È molto facile giudicare gli altri. Questa propensione che abbiamo, nella falsa credenza di essere moralmente migliori di loro, dipende da un interrogativo che non sempre ci poniamo: come mi comporterei se fossi al posto della persone che sto giudicando? Crediamo che non ci troveremmo mai nei loro panni o che in quel caso non finiremmo per compiere quelle stesse scelte, perché siamo irriducibilmente diversi – e implicitamente migliori. Siamo in tanti a ragionare in questo modo, eppure sono molti gli indizi che dovrebbero farci venire il dubbio che stiamo sbagliando.
Il Novecento è stato il secolo in cui si sono verificate tra le peggiori piaghe della storia, dai totalitarismi alle persecuzioni razziali, in Paesi e continenti diversi. Oggi empatizziamo con le vittime di queste grandi tragedie storiche, e siamo – quasi tutti – unanimi nel condannare senza appello i carnefici. Ma che cosa ci dà la garanzia che non saremmo stati da quella parte anche noi?
Molti studi hanno cercato di capire che cosa abbia spinto dei bravi cittadini tedeschi ad aderire al nazismo, o addirittura ad avere una parte attiva nello sterminio degli ebrei. Questo, però, significa domandarsi come hanno fatto gli altri a diventare pessimi individui. Una cosa molto diversa dal chiedersi se anche noi, in quelle circostanze, non avremmo finito per imitarli.
A tentare di rispondere a questa domanda è lo scrittore e psicanalista Pierre Bayard nel suo Sarei stato carnefice o ribelle? Bayard sceglie come periodo proprio la seconda guerra mondiale, e cerca di capire come si sarebbe comportato se fosse nato lo stesso anno di suo padre, il 1922.
Nel 1940 la Francia capitolava sotto l’avanzata delle armate naziste, e scivolava nel suo momento storico più basso. Una parte del Paese, guidata dall’ex maresciallo Philip Pétain, eroe della Grande Guerra, decideva di collaborare con i tedeschi. Un altro eroe, il generale Charles De Gaulle, proponeva invece di resistere, e formava così un governo in esilio. Quello che Bayard vuole assolutamente capire è se avrebbe scelto a quel tempo di stare dalla parte di Pétain, oppure da quella di De Gaulle – come suo padre partigiano. È una domanda che anche noi italiani siamo spinti a farci. Saremmo stati dalla parte dei fascisti o da quella dei partigiani?
Bayard ammette che di motivi per stare dalla parte di Pétain, e quindi dal lato sbagliato, ce ne sarebbero stati molti. Pétain, in qualche modo, rappresentava l’unica autorità legale rimasta dopo la sconfitta, e il rispetto nei confronti dell’autorità è innato nella maggior parte di noi. Nell’appello ai connazionali fatto a Royan, nel giugno del 1940, l’anziano maresciallo aveva affermato poi di prendersi sulle spalle tutta la responsabilità della difficile scelta di collaborare con i tedeschi. Senso dell’autorità e scarico della coscienza individuale sono esattamente alcune delle ragioni che hanno portato persone comuni a diventare carnefici – come gli uomini del battaglione 101 studiati dallo storico Christopher Browning, impiegati per eliminare gli ebrei nella zona del fronte Orientale.
Un’altra ragione che potrebbe aver spinto a collaborare è l’antisemitismo diffuso e radicato dell’epoca. Oggi ci piace credere che l’odio per gli ebrei sia qualcosa di ormai estinto, almeno in Europa e nel restante mondo occidentale, ma a quei tempi erano molte le personalità della cultura di primo piano che non nascondevano e anzi ostentavano i propri pregiudizi razziali. Come Charles Maurras, esponente di spicco della estrema destra francese, convinto che gli ebrei fossero i principali responsabili della sconfitta della Francia (in buona compagnia di massoni e protestanti). Inoltre, l’enormità dell’Olocausto, in corso a partire dal 1941, non era ancora nota, perciò chi detestava gli ebrei poteva farlo in un certo senso “a cuor leggero”.
Bayard comunque è ottimista. Per via della sua indole, spiega, il suo avatar che viaggia a ritroso nel tempo rimane insensibile ai richiami del generale Pétain, e non coltiva simpatie per la Germania totalitaria. Per un po’ se ne starà in disparte, cercando di evitare noie e continuando a studiare e a prepararsi per la vita adulta, senza pensare neanche lontanamente a ribellarsi.
La sconfitta dei tedeschi a Stalingrado, e l’introduzione in Francia del Service du Travail Obligatoire nel 1943, che deportava in Germania i giovani studenti per trasformarli in lavoratori forzati, spingono però Bayard a decidere di imitare il padre e di darsi alla lotta.
