No, i resti umani nascosti sotto il pavimento della casa del custode della Nunziatura Apostolica non appartengono a Emanuela Orlandi. Il collegamento, suggerito subito dopo la scoperta delle ossa, non è fondato. D’altronde, non è certo la prima volta che vengono diffuse sulla pelle di questa ragazza notizie prive di un riscontro effettivo, tendenziose o del tutto false. Nel corso dei decenni, Emanuela è stata prima la merce di scambio in una trattativa per liberare Ali Ağca, l’attentatore di Giovanni Paolo II, poi per costringere le Finanze Vaticane a risarcire la malavita organizzata, poi sacrificata in un’orgia di preti pedofili, tenuta nascosta in un convento in Lussumburgo, o seppellita nella tomba di un boss della banda della Magliana.
La storia di Emanuela, quella di Mirella Gregori, di Caterina Skerl o di Alessia Rosati, ma anche di Pamela Mastropietro, di Desirée Mariottini e di tante altre ragazze assassinate, violentate e fatte scomparire nel nulla, per tutti noi comincia solo quando apprendiamo della loro tragica fine, perché è in quel preciso momento che diventano oggetto di scambio, di ricatto, di curiosità morbosa o di bassa politica. Quando invece meriterebbero silenzio, verità e giustizia.
Emanuela Orlandi scompare 35 anni fa: mercoledì 22 giugno 1983, intorno alle sette di sera, alla piena luce di un giorno d’estate, dopo una lezione di flauto. La quindicenne viene portata via con l’inganno mentre si trova davanti a palazzo Madama, in corso Rinascimento, nel centro storico di Roma. La reazione della città alla notizia è di assoluta indifferenza, malcelata dall’ipocrita convinzione che Emanuela dev’essersene andata con le sue gambe, come sono soliti fare gli adolescenti ribelli. E dire che non sono passati neanche due mesi dalla scomparsa, in circostanze molto simili, di una sua coetanea, Mirella Gregori. Anche nel suo caso, è piuttosto chiaro che non può essere scappata di casa, che qualcuno l’ha portata via contro la sua volontà. Eppure in molti preferiscono credere il contrario.
Oggi il sequestro di due ragazze in pieno giorno nella capitale creerebbe uno scandalo. Programmi televisivi specializzati come Chi l’ha Visto? lancerebbero subito l’allarme, le forze dell’ordine si mobiliterebbero, i volontari si offrirebbero per la ricerca e si moltiplicherebbero gli appelli. All’epoca, invece, non accade nulla di tutto ciò. Non c’è sufficiente sensibilità tra l’opinione pubblica, le forze dell’ordine mancano di mezzi e professionalità adeguate: non esistono protocolli avanzati; non esistono telecamere di sorveglianza o tabulati di telefonia mobile da consultare, per non parlare di campioni di Dna da comparare. Per i media poi, la dubbia scomparsa di un paio di adolescenti che forse sono scappate in compagnia di qualche “capellone” non è neanche una notizia. D’altronde non fanno molto rumore neppure i cadaveri delle donne rapite e assassinate, meno ancora se sono “soltanto” delle prostitute o delle tossicodipendenti, dato che in quel caso è facile convenire che se la siano cercata. Tra la scomparsa di Mirella e il brutale assassinio di Simonetta Cesaroni, nell’agosto del 1990, a Roma si contano almeno altri nove casi simili, affrontati con indagini approssimative, che non portarono ad alcun risultato, se non quello di arrestare dei capri espiatori.
Però, almeno nel caso di Emanuela, ci sono elementi solidi da cui partire. Al suo rapimento assistono, senza poter comprendere quello che sta accadendo, due uomini in divisa. Uno di loro, un vigile urbano in servizio davanti al Senato, quel pomeriggio vede Emanuela non una, ma addirittura due volte. La prima intorno alle tre del pomeriggio, quando la ragazza si ferma a parlare con un uomo che, per mostrarle un campionario di cosmetici, ha parcheggiato la sua Bmw in divieto di sosta. Il vigile chiede all’uomo di spostare l’auto, cosa che questi fa dicendo alla ragazza che si sarebbero rivisti più tardi. All’episodio assiste, dal portone di Palazzo Madama, anche un agente di polizia, che oltre a notare il campionario di cosmetici identifica il modello esatto del veicolo. Intorno alle sette, il vigile rivede brevemente Emanuela, che nel frattempo ha finito la lezione di musica nella vicina scuola Tommaso Ludovico da Victoria, sempre davanti al Senato: ancora una volta è in compagnia dell’uomo della Bmw. È probabile che sia lui il sequestratore. Prima di entrare a lezione, Emanuela aveva chiamato a casa per riferire con entusiasmo alla sorella maggiore, Federica, che le avevano offerto di vendere cosmetici a una sfilata di moda in cambio di un compenso molto alto. Si tratta di un’esca, a cui la ragazzina abbocca con facilità.
