La definizione più azzeccata di Bologna la diede forse Pier Paolo Pasolini nel 1975, dicendo che era “consumista e comunista” e individuando con un gioco di parole ficcante quella contraddizione inconciliabile che da bolognese per prima riconosco. Non ci sono vie di mezzo a Bologna, o, per lo meno, non c’erano quando ero adolescente e faticavo a tollerarla: soltanto col senno di poi ho compreso l’importanza di essere stata teenager lì, negli anni Novanta, e di aver costruito la mia identità grazie alla sottocultura – letteraria, musicale, artistica – che il capoluogo emiliano “sazio e disperato” trasudava da ogni centimetro dei suoi portici.
La prima volta che sentii menzionare l’Isola nel Kantiere fu per via di un libro di Silvia Ballestra, La guerra degli Antò, che lessi nel 1996, anno di uscita del primo album in studio di Neffa, Neffa & i messaggeri della dopa. Tratto comune di entrambi, il centro sociale occupato in piazzetta San Giuseppe, quell’Isola senza cui probabilmente non avrei mai conosciuto il personaggio di Antò Lu Purk, ascoltato il singolo Aspettando il sole, ma anche abitato gli spazi autogestiti che all’epoca frequentavo senza pormi troppe domande, il Livello 57 di via Muggia e il Link di via Fioravanti, ora “risorto” in via Fantoni. All’epoca però non riuscivo a padroneggiare una visione d’insieme e a trovare la connessione – tra gli accadimenti sociali, politici e l’underground bolognese – che mi restituiva i romanzi, le musicassette e i luoghi della città: forse perché prima di diventare un indirizzo fisico, l’Isola è stata un’idea, un’utopia rincorsa tenacemente e concretizzatasi in maniera del tutto fortuita.
Per capirlo bisogna tornare all’inizio degli anni Ottanta: all’epoca la scena punk-hardcore bolognese era una delle più attive d’Italia, i movimenti del ’77 proseguivano – con numeri e partecipazione diversi rispetto al passato – e scorreva parecchia eroina. Il DAMS, dove insegnavano Umberto Eco, Renato Barilli e Adelio Ferrero, avrebbe disegnato “alcuni elementi originari del palinsesto narrativo che [sarebbe stato] declinato, con tutte le varianti possibili, negli anni Novanta”, come racconta Elisabetta Mondello. Pier Vittorio Tondelli decideva di dar voce a una nuova generazione di autori under 25 attraverso tre antologie – Giovani Blues, Belli & Perversi, Papergang – nate da uno sviluppo del pezzo sui giovani richiestogli dalla redazione di Linus, “Gli scarti”. Intanto, sul finire del decennio, la banda della Uno bianca terrorizzava la città e l’intera Emilia Romagna, commettendo 103 crimini tra il 1987 e il 1994 (tra cui la strage del Pilastro del 1991) e provocando la morte di 24 persone e il ferimento di altre 102.
Bologna era in fermento, e andava consolidandosi come crocevia delle nuove generazioni decise a dare forma e struttura a nuovi modelli aggregativi. “Vedevamo le occupazioni come strategia per appropriarsi di posti non semplicemente atti a risolvere un’emergenza abitativa, ma anche per sperimentare modelli e forme artistiche”, spiega Dee Mo, visual artist ed ex rapper, in un’intervista rilasciata nel 2015. L’obiettivo di Dee Mo e della congrega eterogenea di ragazzi dalla prevalente suggestione punk fu quindi ricercare uno spazio tutto per sé, in cui poter presentare proposte culturali alternative.
Trovare un luogo dove conciliare iniziativa politica e musica, però, non era semplice. Le trattative col Comune di Bologna durarono quattro anni senza portare a una conclusione soddisfacente, finché nell’agosto del 1988, per puro caso, un gruppo di attivisti per i diritti della casa ed esponenti della scena punk si infiltrò in un vecchio stabile in piazzetta San Giuseppe, dietro la via principale di Bologna, via Indipendenza. La piazzetta San Giuseppe si affaccia sul retro del teatro Arena del Sole, che una ristrutturazione arrivata a un punto morto aveva tramutato in un cantiere frequentato da tossicodipendenti. “I ragazzi cominciano a esplorarlo”, continua Dee Mo, “capiscono che c’è altro spazio abitabile dietro un muro, fanno un buco, entrano”, e si trovano davanti un enorme ex magazzino di ceramiche abbandonato nel cuore del centro cittadino, una vera e propria Isola felice nel Kantiere disabitato.