L’esperimento sembra piuttosto rassicurante. I buoni rimangono buoni, e ai cattivi non resta che trincerarsi dietro gli ordini ricevuti, o pretendere di essere anche loro delle vittime della storia. Ma l’esperimento di Bayard funziona? Ci dice veramente come ci comporteremmo noi se potessimo davvero viaggiare nel tempo e fronteggiare grandi dilemmi morali? Qualcosa sembra non essere ben congegnato. Prima di partire per il nostro viaggio nel tempo, dovremmo infatti decidere che cosa è lecito portare con noi e cosa no, e di questo Bayard non sembra preoccuparsi.
La prova sembra avere più senso se decidiamo di tenere con noi solo quello che è strettamente necessario a definirci come persona. Non è un compito facile: ognuno di noi può ammettere di essere vigliacco, o sapere di avere coraggio, come fa Bayard; di essere narcisista e di indole avventurosa, oppure mite e incline a ripiegarsi in se stesso, anche quando gli altri hanno bisogno. Tutte qualità (o limiti) che avrebbero un ruolo nel fare di noi degli eroi, dei carnefici, oppure dei grigi attendisti. Ma siamo davvero sicuri che questi tratti della nostra personalità siano davvero innati? Bayard stesso, quando parla dei Giusti tra le nazioni, che hanno salvato gli ebrei esponendosi a gravi rischi personali, ammette che è probabile siano persone che hanno goduto di un’infanzia felice, cosa che li ha resi particolarmente empatici. Quindi nemmeno l’empatia, o la sua mancanza, così importanti per il nostro esperimento, sono doti innate e dato che dipendono dalla famiglia in cui il caso ci ha fatto nascere, o in generale dall’ambiente in cui siamo cresciuti, non possiamo sapere a priori se ne saremmo dotati in ogni caso. Considerazioni simili potrebbero essere fatte per tutte le altre virtù e mancanze di ognuno di noi.
Bayard, insomma, si concede un bagaglio troppo voluminoso. E porta con sé non solo tutti i difetti che, bisogna dargli atto, ammette di avere (lo scarso coraggio, l’indole a curarsi più dei propri affari che dei guai altrui, etc.), ma anche una serie di virtù: il retaggio di un intellettuale francese colto, nato in una famiglia antifascista, cresciuto in una società ricca mai toccata dalla guerra e che si è diplomato nella prestigiosa École Normale Supérieure, che sforna il ceto dirigente della Repubblica Francese.
Con questo “io pesante”, il Bayard che nasce lo stesso anno di suo padre, il 1922, non è che una replica, del tutto identica, del Bayard scrittore, e quindi non ci stupiamo che non fatichi a portarsi, anche se non istantaneamente, dalla parte giusta della Storia. Se tentiamo un esperimento davvero radicale, le cose sembrano molto diverse. Intanto dobbiamo ammettere che non sappiamo affatto quali virtù o caratteristiche emergerebbero dal nostro “io leggero” proiettato nel passato. Educati da una famiglia diversa, posti in una rete di relazioni diversa, influenzati da una cultura che non assomiglia alla nostra, stenteremmo probabilmente a riconoscerci.
Nell’insieme delle testimonianze italiane sulla Resistenza si trovano non pochi casi di persone che ammettono che davanti alla caduta del fascismo non seppero immediatamente da che parte collocarsi. «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte», dice uno dei protagonisti de Il sentiero dei nidi di ragno, di Italo Calvino, lui stesso ex partigiano. Questa incertezza segna il destino anche di fascisti spietati. È il caso dell’ex granatiere Pietro Koch, che nel 1943, a soli ventisette anni, partecipa a una delle prime riunioni clandestine della Resistenza. Se non entra nelle sue fila, è solo perché non gli possono garantire il denaro di cui ha bisogno per organizzare una efficace rete di resistenti. Il denaro glielo troverà la Repubblica Sociale, trasformandolo in un sadico torturatore di partigiani.
Dunque, se realmente immaginiamo di mettere in atto la prova di Bayard, non possiamo che essere incerti su ciò che saremmo stati. Siamo costretti ad ammettere che anche doti in sé positive, in un contesto diverso, avrebbero potuto fare di noi delle pessime persone. Questo forse aiuta a comprendere meglio gli ex khmer rossi, citati da Bayard, che si professano “vittime” del regime di Pol Pot, anche se su un piano diverso delle vittime vere e proprie. Cosa che di certo non li giustifica. Ma quando ci spiegano che si sono “trovati” in un contesto che li ha spinti a fare quello che poi hanno fatto, sentiamo forse di non essere più in grado di scommettere che al loro posto saremmo stati migliori di loro.