La storia dimenticata dei bambini di Napoli salvati dalle famiglie del centro-nord Italia
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Questa riflessione nasce dalla fotografia di un treno, un’immagine in bianco e nero, sgranata. Il vagone è zeppo di bambini che sporgono, per quello che possono, le teste, le mani e gli sguardi oltre il finestrino. Al centro della scena c’è una persona di spalle, presumibilmente una donna, infagottata in un lungo cappotto scuro: sembra essersi arrampicata sul predellino del treno per dare un ultimo bacio prima della partenza a suo figlio, magari un’ultima raccomandazione. Non possiamo saperlo. Nessuno è in posa, nessuno guarda in camera: non il militare che occupa il quadrante in basso, né la bambina coi polsi lasciati scoperti da una giacca troppo corta di maniche, né il bambino a cui invece il cappotto sta grande e gli ricopre tutta una mano, tesa a chissà quale altra nel mucchio di mani che salutano.

Questa fotografia l’ho trovata sul sito del comune di Modena, facendo ricerche su una storia d’accoglienza italiana che quasi nessuno sembra ricordare più. Arriva da anni che oggi sembrano storia lontana – l’immediato dopoguerra, il 1947 – ed è quella di uno dei cosiddetti “Treni della felicità”, un vecchio progetto di solidarietà nato alla fine del 1946 dall’idea del “Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli” per ospitare, nutrire e curare i bambini napoletani presso le famiglie contadine emiliane, meno provate dalla guerra. L’iniziativa traeva spunto da altre simili: bambini diretti in Emilia-Romagna erano partiti da Milano e Torino, da Roma e provincia fino a Velletri e Latina, da Cassino. Nel corso della sua durata, il progetto del Comitato salvò concretamente da fame, analfabetismo e malattie oltre 70mila bambini e ragazzi campani con il coinvolgimento anche di altre regioni, come la Toscana, le Marche, l’Umbria e la Liguria.

Confrontandoci con la realtà italiana attuale, questa sembra una favola, “una bella favola iniziata nel lontano 1947”, proprio come dice il sottotitolo del libro di Giulia Buffardi che ne ricostruisce la vicenda ne Il Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli 1946-1954. L’autrice – direttrice dell’Istituto campano per la storia della Resistenza – racconta di una straordinaria esperienza politica e sociale, voluta, promossa e organizzata dal Partito comunista nei primi anni del secondo dopoguerra, quando Napoli si trovava in una condizione difficilissima. I bombardamenti subìti, le razzie naziste nella parte finale dell’occupazione dopo le Quattro Giornate e la povertà, avevano messo in ginocchio la più grande città del Sud. Scrive Antonio Ghirelli in Storia di Napoli:  “Nell’immenso tessuto urbano che rimarrà per mesi privo di energia elettrica e di trasporti pubblici, gli abitanti sloggiati dai bombardamenti si ammucchiano nei ricoveri antiaerei, nelle stazioni della metropolitana e delle funicolari, tra le macerie, nelle grotte, nei cunicoli […]. La scarsezza di acqua costringe donne, vecchi e bambini a lunghissime file dinanzi alle poche fontane pubbliche ancora in funzione. Se il servizio di nettezza urbana è inesistente, tragica è la situazione sanitaria : gli ospedali semidistrutti mancano di farmaci […]. Miseria e vergogna non nascono da una vocazione patologica della gente napoletana, ma semplicemente dallo sfacelo”.

I bambini della città sono quelli di Paisà di Roberto Rossellini e di Napoli Milionaria! di Eduardo De Filippo, oppure quelli raccontati più recentemente ne L’Amica Geniale. Sono bambini poveri, a cui mancano cure di ogni genere: mediche, familiari, istituzionali, scolastiche. Non hanno niente, eppure sono i soli protagonisti di una vita comunitaria, gli unici che popolano le strade e i quartieri. Il Comitato nacque in questo contesto da un nutrito gruppo di intellettuali capeggiati da Gaetano Macchiaroli, insieme ai partiti di sinistra e ad altre forze democratiche e sindacali come l’Udi, Unione Donne Italiane. L’idea era quella di far uscire dalla durezza della condizione post bellica quanti più bambini napoletani fosse possibile, dando loro l’occasione di conoscere, per la prima volta, un’esperienza di vita più adatta alla loro età, accogliendoli in città e regioni del centro-nord del Paese nelle quali avrebbero trovato migliori possibilità di nutrirsi e di crescere. Non che a quell’epoca altrove si navigasse nell’oro, ma almeno si riusciva in qualche modo a mettere insieme il pranzo con la cena.

I bambini furono individuati, “ripuliti”, accompagnati da schede di riconoscimento, forniti di cappotti e indumenti e preparati per lasciare Napoli. Con quali pensieri? Già Buffardi aveva ritrovato e intervistato alcuni di quei bambini ormai adulti, raccogliendone per quanto possibile i ricordi. Si tratta di testimonianze personali importanti nella loro semplicità, per ricostruire la storia del nostro Paese. I bambini di un tempo ricordano e raccontano la paura della partenza – a nessuno di loro era chiaro dove stessero andando e perché – ma anche la meraviglia dell’arrivo. Coperte rimboccate, stanze calde, giocattoli di stoffa e non di carta, scuole accoglienti, salami appesi alle travi della cucina, uova fresche e latte: ai loro occhi  sembravano dei veri e propri miracoli. Ma sono soprattutto le memorie della famiglia e della cura, scoperti per la prima volta insieme al senso di responsabilità degli adulti nei loro confronti, a essere ricordati con commozione: “A Napoli invece ognuno doveva preoccuparsi di se stesso,” raccontano. Allo stesso modo arrivano le testimonianze delle famiglie affidatarie: “Io stavo per dire, molto a malincuore, di no, pensando alle precarie condizioni, ma fu tale la gioia all’idea di fare del bene”.

Il ritorno a Napoli fu, per tutti, bambini e adulti che si erano presi cura di loro, combattuto: i primi dovettero più o meno consapevolmente arrendersi e rinunciare agli agi non solo materiali ma anche emotivi, spesso richiamati in città dai genitori perché dessero una mano alla famiglia d’origine lavorando; i secondi, invece, dovettero lasciarli tornare in quel contesto che era ancora poverissimo. Eppure non vi è traccia alcuna di pregiudizio verso il Sud o di due diverse “Italie” che non riescono a parlarsi: piuttosto, a emergere sono una serie di legami fortissimi appena sotto la superficie degli eventi, mossi dalla solidarietà e diventati, nel corso del tempo, un bel ricordo e, in alcuni casi, una solida amicizia.

Se il sostegno spontaneo e organizzato che unì Nord e Sud, poveri e benestanti, nello sforzo comune di sostenere l’infanzia è una pagina sociale esemplare, è anche vero che ha visto una serie di difficoltà prima di farsi progetto concreto. