
Da un manifesto politico su nuovi modi di amare e stare in relazione a un esperimento che prova a capire come ci si sente ad essere un hater sui social, passando per un romanzo fatto di frammenti di umanità nelle aule di un tribunale e la ricostruzione di una delle prime grandi spedizioni scientifiche europee del XVIII, ecco cosa abbiamo letto questo mese.
La vita normale, di Yasmina Reza (Adelphi)
“Per me il tribunale è un luogo di osservazione come un altro, come la strada o la mia camera da letto”, ha dichiarato Yasmina Reza quando le è stato chiesto perché, da oltre quindici anni, segua processi in tutta la Francia, siano essi oscuri o clamorosi. “Colui che crediamo altro da noi non lo è”, afferma, e in queste parole si condensa la postura del suo ultimo romanzo, La vita normale, con cui Reza propone una forma ibrida e affilata, in cui il racconto autobiografico, l’aforisma, la riflessione filosofica e la narrazione frammentaria si intrecciano in una tessitura brillante e spiazzante. Il libro si presenta come una raccolta di frammenti, senza una vera trama: brevi testi, appunti, riflessioni, episodi intimi che si susseguono con apparente casualità, ma che nel loro insieme delineano un ritratto coerente e bruciante. Il titolo, La vita normale, suona fin da subito ironico: nulla, nel mondo di Reza, è veramente “normale”. La sua scrittura è impietosa, acuminata, ma attraversata da un umorismo sottile, quasi cinico, che riesce a far emergere il tragico dal banale e viceversa. Le sue osservazioni – su se stessa, sulla famiglia, sulla società, sulla morte – riescono a rendere universale ciò che è profondamente personale.
C’è Olivier, ad esempio, con il suo volto gonfio, dai tratti squadrati: è accusato di aver tentato di avvelenare un’anziana con l’atropina. Tutti gli indizi lo incastrano, eppure lui nega. Ma non è la classica negazione difensiva: è come se rifiutasse la possibilità stessa di quella realtà. C’è Jean-Marc, tra gli altri, un tempo re della televisione francese più urlata, oggi caricatura stanca del proprio passato, e poi Cyril, che in sette minuti accoltella la suocera trenta volte, prima di scagliarsi sul cognato. Lontana da ogni pretesa di verità assolute, Reza si concentra su dettagli minimi ma rivelatori – un gesto, una frase pronunciata a mezza voce, la piega di un abito, un’espressione che tradisce l’imprevisto. È in questi “frammenti di umanità” che riesce a cogliere ciò che spesso sfugge alla giustizia: la nostra somiglianza con chi siede sul banco degli imputati o prende la parola come testimone o vittima. È questo che Reza chiama la vita normale: quella che si insinua, come un’ombra fedele, nella vita dei colpevoli e delle vittime, confondendosi con essa, sovrapponendosi in modo inestricabile.
Merdoni, di Chiara Galeazzi (Blackie Edizioni)
Su ogni social – dal più crudele, come X, al più giovane e tollerante come TikTok – c’è sempre qualcuno pronto a dire che sei grassa, falsa, esagerata, permalosa, ridicola. O tutte queste cose insieme. Il fatto che molti scelgano di sfogare le proprie frustrazioni su sconosciuti o persone che per qualche motivo sono diventate famose è un mistero. Lavoriamo troppo, nessuno ci aiuta con la famiglia, dobbiamo contare i centesimi: ma allora perché spendiamo così tanto tempo ad accanirci sugli altri con il telefono in mano? Chiara Galeazzi – autrice e giornalista, reduce dal successo del libro autobiografico Poverina – ha scritto Merdoni per esorcizzare un demone: quello del giudizio. Quello che incontriamo ogni volta che apriamo un social, leggiamo un commento sotto un post o una notizia. Il libro nasce da qui: dalla tentazione di diventare, almeno per un attimo, uno di loro. Un hater, un “merdone”. Per capire cosa si prova, come si ragiona, cosa si ottiene. E anche per riderne.
