In una calda giornata di metà luglio del 1610, Michelangelo Merisi – noto ai più come Caravaggio – raggiungeva la località di Porto Ercole, nel promontorio maremmano dell’Argentario. La sua mèta, in realtà, all’inizio era Palo Laziale – l’odierna Ladispoli – da cui poi si sarebbe incamminato per rientrare nella Roma di papa Paolo V. Il pontefice avrebbe infatti revocato la sua condanna a morte, annunciata cinque anni prima per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni – compiuto dal pittore nel 1606, in seguito a un alterco nato durante una partita di pallacorda. Da quel momento iniziò un’interminabile fuga – Napoli, Malta, la Sicilia e di nuovo Napoli – e una vita all’insegna della clandestinità, che accompagnerà l’artista latitante fino al termine dei suoi giorni.
Arrivato a Ladispoli, Caravaggio viene arrestato erroneamente dalle autorità locali e, nel frattempo, la feluca su cui viaggiava risalpa per Porto Ercole, con a bordo i suoi bagagli e tre tele. Risolto l’equivoco, si precipita alla rincorsa del traghetto verso Porto Ercole, dove arriva non è chiaro come ma sicuramente stremato da una misteriosa malattia, che si acuì proprio in quei giorni. Il suo cammino tra i boschi della Maremma verrà infatti interrotto il 18 luglio, quando la febbre prende il sopravvento uccidendolo. Secondo un recente studio nato dalla collaborazione tra le Università di Bologna, Verona e Aix-Marseille, sarebbe stata l’infezione causata da stafilococco, batterio che contrasse probabilmente ferendosi durante una delle innumerevoli risse a cui prese parte nelle settimane precedenti.
All’età di trentanove anni, sembra che Caravaggio morì assistito alla bell’e meglio dagli infermieri della Confraternita di Santa Croce. Ma, al di là delle tante narrazioni legate alla sua morte i cui aspetti non sono ancora stati univocamente chiariti, a riecheggiare ancora oggi è la vita e l’opera di uno dei più grandi pittori di tutti i tempi. L’alone di ambiguità che contraddistinse l’esistenza di Caravaggio travalica infatti la dimensione spazio-temporale diventando un aspetto universale che si fonde ora con i suoi dipinti, ora con le sue vicende personali e infine con la sensibilità dell’osservatore del ventunesimo secolo.
Michelangelo Merisi, a dispetto dell’eponimo con cui lo si conosce, nacque a Milano e non a Caravaggio, paese che diede invece i natali a entrambi i genitori. Formatosi nella bottega milanese del pittore Simone Peterzano, maturerà la sua arte immergendosi nel contesto del manierismo lombardo-veneto e studiando artisti come Giorgione, Tiziano, Tintoretto e Lotto. Successivamente, il giovane Caravaggio si trasferirà a Roma, ospitato da Pandolfo Pucci da Recanati – ricordato come “Monsignor Insalata” per la dieta a base di lattuga che gli venne imposta durante l’intero soggiorno – e poi da diversi artisti appartenenti al movimento manierista. Qui dipinse le prime nature morte e i celebri soggetti dei Bacco, nei quali inserì per la prima volta il suo volto come autoritratto, abitudine che diventerà emblematica e che ne contraddistinguerà l’opera per tutta la vita.
In breve tempo, la sua arte innovativa fondata sull’utilizzo della luce e del chiaroscuro per definire la realistica drammaticità dei soggetti rappresentati, verrà riconosciuta e apprezzata dandogli fama in tutta la Capitale. Molte saranno le commissioni che gli verranno offerte da cardinali, nobili e altri mecenati di spicco dell’ambiente culturale romano di fine Cinquecento. La Roma a cavallo tra Sedicesimo e Diciassettesimo secolo fu infatti paragonabile alla Parigi impressionista di fin de siècle, culla di uno degli stili post-rinascimentali più dirompenti e influenti non solo per l’epoca, ma per il futuro di tutta la storia dell’arte: il barocco.
Tuttavia, Caravaggio sarà costretto a interrompere la propria attività all’apice del successo in seguito all’omicidio di Ranuccio Tomassoni da Terni. I due – forse rivali a causa delle relazioni con Maddalena Antognetti – si affrontarono in un duello che risulterà mortale per Tomassoni, ferito da un colpo di spada. Il comportamento violento e impetuoso dell’artista sarà una costante per tutta la sua vita e molte testimonianze dell’epoca ci restituiscono il ritratto di un uomo irascibile, aggressivo e avvezzo alle zuffe da strada. In seguito alla fuga dovuta alla condanna per decapitazione sancita da papa Pio V, si vedrà errante dapprima nei feudi dei Colonna – famiglia nobiliare romana che gli offrì protezione – poi nella Napoli dei viceré spagnoli e infine a Malta. Qui, ancora una volta, si lascerà vincere dalla rabbia e, coinvolto in una rissa, sarà costretto a salpare per la Sicilia. Dopo aver lavorato tra Messina e Siracusa e fatto ritorno ancora una volta a Napoli, durante l’ennesimo litigio Caravaggio si procurerà la ferita che gli sarà fatale.
