Se siamo infelici è perché sprechiamo troppo tempo a cercare di essere migliori degli altri - THE VISION
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Nella raccolta di poesie Foglie d’erba, pubblicata nel 1855, il poeta statunitense Walt Whitman scrive: “Credo ch’io potrei vivere tra gli animali,/ che sono così placidi e pieni di decoro/ […] Non stanno svegli al buio per piangere sopra i/ loro peccati […] Nessuno è insoddisfatto, nessuno ha la manìa / infausta di possedere cose/ nessuno si inginocchia innanzi all’altro”. Attento osservatore della realtà e della natura, Whitman in questa poesia elenca una serie di virtù degli animali, capaci di godere dei benefici della vita terrena senza perdersi dietro a desideri autodistruttivi e ambizioni che facilmente conducono all’infelicità.

Non è un caso che questa stessa poesia venga posta in esergo a  La conquista della felicità, saggio che il filosofo britannico Bertrand Russell scrisse e pubblicò nel 1930. Il testo si sofferma sullo stato di infelicità in cui le persone si ritrovano a vivere e sopravvivere e sulle numerose concause che ci impediscono di accedere a un benessere stabile e duraturo. Russell prefigurò lo stato di perenne tedio e insoddisfazione che avrebbe fagocitato l’uomo nei decenni a venire e che oggi, a quasi un secolo di distanza, suona come una profezia che si è compiuta. Il filosofo sosteneva infatti che l’essere umano fosse predisposto a infliggersi sofferenza e a sviluppare un intenso malcontento, che non originerebbe mai da un’evidente matrice esterna. A questo si intersecherebbe poi la tendenza a perdersi dietro bisogni vacui, finendo per alimentare vizi, dipendenze e sentimenti dannosi, che portano al conflitto con i propri simili. “Nessun sistema ha probabilità di successo, fintanto che gli uomini sono così infelici da considerare lo sterminio reciproco meno orrendo della continua rassegnazione alla luce del giorno,” scrive Russell, e in effetti solo analizzando e trovando una soluzione a questo problema si sarebbe potuti riuscire a costruire una società solida e in grado di progredire in maniera positiva. Peccato però che da allora la situazione si sia invece esponenzialmente aggravata. Eppure non tutto è perduto e rileggere le sue parole può aiutarci a mettere a fuoco il senso della nostra esistenza.

Come fattori nocivi all’uomo il filosofo riporta in particolare la tendenza alla competizione e il sentimento di invidia che scaturiscono dal non sentirsi mai all’altezza. Un individuo teso allo “sfoggio delle proprie qualità” si ritroverà facilmente solo, senza affetti, ignaro dei sentimenti profondi dei propri cari. La predisposizione alla competitività, alla prestazione professionale eccellente e alla lotta per il tanto agognato successo sono, oggi ancor più che un secolo fa, fonte dell’abbrutimento di molte persone. “La radice di questo male risiede nell’eccessiva importanza attribuita al buon esito della competizione con i propri simili quale fonte principale di felicità”. L’uomo è portato a inseguire in maniera frenetica successo e guadagni, in quanto strumenti di riconoscimento sociale.

Russell lamentava già ai suoi tempi che la competizione, connessa al decadimento degli ideali civili, avesse invaso ogni settore della vita. In questo modo qualsiasi forma di svago – tra cui il filosofo annovera la lettura e la conversazione – finiva per essere percepita e vissuta come una gara con gli altri e quindi privata della gioia che poteva portare. Donne e uomini, spesso, non sembrano in grado di assaporare i piaceri della vita intellettuale senza lasciarsi fagocitare dalla competitività e ciò degenera fatalmente in comportamenti autodistruttivi che hanno come conseguenza stanchezza, assunzione di droghe ed esaurimento nervoso. Ridurre la vita stessa “a una questione di muscoli e volontà” è il primo passo per ritrovarsi di fronte a una società incapace di ammettere, accettare e desiderare una parte di svago in uno stile di vita equilibrato.

