Quindici anni fa, l’Italia viene sconvolta da uno dei più grandi scandali per bancarotta fraudolenta e aggiotaggio della storia europea: il crac Parmalat. Il buco di bilancio lasciato dagli amministratori al momento del fallimento è di circa 14 miliardi di euro, una cifra enorme. Quel 4 dicembre del 2003, 150mila risparmiatori realizzano di aver perso per sempre i propri risparmi.
Tutto nasce nel 1961 a Collecchio, in provincia di Parma, grazie a un’intuizione del giovane Calisto Tanzi, che abbandona gli studi universitari per dedicarsi a tempo pieno alla gestione dell’impresa familiare. Calisto è sveglio, dopo un viaggio in nord Europa nota che il latte viene venduto in singolari confezioni di cartone e ne rimane colpito per la versatilità. Decide quindi di adottare lo stesso materiale, il Tetrapack, per impacchettare il latte e sviluppare contemporaneamente quello Uht, a lunga conservazione. È un successo, Parma cade ai suoi piedi. Attraverso la promozione porta a porta riesce ad aggiudicarsi anche i vicini mercati di Genova e Firenze. Se nel ’62 la piccola azienda di prodotti alimentari fattura 200 milioni di lire, a metà anni ’70 diventano 100 miliardi. Sull’onda del successo, il patron di Collecchio non si ferma e decide di investire nella promozione del marchio Parmalat: il celebre simbolo del latte è ovunque, sui cartelloni pubblicitari, in tv, sui giornali. E naturalmente nei supermercati dell’intero Stivale e di mezza Europa.
Tanzi decide di espandere la società oltre confine utilizzando la stessa idea vincente e ampliando la produzione a succhi di frutta (Santal), conserve alimentari e prodotti da cucina. Le cose vanno bene, anzi benissimo: non ci sono concorrenti dotati di una rete distributiva così capillare e la domanda di latte a lunga conservazione traina l’offerta. Nel frattempo l’imprenditore parmigiano tesse le reti con la politica della prima Repubblica, finanziando campagne elettorali e nutrendo una costante attenzione verso interessi degli interlocutori politici. La sua amicizia con Ciriaco De Mita, segretario della Dc, è sotto gli occhi di tutti. Una ragnatela politica che gli serve per aprire le porte del mondo bancario. Riesce al tempo stesso ad assicurarsi il favore della stampa attraverso finanziamenti a Il Foglio, Il Manifesto e La Gazzetta di Parma. Agli occhi dell’opinione pubblica Tanzi è un imprenditore modello: religioso, per bene, attaccato ai figli, ma soprattutto dedito alle proprie fabbriche.
Ma fare i soldi con il latte non è facile, perché notoriamente è un prodotto a basso margine di guadagno. Alla fine degli anni Ottanta la concorrenza aumenta e il profitto scende fino a diventare negativo. La Parmalat è in perdita e accumula debiti e per poco non viene ceduta al gruppo Kraft. Così, Tanzi, insieme a Fausto Tonna, il direttore finanziario che avrà un ruolo fondamentale nella creazione della truffa che portò al crac, hanno un’idea: quotare la società in borsa. Il problema è che nel mondo imprenditoriale si vocifera già dei mancati pagamenti ai fornitori e l’impossibilità per l’impero del latte di reperire finanziamenti presso le banche, quindi la quotazione non è un’operazione facile. I due si rivolgono a Gianmario Roveraro, banchiere e fondatore di Banca Akros, un istituto di credito che cura proprio il collocamento delle aziende sui mercati finanziari. Date le malridotte casse societarie, Roveraro consiglia a Tanzi e Tonna di acquisire una società già quotata, la finanziaria Centronord, ed entrare così su Piazza Affari in modo indiretto.
L’unica condizione è quella di svendere Odeon TV, l’emittente televisiva in perenne perdita acquistata da Tanzi su indicazione di De Mita allo scopo di dimostrare lealtà verso la politica, con la speranza di ricevere un favore al momento giusto. Ma i soldi non bastano, serve altra liquidità. C’è chi dice che di fatto la Parmalat era già fallita in quegli anni. Invece Oden TV viene venduta – con un’operazione non certo trasparente – alla Sasea di Fiorini, una finanziaria che da Ginevra si occupa di comprare e rivendere altre compagnie sull’orlo del fallimento. Per aumentare il capitale le viene poi concesso un prestito da 120 miliardi da Centrofinanziaria, una banca d’affari di proprietà di Monte Paschi di Siena dove il re del latte ha uomini fidati in consiglio di amministrazione. Quindi acquisisce Fnc tramite la Coloniale, la holding di famiglia, gira le quote di Parmalat a Fnc stessa che diventa Parmalat Finanziaria, e con il ricavato sottoscrive l’aumento di capitale della stessa Parmalat Finanziaria. Infine rimborsa il prestito ponte usato per l’operazione. Un’operazione piuttosto complessa di cui la Consob, che dovrebbe controllare, non si accorge. L’operazione va in porto e grazie anche all’immagine della società che il suo patron ha saputo costruire negli anni, gli investitori comprano e i capitali arrivano.
