Non esiste alcun modo di affrontare la cronaca nera senza piantare l’ennesimo chiodo nella bara di chi non ha i mezzi per difendersi. Non esiste onore, nel raccontare, da esterni, un reato contro la persona, come non esiste una soluzione formale in chiave nonfiction che abbia dimostrato di saper durare attraverso il tempo. A parte il pastone.
Il pastone è il nome che in gergo viene dato a quel miscuglio tra materiali audio e video di repertorio, interviste frontali ai personaggi chiave dell’inchiesta, ricostruzioni degli eventi con attori chiamati a interpretare i vari ruoli. C’è un cadavere. C’è quasi sempre una voce fuori campo, piuttosto solenne, che fa domande retoriche, c’è una musica eccessiva messa ad accompagnare le sequenze tese o macabre, ci sono i testimoni e i parenti, c’è il criminologo, c’è il giornalista che ha scritto il libro sul caso. Manchi solo tu. Il pastone non sposta in maniera significativa le sorti di nessuno, ma non è nemmeno un ripugnante atto di voyeurismo mediatico. Si offre pacifico allo sguardo degli altri, in parte informa, in parte intrattiene, e nel migliore dei casi viene affidato a professionisti competenti, con alle spalle un gruppo di ricercatori abili a recuperare materiali poco visti quando non inediti.
Il delitto Varani, in onda su Crime + Investigation (Sky) è un pastone di alto livello. Le riprese con gli attori sono lunghe e insistite. Il materiale di repertorio è molto buono: le tracce audio dei primi interrogatori ai due assassini, Manuel Foffo e Marco Prato, si erano sentite pochissimo prima d’ora. Nelle interviste la parte del leone la fanno i tre padri dei protagonisti – Valter Foffo, Ledo Prato e Giuseppe Varani, il papà della vittima, Luca. E tra le immagini girate apposta ci sono scorci di Roma notturna con le strade semi-vuote e i colori violenti che richiamano l’inizio di ACAB di Stefano Sollima. La confezione è stata affidata agli stessi autori di Delitti, che ormai dominano lo scenario del true crime italiano, e la morale che se ne può trarre è che gli esseri umani sono un mistero, e la follia a volte nasce durante una “chiusa”, una tre giorni in cui ci si sbarra in casa propria con robuste scorte di alcol e cocaina, per cui si uccide un ragazzo e ci si pente subito dopo. Però questo documentario è sempre un pastone. Perché non si può fare altro, a meno di personalizzare tutto e utilizzarlo per fare Arte o per parlare di se stessi.
L’incontrastato re dei pastoni è stato Dominick Dunne, un produttore cinematografico caduto in disgrazia durante gli anni ’70, che trovò una seconda vita scrivendo una nonfiction sull’omicidio della figlia Dominique e sul processo frettoloso al suo assassino, l’ex fidanzato, terminato in una condanna irrisoria. Il testo venne pubblicato da Vanity Fair con il titolo Justice, “Giustizia”. Grazie a quel reportage personale Dunne diventò la firma di punta della rivista. Oltre a decine di libri true crime produceva a ritmo incessante lunghi articoli di cronaca giudiziaria dove mescolava dichiarazioni, dettagli d’ambiente, osservazioni acute, episodi del passato. Fu lui, per primo, ad accorgersi che l’avvocato Leslie Abramson quando era in aula puntava gli operatori addetti a riprendere il processo più di quanto corteggiasse il giudice e la giuria: “sa come piacere alla telecamera tanto quanto Barbra Streisand sa piacere alla cinepresa”. Quando Dunne arrivò a condurre un programma di inchieste in TV, Power, Privilege & Justice, ci trapiantò lo stesso identico stile. E se prima forse un certo tipo di pubblico schifava i prodotti bassi, col tempo hanno tutti cambiato idea.
Un paio d’anni fa l’orizzonte del true crime sarebbe stato stravolto da due prodotti che avrebbero dovuto rivoluzionare per sempre il nostro modo di concepire e consumare il genere. Uno, The Jinx – La vita e le morti di Robert Durst (HBO), era una serie breve in sei puntate con al centro un uomo ricco che si era trovato coinvolto in tre diversi fatti loschi e se l’era sempre cavata grazie al proprio denaro e alla posizione sociale della famiglia di provenienza. L’altro, Making a Murderer, era uno pseudo-documentario in tredici episodi andato in onda su Netflix, che cercava di gettare luce su un caso di stupro e omicidio di cui erano imputati uno sfasciacarrozze del Wisconsin e il nipote adolescente, forse minorato mentale; lo sfasciacarrozze aveva già passato diversi anni in carcere, accusato di uno stupro che non aveva commesso, per poi essere scagionato dalla prova del DNA.