C’è insomma tutto quello che serve per individuare in breve tempo il responsabile: l’identikit dell’uomo fornito da due testimoni affidabili (sui trentacinque anni, corporatura snella, il viso allungato, leggermente stempiato); il modello della sua auto (di grossa cilindrata poco diffusa in Italia); e il suo modus operandi. I carabinieri però prendono un’altra pista, quella di due tizi che qualche giorno prima della scomparsa avevano urtato Emanuela mentre passeggiava con gli amici, lasciandosi scappare una battuta che uno di loro aveva inteso come: “È lei!”. Dovrebbero essere emissari di una banda composta anche di stranieri che rapisce le minorenni e le manda a prostituirsi. Grazie agli amici di Emanuela viene diffuso un identikit dei due, che però non porta da nessuna parte.
Certo, il suo è un sequestro anomalo. Non assomiglia agli altri casi che si verificano, a centinaia, in quegli anni (tra il 1972 e il 1989 in Italia si contano circa 600 sequestri di persona a scopo di estorsione). Prima di tutto la tipica vittima di sequestro fa parte di una famiglia ricca, che può versare un riscatto, e questo non è il caso di Emanuela, il cui padre fa il messo in Vaticano. Anomala è anche la modalità del suo rapimento: dei professionisti dell’Anonima sequestri non l’avrebbero portata via davanti al Senato, in pieno giorno, rischiando di essere inquadrati da una delle rarissime telecamere a circuito chiuso allora in funzione, quella appunto di Palazzo Madama. Semmai l’avrebbero presa all’uscita di scuola, il Convitto Vittorio Emanuele II, che si trova in una piazza tranquilla e poco frequentata del quartiere residenziale di Prati, molto vicino al luogo dove, nel 1924, è stato rapito Giacomo Matteotti.
Agli Orlandi le autorità consigliano di attendere. “È una ragazzata, tornerà da sola,” dicono. Il 24 giugno però, a due giorni dalla scomparsa, i genitori di Emanuale riescono a far pubblicare un trafiletto su Il Tempo e Il Messaggero in cui denunciano la scomparsa della figlia e scrivono il numero del telefono di casa, nella speranza che qualcuno li contatti per fornire informazioni. A rispondere è lo zio di Emanuela, Mario. Di lì a qualche giorno gli Orlandi tappezzeranno Roma con 3mila volantini con il volto di Emanuela e una sua descrizione sommaria. Il telefono, purtroppo, squillerà solo per sciacalli, mitomani e millantatori.
Perché il caso Orlandi come lo conosciamo oggi deflagri con tutta la sua potenza bisogna attendere domenica 3 luglio. Al termine dell’Angelus, Giovanni Paolo II, davanti a 40mila persone raccolte in piazza San Pietro, esprime “la viva partecipazione” con cui è vicino alla famiglia Orlandi, “la quale è nell’afflizione per la figlia Emanuela, di 15 anni, che da mercoledì 22 giugno non ha fatto ritorno a casa”. È l’appello del Pontefice a trasformare in un caso di rilievo mediatico quella che fino a quel momento era stata un’anonima vicenda romana. È dai tempi di Paolo VI, che aveva scongiurato le Brigate Rosse di liberare Aldo Moro, che non si sente un Papa rivolgere un appello tanto accorato a dei sequestratori. A questo punto tutti si domandano chi sia mai questa quindicenne che sta tanto a cuore al Papa, e la faccenda diventa realmente importante, non solo per l’opinione pubblica.