Dopo la quotazione, la Parmalat cambia pelle e si trasforma in Parmalat Finanziaria, diventa un impero da sessanta società e si espande in cinque continenti. Le espansioni costano e servono altri soldi per due motivi: continuare a finanziare il potere e staccare alti dividendi ai soci a fine anno. Una mano lava l’altra ma i rubinetti del credito sembrano non bastare mai. Serve una svolta: iniziano le prime falsificazioni contabili e le nuove acquisizioni fanno salire l’attivo di bilancio coprendo i debiti della Parmalat. Contestualmente vengono emesse false fatture che servono a coprire il vero costo delle società acquisite, spesso indebitate. D’altronde quale miglior modo per mostrarsi in salute agli occhi dei mercati se non acquistando altre società?
Nel 1990 viene acquistato il Parma Calcio neopromossa in serie A, squadra destinata a diventare una delle più belle favole del nostro calcio. Nel 1992 vince la Coppa Italia, l’anno successivo la Coppa delle Coppe, nel 1994 vince trascinata da Gianfranco Zola la Supercoppa Uefa contro il Milan di Capello. L’anno dopo vince la prima Coppa Uefa della sua storia contro la Juventus di Vialli e Ravanelli. Infine nella stagione 98/99 la provinciale Parma, “città fertile e carnale” (Giuseppe Verdi), vince la seconda Coppa Uefa della sua storia con Malesani alla guida dei giallo blu. Era la stessa Parma romantica e operaia capace di lanciare fuoriclasse come Buffon, Bucci, Veron, Crespo, Thuram, Cannavaro e molti altri. Il Parma incarna l’immagine che la Parmalat vuole dare di sé: una squadra umile, provinciale, che si sporca le mani e sgomita per emergere. È l’Italia che lavora, silenziosa. Quella maglia e quel simbolo cucito al petto diventano immediatamente riconoscibili in tutto il mondo. E Parma continua a sognare.
Non si ferma nemmeno la Parmalat. Nasce la Parmatour, azienda del gruppo che vende pacchetti turistici. Nel biennio del 1996-1997 tramite Club Vacanze rileva 56 agenzie di viaggi facente capo a Ferrovie dello Stato. Il gruppo è notoriamente in perdita ma l’operazione viene comunque conclusa. Parmatour è un buco nero verso cui Parmalat dirotta un’enorme quantità di risorse. Tonna rivelerà ai magistrati che, se non fosse stato per Parmatour, la Parmalat non sarebbe fallita. E si toglierà qualche sassolino dalle scarpe affermando che “Tanzi ci metteva due minuti per acquistare un calciatore e due giorni di discussioni servivano per comprare una macchina industriale necessaria all’azienda”. Il ritmo delle acquisizioni continua incessante e vengono sborsati: 632 milioni di euro nel 1999, 718 nel 2000, 179 nel 2002.
Renato Carpentieri dirà che per rimanere “Nella serie A del capitalismo bisogna giocare a tre punte: un giornale, una squadra di calcio e una banca” (film Il Gioiellino, 2011). Ma una banca la Parmalat non l’ha mai avuta. Si passa agli anni Novanta, la piccola società di Collecchio è diventata un mostro che ha sempre bisogno di nuovi capitali per i vizi del suo presidente e del suo entourage. I soldi non bastano, quindi si inventano. I bilanci vengono truccati e Tonna grazie all’aiuto dell’avvocato Zini, consulente del gruppo scelto direttamente da Tanzi, creano una rete di società con sede in paradisi fiscali con lo scopo di far perdere l’origine del denaro. Inizia la vera truffa: riciclaggio, aggiotaggio, falso in comunicazioni (sociali e ai revisori) e ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza della Consob. Nasce la Bonlat, con sede alle isole Cayman, il cui scopo è quello di occultare le distrazioni di denaro ai danni della Parmalat. Il meccanismo funziona così: la Parmalat emette false fatture per far figurare crediti verso la Bonlat, e quest’ultima sorregge le perdite industriali del gruppo mediante acquisti fittizi di licenze e altro. Nessuno potrà mai controllare, perché alle Cayman non vi è l’obbligo di presentare un bilancio. Ma non basta, Tanzi userà la rete di società offshore per prelevare soldi a suo piacimento. Girerà i soldi dalla Parmalat alla Bonlat, passando per il Delaware, Lussemburgo e Malta. Arrivati a Parma è impossibile per banche o inquirenti riscostruire l’origine del denaro. E il buco di bilancio aumenta.