Il progresso e i benefici della rivoluzione digitale permettono oggi, a chiunque disponga dei pochi mezzi necessari, di trasformare qualunque hobby o passione in un business – o almeno di provare a farlo. Chiunque può apparentemente ritagliarsi il proprio spazio sul web e sui vari social, condividendo abilità, inclinazioni e persino frammenti della propria vita privata, ma tutto questo, se da un lato costituisce una risorsa per chi ha bisogno di una vetrina facilmente accessibile, dall’altro ci priva di una porzione di vita da dedicare alle nostre passioni senza lasciarci divorare dalla competitività, dall’ansia da prestazione e dal bisogno di piacere e acquisire sempre più seguaci. Tutto sul web può diventare strumento di competizione e la corsa ai follower – che in grandi quantità possono effettivamente costituire possibilità di guadagno – lo dimostra. Il bisogno di approvazione surclassa la capacità di assaporare il proprio tempo libero: è il trionfo della performance sul godimento.

Il vicino più prossimo della competitività è l’invidia. Russell la descrive come il sentimento umano più deprecabile, in quanto porta l’individuo a infliggere del male alla persona che l’ha suscitata e, al contempo, causa infelicità per chi ne è affetto. Piuttosto che godere di ciò che possiede, l’invidioso desidera infatti privare gli altri dei loro vantaggi, poiché la gioia e la soddisfazione altrui lo fanno sprofondare nel malcontento. L’invidia scaturisce in primo luogo dalla percezione delle disuguaglianze che, se non risponde a una chiara differenza di merito, viene percepita come un’ingiustizia. Se un tempo l’individuo invidiava soltanto i propri vicini (perché poco o nulla sapeva degli altri), oggi è portato a invidiare molte più persone, anche molto distanti dalla sua sfera esistenziale, perché è sempre più facile entrare in apparente contatto con la vita, alle abitudini e agli agi instagrammati e instagrammabili altrui, per forza di cose falsati. A proposito del legame tra insoddisfazione, invidia e odio per il prossimo, il filosofo scrive: “Il cuore umano, quale la civiltà moderna lo ha fatto, è più propenso all’odio che all’amicizia. Ed è propenso all’odio perché è insoddisfatto, perché nel profondo sente, forse anche inconsciamente, di aver perduto il senso della vita”.

Un altro vizio denunciato da Russell è la paura della disapprovazione altrui, che si mescola all’incapacità di vivere serenamente senza omologarsi all’ambiente circostante. “Gli strappi alle convenzioni accendono d’indignazione le persone convenzionali”: per questo motivo, talvolta, il bisogno umano di uniformarsi per avvertire un senso di appartenenza e riconoscimento entra in conflitto con l’esigenza di esistere esprimendo la propria individualità, anche laddove appaia stravagante. A questo proposito, il filosofo invita a curarsi dell’opinione pubblica quel tanto che basta “per non morire di fame e non andare in prigione”. Secondo il filosofo, una società fatta di individui che non si inchinano alle convenzioni è di gran lunga più interessante di una in cui tutti agiscono secondo comportamenti stereotipati. E oggi, nell’era della globalizzazione e delle comunicazioni iperveloci, è ancora più necessario abbandonare la paura di ciò che è diverso da noi, che ci porta a riporre fiducia solo in coloro in cui possiamo facilmente riconoscerci. Sforzarsi di capire l’altro e condividere le proprie esperienze è sempre qualcosa che ci arricchisce. 

La tendenza a percepirsi come macchine da prestazione piuttosto che come soggetti, con bisogni e aspirazioni da ascoltare e assecondare, è poi sempre più tangibile a causa del progresso e dei suoi ritmi incessanti. Di conseguenza, è facile sviluppare un senso di inadeguatezza profondo e una percezione errata delle proprie capacità. Le prestazioni, inumane e irrealistiche, che il mondo richiede, portano a misurarsi in modo dannoso con gli altri e con le proprie fragilità, con uno sforzo che si rivela autodistruttivo, perché sovradimensionato. Tutto ciò ci fa precipitare in una spirale di ansia e di fatica emotiva che, scrive Russell, impedisce anche il riposo, poiché “più stanco è un uomo, più impossibile diventa per lui fermarsi”. Talvolta, la prestazione lavorativa è uno degli strumenti utili per fuggire alle inquietudini e alla paura del fallimento. Sembriamo incapaci di guardare alle nostre angosce con razionalità ed equilibrio – di modo che queste diventino familiari – e andiamo alla ricerca di continue distrazioni, che ci distolgono dalla risoluzione dei problemi che ci turbano. In questo modo prolifera l’abitudine a stordirsi con svaghi allettanti ma superficiali, che finiscono per affaticarci tanto quanto le ore di lavoro indefesso. 