La sedicente organizzazione che dichiara di avere in custodia Emanuela si manifesta con una telefonata a casa Orlandi il 5 luglio, due giorni dopo l’appello del Papa, e sembra fare di tutto affinché la trattativa avvenga in pubblico. A chiamare è un anonimo telefonista che passerà alle cronache come “l’Americano” – un po’ perché il ricordo del film di Wim Wenders, L’amico americano, del 1977, è ancora fresco, e un po’ perché simula uno sgangherato accento anglosassone. L’uomo fa ascoltare allo zio un nastro con spezzoni di una voce registrata che potrebbe essere quella di Emanuela. Come emerge dai frequenti contatti successivi tra l’Americano, la famiglia Orlandi e le redazioni di quotidiani e agenzie giornalistiche, l’obiettivo del sedicente sequestratore è la liberazione di Ali Ağca, il turco che due anni prima era quasi riuscito a uccidere il Papa in piazza San Pietro. Tutto quello che sembra interessare all’Americano è tenere banco e dare alla “trattativa” la maggiore eco possibile. Imitando le Brigate Rosse durante il sequestro Moro, si diverte a giocare alla caccia al tesoro con i giornalisti, che corrono a cercare le sue missive lasciate in un cestino della spazzatura, o sotto il colonnato di San Pietro. A più riprese fa trovare la tessera di iscrizione di Emanuela alla scuola di musica, fotocopie di appunti scolastici, spartiti per flauto, lettere firmate dalla ragazza, ma con una grafia che i familiari non riconoscono. Non c’è nessuna prova che Emanuela sia nelle mani dell’Americano, né che lo sia mai stata.
Considerando l’entità dell’operazione di propaganda messa in campo, è lecito supporre che l’Americano sia entrato nella scuola di musica di Emanuela per appropriarsi di qualche prova, come una ricevuta di pagamento e un paio di spartiti. Quanto alla voce fatta ascoltare allo zio, non c’è nessuna evidenza che sia stata registrata dopo il sequestro: Emanuela e i suoi compagni infatti avevano realizzato delle audio interviste in cui raccontavano i propri sogni e progetti. Forse è per questo che la voce è stata tagliuzzata: per eliminare il rumore di fondo, gli allievi che provano i loro strumenti o parlano. Ma che razza di trattativa è mai quella di un sequestratore che non può nemmeno provare di avere un ostaggio e che sia vivo? Giovanni Palombini, il re del caffè morto durante il suo sequestro, era stato messo in un congelatore dai suoi rapitori proprio per poter essere riconoscibile in foto. Insomma, dovrebbe essere chiaro che l’Americano sta bluffando.
Un dato che può rendere più chiara la vicenda è quello che vede, sei mesi prima, nel novembre del 1982, Ali Ağca ammettere davanti a un magistrato di avere dei complici bulgari, uno dei quali responsabile della sede romana della compagnia aerea Balkan Air, Serghei Antonov. Ben presto l’Americano estende la richiesta di liberazione anche ai soci bulgari dell’attentatore, spiegando che il turco, una volta liberato, avrebbe trovato rifugio nel Brandeburgo, all’epoca nella Germania dell’Est. In questo momento non ci interessa se a ordire l’attentato al Papa siano stati realmente i Bulgari – vassalli dei Russi – o che Ali Ağca in seguito si sia rimangiato tutto, il punto è che la pista è un ottimo combustile per la propaganda atlantica e quindi va spinta. Per farlo, come si sarebbe scoperto in seguito, è necessario ottenere la complicità dell’attentatore, e fornirgli informazioni per fingere di essere entrato in contatto con i bulgari. Quello che il mondo intero deve credere è che i Sovietici siano talmente malvagi da aver tentato di uccidere il Papa, e che pur di liberare l’attentatore siano ora disposti a sacrificare una giovane innocente.
Il 4 agosto si fa vivo con un comunicato il Fronte Anticristiano Turkesh. L’unico scopo di questa sedicente organizzazione è scagionare il blocco dell’Est e rinforzare la tesi che dietro l’attentato ci siano i turchi. L’operazione sarebbe stata gestita da Gunther Bohnsack, un dirigente della Stasi. Peraltro è una loro idea associare a Emanuela il nome di Mirella Gregori, l’altra ragazza scomparsa. Come ha dimostrato il giornalista Mauro Valentini, autore del libro Mirella Gregori. Cronaca di una scomparsa, i sedicenti rapitori, per confezionare i loro falsi spesso non facevano che attingere a notizie di giornale. Se questa vicenda non fosse accaduta durante gli anni della Guerra Fredda, con i blocchi ferocemente contrapposti, nessuno avrebbe associato la scomparsa di Emanuela Orlandi ad Ali Ağca. Anche ammesso che l’opinione pubblica si fosse bevuta la storia della trattativa, troppa era la sproporzione tra l’uomo di cui si chiedeva la liberazione, un terrorista che era andato molto vicino ad assassinare il Pontefice, e una semplice quindicenne, figlia di un messo, la cui unica relazione con la Chiesa era la nazionalità vaticana.