Merdoni, infatti, è un saggio che riesce nella missione impossibile di far riflettere senza prendersi sul serio. Un mix di memoir, satira sociale e disamina psicologica che parla del web, ma anche di tutti noi. Calandosi nel ruolo dell’hater, Galeazzi sperimenta in prima persona la gratificazione istantanea che dà il giudicare gli altri – e ci rimane quasi sotto. Tuttavia, lo fa con consapevolezza, e ci trascina con sé in questo esperimento tragicomico. Il risultato è un racconto esilarante ma anche doloroso, che mostra come la cultura del disprezzo si sia normalizzata, mimetizzata, socializzata. Il bersaglio della sua critica non sono solo gli hater, ma l’intero sistema che li alimenta. Le piattaforme che premiano l’indignazione facile, la polarizzazione nei talk show, l’odio elevato a engagement. Merdoni è un libro utile, attuale, scritto con la leggerezza delle battute ben assestate e la profondità di chi non si limita a osservare, ma vuole capire. Perché, alla fine, il punto non è diventare migliori degli hater ma vivere, come società e come singoli, con un po’ più di leggerezza.
Sovvertire le intimità, Nicole (Nic) Braida, Meltemi
Non c’è niente di naturale nel concetto di amore, monogamia, relazione di coppia o famiglia che ci viene trasmesso dalla società. Eppure, cresciamo con la convinzione che esista un modo “giusto” di amare: monogamo, eterosessuale, chiuso, orientato alla riproduzione. Solo adeguandoci a questo modello, una parte profonda di noi riesce a non provare un profondo senso di colpa. Ma quel senso di colpa, travestito da morale, è il risultato di anni di pressioni sociali che ci è difficile riconoscere e ancor più decostruire. Questo orizzonte affettivo, infatti, è una costruzione sociale talmente interiorizzata da sembrare spontanea. In realtà, è il frutto di secoli di controllo sui corpi, sulle identità e sulle relazioni, pensato per mantenere un certo ordine sociale. Non si tratta quindi di una libera scelta, ma dell’effetto di norme educative stratificate, che interiorizziamo fin dall’infanzia e che finiscono per guidare il nostro modo di stare al mondo, con l’illusione di “comportarci bene” – spesso infliggendo, a noi e agli altri, piccole e grandi violenze.
In Sovvertire le intimità, Nicole (nic) Braida – attivista transfemminista e sociologə – smonta queste impalcature con lucidità. Il libro non è un semplice invito a esplorare relazioni alternative, ma un manifesto politico. Il poliamore non è presentato come moda o tendenza, ma come pratica capace di rompere con le norme dominanti e offrire nuove possibilità relazionali, liberandoci dalla competizione, dal possesso e dall’idea di coppia come unico modello valido. Una pratica che allarga l’orizzonte del desiderio, riconoscendo all’amore la sua natura poliedrica, potente, complessa. Un esercizio di libertà che ci permette di uscire dai ruoli imposti dalla paura e dalle convenzioni, per mettere al centro la cura, il consenso, l’interdipendenza e l’affinità politica ed emotiva. Significa creare legami che non riproducano le dinamiche di potere del sistema, ma che sappiano immaginare altri modi di vivere, amarsi, desiderarsi e stare insieme.
In questo senso, il poliamore è alleato delle lotte trans-femministe, anticapitaliste, intersezionali, antispeciste e antiabiliste. Non perché chi lo pratica sia automaticamente politicizzatə, ma perché offre un modello relazionale in grado di trasformare concretamente la nostra vita affettiva e sociale. Il poliamore non è facile, e non è nemmeno la soluzione a tutti i nostri problemi, ma è un gesto intenzionale, che ci aiuta a liberarci dalla normatività etero-patriarcale e a rompere i meccanismi di competizione individualista. Un’apertura verso una dimensione affettiva fondata sul sostegno reciproco, la libertà e la vicinanza, e sul desiderio condiviso di vivere relazioni più libere, consapevoli e autentiche. Braida ci invita a riconsiderare la nostra idea di amore, iniziando a vederla come una forma di cooperazione sociale basata sulla cura, l’interdipendenza e l’affinità emotiva e valoriale. Non si tratta di “fare più sesso”, di “tradire”, “dare spazio a più persone” o di “non volersi impegnare”, come spesso si banalizza; si tratta di decostruire tutto quello che ci è stato insegnato sul desiderio e sull’amore, e ripensarlo da capo. Sovvertire le intimità è un invito a guardare questo paesaggio emotivo come uno spazio possibile di rivoluzione, non più come gabbia ma come una pratica di libertà e di autodeterminazione di ciascuno di noi.