Questo meccanismo ci mostra come gli esseri umani cerchino da tempo l’eccitamento per sfuggire al vuoto e alla noia fruttuosa. L’individuo che prova a “perdersi” in piaceri estremi e passioni violente, che lo stordiscono e lo astraggono dalla propria percezione del sé, si stima incapace di godere di una felicità duratura. Su questo punto, il filosofo britannico non mostra dubbi: l’uomo moderno fatica a divertirsi senza l’ausilio dell’alcool o di sostanze che alterino la sua percezione; e oltretutto, anche laddove riuscisse a ottenere il successo agognato, egli avrebbe i nervi così devastati da non riuscire a godere dei traguardi conquistati.

Ma Russell parla anche del senso di colpa, spesso indotto in età infantile da figure genitoriali o educative eccessivamente repressive e moraliste. In un’etica razionale, dice il filosofo, dovrebbe essere considerato lodevole arrecare un piacere a sé, quando questo non lede l’incolumità e il benessere altrui. Ciononostante, siamo stati cresciuti per generazioni con la paura di peccare, cosa che ci ha portato a sviluppare comportamenti auto-castranti. Il senso di colpa induce a perdere il rispetto di sé e a stimarsi inferiori agli altri, per questo è bene sollecitare la parte cosciente a vigilare su quella incosciente che, spesso a causa di un’educazione sbagliata, ha imparato a infliggersi inutili sofferenze e repressioni. 

Ancora, nel saggio vengono messi a fuoco i danni che reca a ogni individuo la disposizione a ripiegarsi su di sé e sui propri problemi. Un essere umano sano e propositivo è infatti proiettato verso l’esterno: pur muovendo da un giusto interesse egoistico, esso è però capace di allargare lo sguardo verso ciò che lo circonda, riuscendo a percepire la propria piccolezza e la moderata rilevanza delle disgrazie individuali, al cospetto della sofferenza che permea il mondo intero. Chi non riesce a empatizzare con il dolore altrui e chi non è capace di immedesimarsi rischia di ingigantire oltremodo il valore della propria sofferenza e, così facendo, incide negativamente non solo sulla propria vita, ma su quella di tutti gli altri, calpestandone dignità ed esigenze.

“La felicità fondamentale dipende più di qualunque cosa da ciò che si può chiamare un cordiale interesse per le persone e le cose”. A partire da un interesse genuino e da una sana apertura verso la realtà che ci circonda, possiamo provare a tirarci fuori dalla spirale di debolezze e comportamenti auto-sabotanti che ci minano. In conclusione, il filosofo aggiunge poi un argomento fondamentale alla sua tesi: poiché il male più difficile da sconfiggere è l’insoddisfazione, oggi diffusa in maniera endemica e pervasiva, sarebbe auspicabile che aumentasse il numero degli individui che godono di una felicità autentica. Sono questi, infatti, gli unici a non provare piacere nell’infliggere dolore agli altri e, di conseguenza, a non nuocere a sé stessi e al mondo.

Finché continueremo a cercare l’appagamento attraverso il riconoscimento sociale, e finché ci percepiremo come macchine invece che come esseri umani, resteremo vittime delle richieste iperboliche della società. Una vita impiegata in una competizione contro gli altri, al fine di “dimostrare di essere i migliori”, induce inevitabilmente a uno stato di tensione che ci  impedisce di provare autentica soddisfazione. Oggi in molti iniziano ad avvertire il bisogno di rallentare, per avere il tempo di ascoltarsi ma anche di spostare lo sguardo verso ciò che li circonda. Questo è l’unico modo per smettere di sabotarsi e, così, di ricominciare a godere dei proprio sani successi, quando arrivano.

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