Nello stesso anno, il Comune organizzò la Biennale dei Giovani Artisti d’Europa e del Mediterraneo, ampiamente contestata dagli Isolani reduci da anni di richieste e trattative infruttuose per trovare un posto da autogestire. L’amministrazione bolognese ospitando una manifestazione di nove giorni dedicata ai giovani – sperava infatti di poter riabilitare la propria reputazione, senonché “il giorno dell’inaugurazione ufficiale dell’Isola dovevano suonare gli Impact, un gruppo hardcore di Ferrara: i carabinieri si piazzarono davanti all’entrata e tutta la gente che era arrivata si riversò sull’adiacente via Indipendenza, dando vita a una manifestazione spontanea e invadendo il ‘salotto buono’ della città. Da lì fino allo sgombero nessuno provò più a spostarci”, ricorda Dee Mo. L’Isola ebbe così una specie di consacrazione, e all’interno dei suoi due i piani si iniziarono a organizzare concerti, rassegne cinematografiche e laboratori fotografici.
Nel 1989 si tennero più di 80 live, e il 29 giugno si esibirono im New Velvet Underground, gruppo punk bolognese con un giovane batterista che si faceva chiamare Jeff, ma che presto verrà conosciuto come Neffa. I sabato sera ospitavano l’appuntamento Ghettoblaster, una serata interamente dedicata all’allora sconosciuto rap, che per la prima volta lo porta quindi non solo all’interno dell’Isola, ma pure in città. Le serate Ghettoblaster nacquero dal desiderio di creare qualcosa di unico nel suo genere: per Dee Mo “l’hardcore punk di prima generazione aveva esaurito la sua carica dirompente e la sua spinta propulsiva; mi avvicinai al rap con i dischi dei Beastie Boys e dei Run DMC, e sentii il bisogno di portarlo tra la mia gente”, così gli Isolani cercarono una forma espressiva diversa, eliminando chitarre, bassi, batterie e rimpiazzandoli con un giradischi. L’Isola diventò una delle culle del rap in italiano: è qui che si formarono artisti come Papa Ricky, Sud Sound System (War, Treble, Gopher D., GgD), Soul Boy, Deda, Dee Mo, Neffa, e dove vide la luce una delle prime Posse del nostro Paese, risultato del felice connubio tra la musica e il contenuto politico dei centri sociali.
Da una selezione di musicisti e dj dell’Isola (Treble, Deda, Gopher D e Dee Mo), nel 1990 debuttò la crew Isola Posse All Star: la loro hit autoprodotta, Stop al panico!, fornisce un’accurata fotografia del clima repressivo instauratosi a Bologna in seguito alla strage dei tre carabinieri del Pilastro, che vedeva la città impegnata in una pericolosa e infruttuosa caccia alle streghe. Stop al panico! nasce come parola d’ordine contro gli sgomberi e il terrore che serpeggiava nelle vie del centro: sarà proprio il panico generale a portare gli inquirenti a seguire piste sbagliate e a incriminare soggetti estranei alla vicenda, che rimarrà impunita fino al 1994.
Nel settembre del 1991 l’Isola fu sgomberata per mano delle autorità, nonostante un imponente corteo di protesta in via Indipendenza, che per la prima volta riuscì a portare il mondo di piazzetta San Giuseppe all’esterno. Gli Isolani, orfani del loro quartier generale, si divisero: una parte raccolse l’offerta del Comune di prendere in dotazione uno spazio, istituzionalizzandosi attraverso un’associazione culturale e aprendo il Link; un’altra occupò un’ex-mensa universitaria in piazza Verdi, dando vita all’esperienza del Pellerossa. Dopo lo sgombero nel 1993, gli stessi si spostarono in un edificio dell’ACOSTUD in via dello Scalo creando il primo Livello 57, trasferitosi poi in via Muggia.