Arabia Felix, Thorkild Hansen, Iperborea
Non capita spesso di incontrare libri come Arabia Felix di Thorkild Hansen, un’opera letteraria che scava nelle profondità dell’esperienza umana attraverso la ricostruzione di una delle prime grandi spedizioni scientifiche europee del XVIII secolo. Emmanuel Carrère lo ha definito un libro imprescindibile, e ha ragione: questo libro infatti ha la potenza narrativa di un’epopea e la delicatezza malinconica di un diario personale, trasportandoci a leggere con passione cose di cui molto difficilmente ci saremmo interessati. Il 4 gennaio del 1761 una nave salpa da Copenaghen verso Costantinopoli. A bordo, cinque uomini – scienziati, botanici, cartografi – partono per lo Yemen, la mitica Arabia Felix, appunto così chiamata fin dall’antichità per evocare un’idea di pienezza e abbondanza. Ma come si chiede uno dei protagonisti, Peter Forsskål: “Perché l’Arabia Felice è chiamata felice?”. È questa la domanda che attraversa tutto il libro e che si fa via via più esistenziale man mano che la spedizione si trasforma da impresa scientifica a odissea esistenziale.
Seguendo i protagonisti lungo un itinerario che passa per Costantinopoli, Alessandria, Il Cairo, il Sinai, il Mar Rosso e infine lo Yemen, Hansen ci offre molto più di una cronaca storica. Ci racconta il viaggio come metafora della ricerca di senso, della tensione tra desiderio e realtà, tra immaginazione e disincanto. I cinque scienziati partono infatti per scoprire ed esplorare, ma in realtà cercano risposte a domande che nessuna mappa può contenere. E di quella spedizione, uno solo farà ritorno: gli altri lasceranno lì la propria vita, i propri sogni, le proprie illusioni. Il tono di Hansen è sobrio, ma al tempo stesso affascinante, e la sua scrittura impeccabile riesce a evocare paesaggi, fatiche, emozioni con rara grazia stilistica. In Arabia Felix, la felicità si rivela per quello che è: un miraggio, una proiezione, ma anche qualcosa che, forse, esiste ovunque – se siamo disposti a guardarla con occhi nuovi. Come l’orizzonte: un cerchio perfetto che ci circonda, ovunque siamo. Questo libro è un piccolo capolavoro che oggi viene riscoperto, capace di parlare ancora oggi al cuore di chi viaggia, di chi parte, di chi cerca, di chi torna, di chi a volte non sa dove andare o in quale luogo fermarsi.
Mendicare, di Max De Paz (Nottetempo)
Ambientato a Parigi, nel cuore del 5ᵉ arrondissement, Mendicare, l’esordio del ventitreenne francese Max De Paz, racconta la vita di un giovane senzatetto che sopravvive grazie all’elemosina – la “manche”, come la chiamano in gergo francese, che dà il titolo all’opera in lingua originale. È lui stesso a raccontare in prima persona la sua quotidianità fatta di attese, di umiliazioni silenziose, di gesti ripetuti e di sguardi indifferenti che lo attraversano ogni giorno senza davvero vederlo. Nel grigiore della sua vita, però, arriva un incontro che spezza la monotonia della sopravvivenza: quello con Elise, una donna anch’essa senzatetto, che scrive poesie. È lei a introdurre nel suo mondo il valore della parola, della bellezza, della resistenza poetica. Elise diventa il simbolo di una possibilità, non tanto di riscatto sociale, quanto di risveglio interiore.
Max de Paz riesce a restituire con grande forza la condizione di chi vive ai margini. Il suo protagonista è un ragazzo che non chiede pietà ma attenzione. La sua voce è cruda, diretta, scevra di qualsiasi forma di autocommiserazione. La narrazione si muove su un filo sottile tra rabbia e rassegnazione, tra il bisogno disperato di essere visto e la consapevolezza di essere trasparente per la maggior parte del mondo che gli passa accanto. Le sue parole non sono filtrate, non cercano di piacere. Inevitabilmente, data la sua tematica, il romanzo richiama un recente successo italiano, Storia di mia vita di Janek Gorczyca, e allo stesso modo Mendicare non è una lettura facile. La sua intensità emotiva può risultare quasi opprimente, soprattutto per chi è sensibile alle storie di emarginazione e solitudine. Ma è proprio questa intensità a renderlo così necessario. È un libro che chiede attenzione, che vuole disturbare, che ci obbliga a porsi delle domande scomode. E lo fa senza prediche.