Entrambe le serie sono state oggetto di migliaia di articoli, sono state le beniamine dei social network, hanno contagiato spettatori “alti”, borghesi e istruiti. Sembrava che nobilitassero un genere legato a triplo filo alle riviste con le pagine incollate. Benissimo: di queste due killer app della cronaca nera è rimasto poco. Come era inevitabile. Perché The Jinx era un’operazione autoriale spinta, il frutto dell’ossessione individuale di lunga data che per Durst nutriva il regista Andrew Jarecki, a cui non era parso vero di poter finalmente inchiodare davanti alla telecamera l’uomo a cui dava la caccia da tutta la vita, se sulla sua storia aveva già girato un mediocre film di finzione, Love and Secrets, e potergli finalmente chiedere se avesse ammazzato lui la moglie, l’amica e il vicino di casa. The Jinx era una performance artistica basata sulla manipolazione, arrivata in un momento in cui poteva essere scambiata per intrattenimento semi-morboso e quindi data in pasto al pubblico più ampio possibile. Making a Murderer, invece, è stata un’allucinazione collettiva spacciata per “cronaca seria e rigorosa”, comunque di una parzialità spesso evidente, che sembra aver avuto, quale unico effetto, quello di creare baccano intorno a un processo, mentre sul piano del racconto attraverso parole e immagini, per decine di minuti alla volta, non succedeva nulla di più eclatante di una calamita che si staccava dal frigorifero. Semmai, la furbizia di Netflix è stata la decisione di mandarlo in onda tra Natale e Capodanno, intuendo che l’utente americano medio, pur di non rivolgere la parola ai consanguinei durante le feste comandate, si sarebbe guardato qualsiasi contenuto purché estenuante.
Nel giro di due anni, di questo presunto salto qualitativo che ci avrebbe dovuto traghettare tutti verso una nonfiction migliore ci è rimasta una parodia, American Vandal, sempre su Netflix, dove la rovente matassa da sbrogliare tramite indagini serrate è la vera identità del liceale che disegna cazzi sulle automobili dei professori.
Tra le pratiche abituali di chi si occupa di cronaca nera, ormai, troviamo sempre il saccheggio dei profili aperti sui social media da vittime e carnefici in uguale misura; forse in Italia ce ne siamo resi conto nel 2007, quando le fotografie e i post goliardici seminati da Raffaele Sollecito in un blog sono stati ripresi dalle testate giornalistiche più importanti, come fossero indizi della sua colpevolezza nell’omicidio di Meredith Kercher, o, al limite, segni di una marcata debolezza morale. In Canada c’erano già arrivati nel 2004, quando l’adolescente Rachelle Waterman fu accusata di aver orchestrato la morte della madre, e il suo LiveJournal venne passato al setaccio da inquirenti e giornalisti in cerca di prove – oltre a essere infestato, per anni, da troll che commentavano ogni vecchio post con riferimenti al delitto.
Il delitto Varani ripete la stessa operazione, cercando però di stabilire quale fosse la differenza tra i veri Foffo e Prato e le maniere in cui entrambi si portavano in scena sui social, Prato con maggiore convinzione rispetto a Foffo. Un’ansia di auto-narrazione che lo dominava anche nei momenti intimi e critici, se il giorno dopo l’omicidio è andato in un albergo di Roma con l’intento di suicidarsi, e le forze dell’ordine l’hanno trovato disteso sotto il letto, circondato da oggetti e abiti femminili, con la voce di Dalida che cantava a tutto volume. Foffo, aveva confessato a Prato il desiderio di uccidere il proprio padre. Prato era calvo, nella vita reale, e indossava un toupet. Come il parricida Lyle Menendez, protagonista della cronaca nera mondiale fine anni ’80, fiumi d’inchiostro versati anche in Europa per il ragazzo agiato che insieme a un fratello succube, e forse omosessuale latente, aveva massacrato i genitori, e si era poi giustificato sostenendo che fosse stato un eccesso di legittima difesa, che il babbo lo stuprasse fin da bambino – il tutto piangendo a favore di telecamera nell’aula di tribunale.
Sul caso Varani scrisse tanto Nicola Lagioia, autore di un reportage pubblicato subito sul Venerdì di Repubblica e oggi disponibile online su minima et moralia. Vero, Lagioia ci si buttò come Truman Capote, però si spese personalmente, in pochi giorni, per cercare di incrociare il mondo attorno al delitto: andò a parlare con gli amici, i vicini, molti frequentatori dei locali dove Prato faceva il pierre; e soprattutto individuò un elemento cruciale del mondo nei padri dei due assassini, il commerciante Valter Foffo e il manager culturale Ledo Prato. Il primo parlava con giornali e TV per difendere a spada tratta l’eterosessualità del figlio, il secondo scriveva un post sul suo blog a titolo “Sono sempre io, nonostante tutto”, in cui più che invocare il diritto alla privacy sembrava desideroso di affermare la validità dei suoi valori cristiani e di un lungo percorso professionale.
Lagioia viene intervistato a lungo in questo documentario. Parla con la fluidità che gli è abituale, racconta quali derive secondo lui possano prendere determinate notti nella città di Roma. Alla fine, chiama i due assassini “apprendisti stregoni che giocano col fuoco… e a un certo punto la casa s’incendia”. Parole forti, Satana. Dichiarazioni di questa natura, in un crime, ci devono essere. Fa parte del gioco: il consumatore le pretende e Lagioia è capace di pronunciarle a voce alta e farti fare segno di sì con la testa.