I membri dell’Isola Posse All Stars ripresero a suonare in tutta Italia, e alla formazione originale si aggiunsero Neffa, Papa Ricky e DJ Gruff; nel 1992 uscì Passaparola – il loro secondo e ultimo 12″, e sempre nel 1992 parteciparono ad Avanzi, il programma condotto da Serena Dandini. Poco prima di sciogliersi definitivamente, cambiarono nome in Sangue Misto: il gruppo, formato da Deda, Neffa e DJ Gruff, pubblicherà un solo album in studio nel 1994, SxM, presente al venticinquesimo posto nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre secondo Rolling Stones e considerato una pietra miliare dell’hip hop nostrano.
Il resto è storia (più o meno) recente: il successo solista di Neffa e dei Sud Sound System; l’ingresso del mainstream nel rap contemporaneo; la chiusura programmatica dei centri sociali per realizzare centri commerciali o nuove residenze di cui non c’è alcun bisogno.
A Bologna nel 2015 è toccato allo storico spazio occupato dal collettivo Lgbtq+ Atlantide, coabitato pacificamente da collettivi gay, femministi, e punto di riferimento per la comunità punk italiana e internazionale. Lo scorso agosto è stato invece il turno dell’Xm24, centro sociale nel quartiere Bolognina, un ecosistema che al suo interno includeva una radio, una ciclofficina, un laboratorio di stampa serigrafica, una palestra di yoga e una di pugilato, una cucina popolare, un orto, una sala prove, una camera oscura, una libreria-biblioteca, un mercato contadino, una scuola di italiano per i migranti. Iniziative agli occhi di alcuni incomprensibilmente pericolose e dannose per l’immagine “decorosa” della città, che per molti residenti della Bolognina costituivano un elemento fondamentale del tessuto sociale di quartiere.
L’Isola nel Kantiere “ha rappresentato un’esplosione di creatività, è stata un’esperienza potente e dirompente, un fermento continuo, inarrestabile”, come sostiene Emidio Clementi, ma nonostante una moltitudine di artisti e di pubblico ne riconosca l’influenza sulla propria attività, la sua lezione sembra caduta nel vuoto. Oggi, spazi che svolgono una funzione di prevenzione del degrado e di servizio sociale, nonché di integrazione tramite attività autogestite che rispondono al bisogno di aggregazione e lotta all’emarginazione vengono demonizzati e combattuti anche da sindaci apparentemente di sinistra, col risultato di abbandonare larghi strati di popolazione – soprattutto giovani e stranieri – nei quartieri più periferici. Ecco che torna così la grande contraddizione bolognese: da un lato l’universo sazio degli affari e dei progetti immobiliari che arricchisce i soliti noti, dall’altro l’universo disperato di chi arranca e vede lo stato sociale evaporare, dove non è nemmeno consentito organizzarsi per resistere alla solitudine, alla gentrificazione e produrre la controcultura che da sempre è stata la linfa del capoluogo emiliano.
“L’Isola, pur non essendo ortodossa nella pratica politica, era stata in grado di fare molto per la città. Aveva radunato attorno a sé un’idea, che nel complesso si era concretizzata. La frase ricorrente che si sente è ‘Non so bene perché, non so spiegarmi come, ma l’Isola è stata in grado di fare questo’”, conclude Dee Mo. Sono trascorsi quasi trent’anni, eppure il lascito dell’Isola è ancora palpabile e presente come non mai: basta ascoltare Lo straniero, terza traccia dell’album SxM dei Sangue Misto, che sembra essere stata scritta l’altro ieri. Il rovescio della medaglia è che se tali opere sono ancora attuali significa anche che in questi quasi trent’anni, a Bologna come in Italia, non sembra essere cambiato proprio nulla.
Foto in copertina di Luciano Nadalini ©