La paura e il delirio di Gabriele D'Annunzio a Fiume - THE VISION
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La prima guerra mondiale uccide 17 milioni di persone. La psiche dei sopravvissuti è devastata, gli uomini hanno assistito a orrori tali da condurli alla pazzia; scoppiano a piangere se vedono un berretto da ufficiale. Si rannicchiano sotto il letto se una porta sbatte, tremano senza motivo. Alcuni disimparano a camminare. Le donne si ritrovano figli orfani, fratelli morti o mariti mutilati. L’Europa è nella stessa situazione di disagio: eravamo entrati in guerra esigendo in cambio il Trentino Alto Adige, l’Istria e la Dalmazia, quattro anni dopo siamo sull’orlo dell’anarchia. L’Impero Austroungarico è collassato, e cose che davamo per scontate non esistono più. Tra queste, ci sono i confini nazionali.

Nel 1919, Fiume è una polveriera pronta a esplodere.

Per le strade ci sono le truppe serbe, nelle case vivono cinquantamila abitanti, di cui metà italiani. Viene istituito un Consiglio Nazionale e proclamata l’annessione all’Italia, mentre Roma invia reparti militari per proteggere gli abitanti. I serbi si oppongono, ci sono disordini, risse, qualche sparatoria. Si forma una polizia interforze di francesi e inglesi capeggiata da Grazioli, un generale ultra-nazionalista che reputa Fiume già italiana. I serbi, in minoranza, se ne vanno. Tittoni, nostro ministro degli esteri, arriva a Parigi e trova una nota di Francia e Inghilterra: l’Italia non ha mantenuto gli impegni del patto di Londra, quindi Fiume non ci spetta. Come se non bastasse, durante la conferenza di pace di Parigi arriva notizia che a Fiume sette soldati francesi sono stati linciati dagli italiani in una rissa. Il malumore cresce, Tittoni nomina una commissione d’inchiesta interforze a Fiume, abolisce il Consiglio Nazionale e allontana Grazioli, sostituendolo con Pittalunga. In Italia, gli irredentisti capiscono che stanno per perderla e chiedono aiuto.

Conferenza di Parigi
Gabriele D’Annunzio

Gabriele D’Annunzio vive nella casetta rossa a Venezia: passa le giornate tra imprese volanti e amplessi con Luisa Baccara e la contessa Morosini, donna stupenda quanto di scarsa cultura a cui mandava messaggi in latino che lei non capiva. Quando viene a sapere del governo provvisorio a Fiume ci mette poco a decidere il da farsi. Le legioni di Host Venturi sono già lì: tramite la Gazzetta del popolo proclama di riprendere le armi “per amore di Cristo” e poi manda una lettera a un giovane Mussolini annunciando che prenderà Fiume con la forza. Parte all’alba del 12 novembre a capo di 300 uomini e a Ronchi si aggiungono granatieri di Reina e legionari di Venturi: diventano mille. Alla notizia del loro arrivo Pittalunga gli marcia incontro per fermarlo. Quando D’Annunzio sporge il petto coperto di medaglie e gli dice “se lo reputate dovere vostro, sparate qui”, Pittalunga non ce la fa. Lo abbraccia e lo accompagna a Fiume, si fanno vedere assieme dal balcone del municipio. Cittadini, guarnigioni, persino gli equipaggi delle navi militari si mettono ai loro ordini. Polizia e reparti interforze vengono arrestati e fatti allontanare di notte: Fiume diventa italiana.

“A chi, Fiume?”, domanda D’Annunzio dal balcone.

“A noi!”, risponde la folla.

D’ Annunzio parla ai cittadini di Fiume

Ma ora D’Annunzio deve prepararsi alla reazione di Nitti. Forma un governo provvisorio e cerca d’intavolare rapporti diretti con Roma e gli alleati. Non basta, gli servono uomini, mezzi, viveri e armi. Non li può creare, ma li può convertire e dal balcone tiene un discorso al giorno, a volte due. Inventa la retorica degli immancabili destini, del mare nostrum, delle legioni romane. L’idea dell’Italia imperiale e del sacrificio sublime: D’Annunzio conosce bene il cuore degli uomini, e sa come toccarlo. Esaltati da quell’immaginario epico, da tutto il mondo arrivano idealisti, sbandati, poeti, nobildonne, prostitute, eroi di guerra e ragazzini che non hanno fatto in tempo a diventarli; attori, artisti a caccia di visibilità, omosessuali in fuga e spacciatori di droga. In pochi giorni, da mille legionari diventano ottomila e D’Annunzio nomina ministro degli esteri un poeta belga di ventotto anni, Leòn Kochnitzy; fa diplomatico un giapponese napoletanizzato, Harukichi Shimoi; istituisce l’Ufficio colpi di mano, ministero che si occupa di organizzare azioni di pirateria e gli mette a capo Guido Keller col titolo di “Segretario d’azione”. Keller in volo è un genio (tre medaglie d’argento), mentre a terra è uno squilibrato che defeca dai rami degli alberi, gira nudo nei campi d’aviazione con addosso solo ciabatte arabe, ha un’aquila ammaestrata di nome Guido e un asino di nome Camillino. La sua dieta consiste nel mangiare esclusivamente petali di rosa canditi. A questa strampalata squadra D’Annunzio insegna i principi del suo Stato: il potere dev’essere gestito dai “migliori”; la religione ufficiale dev’essere la bellezza; ci dev’essere assoluta parità dei sessi e libertà d’amore, col solo limite di quello estetico. Fiume diventa un incrocio tra Pattaya e la Legione straniera. Le donne girano nude avvolte in bandiere italiane, le strade sono un carnevale di uomini che interpretano il concetto di eleganza a modo loro. Ovunque ci sono feste, orge, banchetti, concerti, balli e fiumi di droga. Finché Nitti ne viene messo al corrente.