Questa sproporzione vale anche nell’ipotesi che Emanuela fosse stata rapita per ricattare in qualche modo il Vaticano, l’ultima teoria che, almeno fino all’esclusione del collegamento tra Emanuela e le ossa ritrovate alla Nunziatura, ha goduto di qualche credibilità. Secondo questa ipotesi, il sequestro sarebbe stato organizzato dal boss Renatino De Pedis. Questa pista ha preso piede nel 2005, quando l’ennesimo telefonista anonimo ha contattato Chi l’ha visto? spiegando che per trovare una soluzione al caso bisognava andare “a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare” . Che nella cripta di Sant’Apollinare, in compagnia di cardinali, camerlenghi e maestri di cappella, sia seppellito Renatino De Pedis, non era certo un segreto. Lo aveva già scoperto la Dia nel 1997, a sette anni dall’omicidio del boss, durante un’indagine sulla banda della Magliana. Ma anche questa volta le affermazioni del telefonista si rivelano un falso, e all’interno della tomba c’è soltanto la salma di De Pedis.
Nel 2008 tocca a Sabrina Minardi, ex amante di De Pedis ed ex maîtresse, raccontare ai giudici la sua verità sul caso Orlandi. Quando decide di parlare ai giudici è in un periodo delicato: ha accumulato diverse condanne in giudicato, che in effetti nel 2010 la porteranno di nuovo in carcere, ma con le sue rivelazioni potrebbe guadagnare molti soldi. Come ha dimostrato il giornalista Pino Nicotri, che segue il caso da sempre, sarà molto difficile distinguere quello che in effetti ricorda da quello che in qualche modo viene aiutata a ricordare – o che addirittura le viene esplicitamente suggerito.
Secondo il racconto di Minardi, la ragazza, rapita per ordine del presidente dello Ior, Paul Marcinkus, era stata consegnata da lei stessa a un sacerdote e tenuta prigioniera in una segreta con la complicità della moglie di un altro boss. Minardi avrebbe poi visto anche il sacco che conteneva il cadavere di Emanuela prima che fosse gettato in una betoniera a Torvajanica. Minardi, però, non può nemmeno provare che la ragazza che ha condotto dal prelato fosse proprio Emanuela. Quando chiede a De Pedis se si trattasse proprio di quella ragazza di cui sembrano parlare tutti, il boss le consiglia di dimenticarsene. Se è vero, questo significa solo che De Pedis voleva che tenesse la bocca chiusa a prescindere dall’identità della ragazza. In ogni caso, dopo un lungo braccio di ferro con il giudice dell’inchiesta, il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone decide di avocare a sé il caso e poi di archiviarlo. Ragione per cui verrà accusato – in maniera piuttosto superficiale – dell’insabbiamento di una pista promettente: un’accusa difficile da sostenere, soprattutto nei confronti di un alto magistrato che ha voluto che si andasse fino in fondo nel delicatissimo caso Cucchi, senza guardare in faccia a nessuno.
Ma allora che ne è stato di Emanuela Orlandi? Ad oggi, l’uomo che ha adescato Emanuela non è mai stato identificato ufficialmente. Non è mai emersa alcuna prova che fosse un emissario di una banda criminale, né di una formazione terroristica, nazionale o internazionale. Resta però un’ipotesi – forse meno suggestiva, ma non per questo meno credibile – ovvero che a rapire Emanuela sia stato qualcuno che ha agito con finalità proprie. Se così fosse, la dietrologia che si è costruita intorno al caso Orlandi in tutti questi anni non solo avrebbe contribuito a rafforzare una narrazione mendace, ma avrebbe anche protetto, seppur indirettamente, il vero responsabile, che forse è ancora vivo, libero e impunito.