Ma gli scatti in avanti, le crepe, i passaggi che mettono a disagio, Il delitto Varani se li concede soltanto quando lascia respirare il suo materiale, e permette allo spettatore di trovare molesto il confronto tra il prima e il dopo, le diverse versioni dei fatti. Valter Foffo che alla telecamera, adesso, di Manuel dice “non è mai stato un ragazzo di gran parole”, e insiste sulla normalità della persona che ha contribuito a mettere al mondo, mentre prima andava ospite da Porta a Porta e definiva il figlio “eccezionalmente buono”, vantandone il quoziente di intelligenza superiore alla media. Ledo Prato grande assente, nessuna intervista, nessun cenno, entra in campo soltanto nelle brevi immagini delle intercettazioni ambientali registrate nel parlatorio di un carcere. Dev’essere quello di Velletri, dove Marco si è poi tolto la vita. Il padre manager a cui il figlio chiede soldi “per un upgrade”, la bombola di gas che poi utilizzerà per suicidarsi in cella.
Ci sono pastoni e pastoni. Questo è un pastone che sta all’onore del mondo. Si prende un’ora e venti per arrivare a sbatterti in faccia la parte peggiore, ma allora ti trova pronto.
Quando Carlo Lucarelli nei tardi anni ’90 conduceva i suoi programmi Rai dedicati ai grandi misteri – il più celebre è rimasto Blu Notte – la storia di turno veniva sempre agganciata al corpo e al volto del presentatore, già allora affermato scrittore di romanzi gialli e noir. Lucarelli esagerava molto, certo. Personalizzava. Sceglieva di portare in primissimo piano i trucchetti della narrazione (“lasciamolo da parte, ci torneremo dopo”). E quel jazz in sottofondo, poi. Ma si era comunque cucito addosso uno stile tanto riconoscibile da diventare oggetto di feroce parodia da parte di Fabio de Luigi in Mai dire gol, con il tormentone “paura, eh?” che è quasi sopravvissuto al modello originale. Non ne abbiamo avuto un altro che lasciasse il segno, anche a costo di irritare. Non abbiamo più le facce stravolte di Un giorno in pretura e non abbiamo mai avuto un The Wire della vita reale.
Lo spettatore che ama Franca Leosini, ammesso che non dica di farlo per risultare irriverente e troppo avanti sui social, desidera guardare un pastone di cronaca nera inframmezzato dalle domande che una giornalista di mestiere e di una certa età pone ai protagonisti del fatto, con il tono, peraltro, della professoressa di Chimica che in vita propria ne ha viste di tutti i colori, figuriamoci se perde il contegno di fronte a un’occupazione di tre giorni, e sa come sollevare un’obiezione sgradevole centrando in pieno la vulnerabilità della controparte. La sua intervista a Rudy Guede merita di essere vista per chi vuole una master class.
Gli unici prodotti che stanno portando avanti un discorso sul crime cercando una strada più ricercata sono i podcast, almeno in lingua inglese. Dopo l’apri-pista di Serial (NPR), ne sono spuntati centinaia, a vario livello di professionalità. In Italia c’è stato solo Veleno. La stessa NPR ha prodotto una seconda stagione di Serial dedicandosi a una storia politica, la defezione del soldato Bowe Bergdahl poi sequestrato dai Talebani, ma ha ripetuto il successo del prototipo con un podcast che partiva in zona cronaca nera, S-Town, e tempo due episodi era già diventato una girandola di bizzarre, tristi, piccole storie umane ambientate nello stesso spicchio di provincia dell’Alabama.
L’indagine su un presunto delitto irrisolto cadeva nel nulla, perché non c’era nulla da riferire.
Intanto, numeri alla mano, il successo clamoroso nel crime ce l’ha avuto Up and Vanished (“Scomparsa nel nulla”), un podcast amatoriale fatto da un regista della Georgia, Payne Lindsey, che aveva in curriculum due spot pubblicitari e un video musicale, non possedeva alcuna dimestichezza né con la radiofonia né con l’indagine giornalistica, ma bruciava dalla voglia di scavarsi un posto nel genere del momento. È andato a rovistare nell’archivio dei casi irrisolti del suo Stato natale, ha scoperto che una donna era sparita senza lasciare un cadavere, e ci ha fatto il podcast. Up and Vanished è stato scaricato oltre 100 milioni di volte. Non è una buona inchiesta e racconta molto poco del mondo di chi ne è protagonista, però c’è la voce narrante impostata, c’è la colonna sonora invadente, c’è un investigatore che trasforma se stesso nella grande star del reportage anche quando dichiara “io voglio solo giustizia, voglio sia fatta chiarezza”. Siamo tutti qui. Siamo pronti a ripartire. Abbiamo la donna, l’assassino, il poliziotto cinico ma tenace, il criminologo allibito dall’efferatezza del fatto, il giornalista o il romanziere che ha scritto il libro, i reperti fotografici del corpo torturato prima del colpo fatale, i genitori sconvolti che chiedono perdono, pietà, aiuto. Siamo tutti sbarrati dentro una casa con tredici puntate di una sostanza da ingerire, e nessuno ci tirerà fuori da qui.