Il Comandante D’Annunzio tra i suoi bersaglieri a Fiume

Italia

Sfollarli a forza è un suicidio, gli uomini di Badoglio potrebbero disertare e rivoltarsi contro lo Stato. E il problema non è solo militare, ma anche civile: tutti gli italiani, sia socialisti che nazionalisti, simpatizzano con la causa. I primi perché credono sia l’inizio della “rivoluzione proletaria”, i secondi perché sobillati da Mussolini e i suoi fasci da combattimento. Dal suo giornale, il futuro Duce esalta la guerra, l’irredentismo, promette terra ai contadini, la partecipazione operaia alle gestioni delle aziende e il voto alle donne, il tutto tenuto insieme dal mito del combattimento, cioè l’azione. E funziona: L’Italia è piena di uomini che i vent’anni li hanno passati in trincea tra fango, sangue e paura, che non riescono a mettere i panni dei civili, perché non li hanno praticamente mai indossati e così passano le giornate a sfogare la violenza, l’orrore, la morte e il disagio sociale che hanno dentro. Si chiama reducismo e come tutti gli –ismi, in Italia, paga bene in campagna elettorale. Nitti ha solo un’arma a disposizione contro D’Annunzio: il tempo. I golpe ragionano in termini di minuti, non di ore. Rende esecutivo un blocco navale dei rifornimenti e aspetta.

Una squadra d’azione di Lucca nel 1922
Arditi di Bologna

Fiume

D’Annunzio para il colpo: istituisce il divorzio. Così, migliaia di coppie disastrate arrivano a Fiume per separarsi – pagando. Keller assalta le navi commerciali derubandole e compiendo razzie nei villaggi vicini, risolvendo il problema dei rifornimenti, ma Nitti l’ha vista giusta. Feste ed eccessi iniziano a logorare i nervi dei fiumani e dei legionari: i primi, dopo grandi proclami, ancora non sanno se sono italiani o yugoslavi; i secondi bivaccano nei caffè, programmando imprese improbabili e ordendo cospirazioni da operetta. Anche D’Annunzio perde slancio e passa più tempo tra le cosce di Luisa Baccara che al tavolo del Consiglio. Keller fa cose sempre più strane, addestra un ragazzino a sgozzare maiali per una settimana, poi lo manda a Roma per assassinare Nitti – il giovane non ce la fa e per la vergogna si spara in albergo. Poi forma la scorta personale di D’Annunzio, chiamata La Disperata, e ordina di addestrarsi a proprio modo: la squadra finisce sbronza a tirarsi bombe a mano alle due del mattino. Keller pensa addirittura di rapire la Baccara, colpevole di distrarre il Vate dai suoi obblighi. Lo Stato di Fiume, insomma, scricchiola.

Francesco Saverio Nitti
Guido Keller

Italia

Il governo rischia di cadere e il Paese di sprofondare nell’anarchia. Dopo un massacrante dibattito nella Camera dei deputati, Nitti riesce a tenere in piedi entrambi con 65 voti, sacrificando Tittoni. Come ultimo colpo di coda prima delle elezioni fa a D’Annunzio una proposta: l’Italia consentirebbe a Fiume il diritto all’autodecisione. Fatto questo, D’Annunzio dovrebbe consegnare la città ai militari italiani in attesa dell’annessione ufficiale alla conferenza di pace. Il Vate riferisce la notizia al Consiglio Nazionale che ne è entusiasta e lo approva con un plebiscito. Sembrano a un passo dalla vittoria, ma Nitti perde le elezioni e gli succede Giolitti, che appena insediato comincia a ricevere delegazioni di yugoslavi esasperati. Deve sgonfiare tutto, evitando l’Italia insorga in isterie nazionaliste. L’aiuto glielo darà proprio il nemico.