Alla Bonlat viene intestato un conto da 3,9 miliardi di euro presso Bank of America. Un conto liquido di soldi che non esistono. Non si può dire che gli amministratori siano privi di fantasia. Non è l’unica banca d’affari con cui Parmalat ha rapporti, ci sono più o meno tutti, da UBS a Merrill Lynch, da Deutsche Bank a JP Morgan. Con loro e molte altre banche la società del latte colloca l’emissione di obbligazioni che vengono vendute facilmente ai risparmiatori attraverso gli sportelli delle banche di tutta Italia. Banche dove il nome Tanzi ha ancora una certa influenza nonostante abbiano un credito verso la Parmalat. Così, in tredici anni la Parmalat si indebita per 8 miliardi di euro solo emettendo bond. Anziché concedere ulteriori prestiti, le banche capiscono che attraverso la vendita dei bond possono scaricare il rischio di credito sulla Parmalat stessa, che ora si impegna a rimborsare ai risparmiatori l’ammontare dei bond una volta giunti a scadenza. Allo stesso tempo si garantiscono dalle esposizioni dei precedenti prestiti verso Parmalat e guadagnano una percentuale dalla vendita dei bond.
La truffa va avanti perché sulla carta ci guadagnano tutti: la Parmalat che incassa liquidità, i risparmiatori che investono su un titolo sicuro, le banche che guadagnano dalle percentuali di vendita dei bond. Fino all’8 dicembre 2003, il giorno in cui la Parmalat annuncia di non avere sufficiente liquidità per onorare la restituzione di un bond da 150 milioni. Alla successiva apertura di borsa il titolo perde il 40%. Enrico Bondi, il dirigente che si è occupato del recupero della Montedison, viene nominato commissario straordinario e scopre che le casse sono vuote. Il 15 dicembre si dimettono tutti: Tanzi, Tonna, Siningardi e tutto il consiglio di amministrazione. Ma la vera stangata arriva il 19 dello stesso mese: in una lettera a Bankitalia, Bank of America comunica che il conto intestato a Bonlat per 3,9 miliardi di euro è un conto inventato dagli amministratori di Collecchio. Non esiste e non è mai esistito. Il logo era stato creato con uno scanner e una fotocopiatrice. Crolla il mondo addosso a Parma. I giornali, amici fino a ieri, iniziano a chiedere teste rotolanti. Tanzi viene accusato dalle stesse colonne della Gazzetta di Parma, allora diretto da Candido Marco Rosi, vicino allo stesso Tanzi. Parma gli volta le spalle, ma a Roma le cose non vanno meglio. Nella seconda Repubblica, l’imprenditore di Collecchio non ha più referenti a cui rivolgersi e si trova intrappolato in quella rete che aveva meticolosamente creato. Come spesso accade in Italia, tutti scendono dal carro vincente quando questo non vince più.
Mentre gli ufficiali della Guardia di Finanza fanno irruzione in azienda trovano la banda dei ragionieri intenta a sfasciare i computer con martelli per cancellare tutti i dati compromettenti. Gli ufficiali accerteranno che spesso le fatture venivano create con una semplice fotocopiatrice. Verranno indagate 180 persone di cui 110 andranno a processo, tra amministratori, sindaci, dirigenti, revisori e contabili. Alla procura di Milano verrà attribuita la competenza delle indagini per reati finanziari mentre a quella di Parma l’associazione a delinquere e la bancarotta fraudolenta. Sommando i vari processi, Tanzi verrà condannato a 17 anni di reclusione, il suo vice Tonna a 9. Tutti i reati commessi prima del 1989 e accertati cinque anni dopo il loro compimento sono coperti da prescrizione. I dipendenti della Parmalat passano da 36mila a 18mila, il titolo viene ritirato dalle contrattazioni di borsa. Parma non è più il centro del mondo.
Le banche che hanno venduto i bond Parmalat saranno tutte assolte. I risparmiatori truffati verranno risarciti per un totale che ammonta al 68% del capitale investito.
E Tanzi? Durante un’udienza in cui si discute la possibilità degli arresti domiciliari, l’ex presidente della Parmalat afferma di essere nullatenente, così i Pm di Parma mandano gli ufficiali della Guardia di Finanza a ispezionare le ville di amici e colleghi. Ne viene fuori una pinacoteca: Monet, Chagall, Renoir, De Nittis, Van Gogh, Boccioni e persino un Picasso. Solo una piccola parte del tesoro di Tanzi. Gli arresti domiciliari vengono negati.
Quest’ultimo gesto di Tanzi riassume in pieno la sua personalità: spudorato ma creativo. Una società plasmata a sua immagine che è riuscita a prendere per il naso risparmiatori, revisori, banche e autorità grazie ad un’illusione alimentata dal suo presidente. Si pensa a sistemi complessi, calcoli astrusi, consulenze milionarie, ma il caso Parmalat ci insegna che basta la fantasia di uomo, un computer, uno scanner e una fotocopiatrice per creare uno dei più grandi scandali finanziari della storia d’Europa.