L’artista-latitante morì proprio nel momento del ritorno in quella stessa Città Eterna che lo accolse all’età di ventitré anni, offrendogli un ambiente artistico intriso di novità, innovazione e fermento culturale. Quella vita rocambolesca dettata dalla fuga, dagli eccessi e dalle tentazioni criminali farà di Caravaggio uno dei primi archetipi del genio sregolato, dell’artista maledetto condannato dai propri vizi e dalle proprie debolezze. Elementi che ne influenzarono inevitabilmente l’opera stessa: egli, infatti, agì da ribelle anche nell’arte, rigettando i canoni estetici imposti dalle committenze dell’epoca e prendendo le distanze dagli stessi maestri da cui attinse la propria formazione.
Antesignano di quella che due secoli dopo diventerà l’arte della fotografia, Caravaggio sperimentò tecniche di resa luminosa fino a quel momento inedite. La scultorea plasticità dei soggetti è resa attraverso l’utilizzo cinematografico della luce, vero protagonista dei suoi dipinti ed elemento non più subordinato, ma complementare al soggetto. Definirlo un post-manierista seicentesco, incasellandolo nella corrente del Barocco risulta riduttivo, perché Caravaggio fu a tutti gli effetti un visionario. La stessa avversione all’autorità e alle leggi dimostrata in vita permea tutta la sua opera, destinata a rappresentare, per la prima volta nella storia dell’arte, la rivoluzione dell’uomo nei confronti dei dogmi imposti dall’alto. Le impeccabili ed eteree Madonne di Leonardo e Raffaello diventano per Caravaggio prostitute dipinte in pose informali, spontanee e soprattutto realistiche, perché la ricerca dell’autenticità in opposizione all’artificio è il fine ultimo della poetica Caravaggesca. Allo stesso modo, le imponenti figure maschili al limite tra l’umano e il divino create dall’altro Michelangelo, il Buonarroti, si trasformano in zingari, bari, ragazzi di strada, quegli accattoni che in futuro saranno il leitmotiv della parabola esistenziale di un altro grande artista dannato: Pier Paolo Pasolini.
Nella “Morte della Vergine”, tela oggi conservata al Louvre, Caravaggio usò come modello per il soggetto di Maria il cadavere di una giovane meretrice da poco affogata nel Tevere. Inutile precisare che la committenza ecclesiastica ne rifiutò immediatamente l’acquisto. La Madonna è rappresentata distesa con un braccio abbandonato, i piedi nudi e gonfi in primo piano, sul capo si nota a malapena una finissima aureola – unico elemento da cui poter dedurre la sacralità dell’episodio narrato. La scena è racchiusa da un grande drappo rosso, lo stesso colore che ritroviamo nella veste della Vergine-cadavere e in altri numerosi soggetti sacri appartenenti alla sua opera. Per antonomasia, il colore della passione, del peccato, ma anche dell’energia e del movimento, lo stesso che richiama la celeberrima scena della deposizione di Cristo ne La ricotta, il mediometraggio di Pasolini del 1963, condannato anch’esso immediatamente dalla Chiesa per vilipendio alla religione.
Le analogie con la vita e il pensiero di artisti e scrittori avanguardisti del ventesimo secolo – basti pensare agli Scapigliati milanesi o ai maledetti Baudelaire e Rimbaud – ribadiscono l’attualità di un pittore tutt’altro che morto. Caravaggio, riscoperto proprio a partire dalla prima metà del Novecento, vive ancora tra noi grazie a quell’indissolubile legame di luci e ombre capace di trasmettere la stessa dirompenza emotiva e intimità autobiografica che ritroviamo in un paesaggio di Van Gogh o in un ritratto di Egon Schiele. Lo stesso studio del vero e della resa della luce, che simboleggia la sua rivoluzione pittorica, più avanti costituirà la premessa per lo sviluppo di arti come la fotografia e il teatro.
Merisi mescolerà modus vivendi e opera pittorica prediligendo la realtà, anche se squallida e mediocre, alla retorica dominante della bellezza ideale e per definizione inafferrabile, fruibile ai pochi e distante dalla comprensione della vita e della società dell’epoca. In questo senso, lo si può definire in termini novecenteschi un artista popolare, vissuto da emarginato tra gli emarginati, ma pur sempre libero nell’espressione della propria forza di pensiero, di ribellione e di trasformazione. La complementarità degli opposti – vita e morte, sacro e profano, apollineo e dionisiaco – prende forma anche in una delle sue ultime tele, dipinte durante il secondo soggiorno napoletano: Il David con la testa di Golia. Questo dipinto rappresenta con toni drammatici il futuro re di Israele che, con espressione carica di compassione, brandisce la testa mozzata del gigante. Il bene trionfa sul male, la luce, quella che investe il corpo del giovane, vince l’oscurità e l’ombra che dominano lo sfondo dell’opera e parte del volto di Golia, che consiste nell’autoritratto dell’artista. Forse per provocazione nei confronti della condanna di Pio V, forse per consapevolezza della fine a cui sarebbe andato incontro, ancora una volta Caravaggio adibisce la tela a specchio della propria vita, dei propri demoni e delle proprie angosce. La testa in cui si raffigura è denotata da un volto esausto, verdastro e malato, lo stesso con cui egli attraverserà il litorale maremmano in cerca delle tre tele rimaste nella feluca che lo aveva accompagnato a Ladispoli. Tra di esse, sembra ci fosse proprio quest’ultima.