wallace e il tennis è sempre stata una relazione felice, appassionata e ben nota anche negli anni precedenti alla stesura di Roger Federer as Religious Experience. Lo dimostrano suoi testi meno noti come Tennis, trigonometria e tornado, Democrazia e commercio agli Us Open, L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano, Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore. Anche il suo romanzo più celebre, Infinite Jest, è ricco di riferimenti tennistici: le vicende ruotano attorno alla prestigiosa ed elitaria Eta (Enfield Tennis Academy), situata nei sobborghi di Boston e dominata dall’imponente figura del direttore Gerhardt Schtitt.
Per David Foster Wallace il tennis era una cosa seria che non si riduceva all’essere il suo sport preferito: era il protagonista di un amore tormentato, in grado di influenzare il suo stato d’animo, portandolo letteralmente dall’estasi alla dannazione.
Lo dimostrano due esempi della vita dello scrittore: il primo è il dritto in controbalzo di Federer che spiazzò Andre Agassi durante il quarto set della finale degli Us Open 2005, emozionando Wallace a un punto tale da essere accompagnato da grida di stupore e pop corn rovesciati sul divano. Il secondo, causa di un sentimento opposto, è il momento in cui si rese conto che non sarebbe mai diventato un tennista professionista, osservando la storia personale di Tracy Austin. Giovanissima promessa del tennis femminile tra gli anni Settanta e Ottanta, Austin fu in grado di vincere un torneo professionistico a soli quattordici anni, uno Us Open all’età di sedici e di conquistare la vetta della classifica mondiale all’età di ventuno, ma dovette ritirarsi all’apice della carriera per i numerosi infortuni.
In alcune lettere inviate a Don DeLillo – parte di in una raccolta conservata negli archivi dell’università di Austin – Wallace confessò al collega che, tra i saggi che aveva scritto, il suo preferito era Derivative Sport in Tornado Alley (tradotto, in Italia, come Tennis, tv, trigonometria e tornado), in cui racconta le sue esperienze come tennista juniores.
In un’intervista con il giornalista Charlie Rose, dopo aver discusso di David Lynch, del suo film Blue Velvet e aver coniato l’aggettivo lynchiano (“la relazione che sussiste tra l’incredibilmente grottesco e l’incredibilmente banale”, tra “alimenti e pezzi di cadavere”), Wallace rispose a Rose sul perché avesse smesso di giocare a tennis a livello agonistico. La risposta fu che scrivere nel 1996 un saggio su Michael Joyce per Esquire, numero 100 in classifica Atp e campione Juniores, gli fece capire che esistevano tanti, troppi livelli differenti dal suo.
La vita di Wallace è sempre stata divisa tra la racchetta, diventata quasi un prolungamento del suo braccio, e la penna che gli consentiva di fare ciò che gli era interdetto sul campo da tennis: il paradosso di una vita passata a invidiare, da fuoriclasse della scrittura, le gesta dei fuoriclasse del tennis. Il 12 settembre del 2008, all’età di soli 46 anni, venti dei quali passati a combattere la depressione, Wallace si impiccò nel suo appartamento californiano di Claremont. A quasi tredici anni di distanza da quella finale di Wimbledon del 2006 in cui, partecipando a un atto di bellezza, Wallace era riuscito a ritrovare il suo equilibrio e a fare pace con i limiti del suo corpo, Federer occupa ancora il terzo gradino nella classifica mondiale. Chissà se avrebbe pronosticato che quel tennista svizzero in grado di farlo emozionare così tanto, di Wimbledon ne avrebbe vinti altri quattro.