Gabriele D’Annunzio

Fiume

D’Annunzio si rimangia l’accordo e i legionari gli si rivoltano contro, lo abbandonano. Se ne va Giurati – capo di gabinetto e unico elemento serio – e viene sostituito da Alceste De Ambris, un sindacalista. Cambia tutto: le sue forze scendono da 8000 a 5000 uomini. Si fa avanti la frangia estremista, che voleva Fiume roccaforte di un movimento rivoluzionario. Arrivano Errico Malatesta, capo degli anarchici, seguito da Saad Zaghlul dall’Egitto, Sean O’Kelly dall’Irlanda e Béla Khun dall’Ungheria, con cui D’Annunzio scrive la carta del Carnaro. Lenin, al congresso di Mosca, definisce il Vate “l’unico rivoluzionario in Italia”.

Vladimir Ilyich Lenin
Lettera datata 26 maggio 1920, firmata da Gabriele D’Annunzio

Italia

Mussolini ha seguito con attenzione le elezioni e Giolitti sarebbe l’unica alternativa al caos. Quello che vogliono gli italiani è l’ordine, dunque conviene abbandonare D’Annunzio, che se prima era un rivale, ora è solo una zavorra scomoda o, come lo definisce Mussolini, “un pazzo pericoloso”. Mentre il Duce toglie dai programmi dei fasci tutte le proposte rivoluzionarie, D’Annunzio tenta di riprenderlo trattando un’eventuale marcia di legionari e fascisti su Roma. Il primo si dice d’accordo, ma a una condizione: che si faccia l’anno successivo, nella primavera del 1921 – sa che D’Annunzio non arriverà mai a quella data. Il 12 novembre 1920 serbi, croati, sloveni e italiani firmano il trattato di Rapallo, che sistema definitivamente la questione di Fiume. Giolitti dà l’ultimatum: o sloggiano entro l’alba di Natale, o userà la violenza. D’Annunzio non gli crede, ma sbaglia. Il 21 dicembre il generale Caviglia esegue un blocco su terra e mare dello Stato di Fiume.

La R.N. Cortellazzo sbarra l’uscita dal porto alla nave da battaglia Dante Alighieri con i motori già accesi

Fiume – Il Natale di sangue

All’alba della vigilia di Natale a Fiume c’è aria di festa. Nevica, i negozi sono aperti, la gente s’affretta a fare gli ultimi acquisti e alle 18 la 45° divisione delle truppe regolari entra in città. Scoppia l’inferno, i militari italiani aprono il fuoco contro i legionari di D’Annunzio. È un’avanzata difficile, perché i legionari sono quasi tutti ex Arditi, ossia militari d’élite. Restano uccisi cinque civili, tra cui una bambina di dodici anni. La battaglia prosegue fino a mezzanotte, quando si ferma per rispettare il Natale e dare il tempo ai civili di raccogliere i propri morti e feriti. L’attacco riprende all’alba del 26, senza riuscire ad avanzare di un metro: gli arditi sono ossi duri. A mezzogiorno, Caviglia contatta l’ammiraglio Simonetti a bordo dell’Andrea Doria: è una corazzata classe Duilio protetta da 250mm d’acciaio e armata con cannoni Elswick Pattern “T” da 305 mm e cannoni da 152 mm. L’Ammiraglio riceve l’ordine di aprire il fuoco su Fiume, la Doria si muove e a un miglio dalla costa trova l’Espero, cacciatorpediniere agli ordini di D’Annunzio. I 152 della Doria sventrano la corazza e arrivano alla Santa Barbara. L’Espero esplode, uccidendo il marinaio Desiderato Rolfini e affondando. La Doria prosegue per mezzo miglio, poi punta il palazzo di comando di Fiume e apre nuovamente il fuoco: il proiettile da 47kg centra la palazzina, uccidendo un sergente e ferendo D’Annunzio. Poi continua sul resto di Fiume per tutta la notte finché, il giorno dopo, Host Venturi e il sindaco chiedono al generale Ferrario di lasciar loro evacuare donne, vecchi, bambini. Ferrario rifiuta, ma concede una tregua fino alle 14, poi avvisa che inizierà a bombardare a tappeto, ma non con i 152: coi 305. Ogni proiettile pesa 200kg. D’Annunzio capisce di avere perso: abdica, lasciando Fiume al sindaco e tenendo solo il comando dei suoi legionari. I cittadini si arrendono e firmano la resa ad Abbazia, il 31 dicembre. Il 2 gennaio, D’Annunzio e i suoi vanno al cimitero di Fiume per rendere omaggio ai 50 caduti, poi se ne vanno tutti.

Cartolina d’epoca

Epilogo

Nitti, di D’Annunzio, dirà che “ha lasciato Fiume come ha lasciato tutte le sue donne: in miseria”. Guido Keller tenterà invano di riportare il suo idolo alla battaglia. D’Annunzio è stanco, e forse deluso, passa gli ultimi anni della sua vita sul lago di Garda tra amanti, cocaina e menta Get. Di Mussolini dirà che è “un codardo opportunista”, dimostrando che il cuore degli uomini, lui, lo conosce bene davvero. Ma quella è una storia diversa, più lunga e tragica. Parafrasando la Medea di Euripide: i sogni erano finiti, ma la notte era ancora lunga.

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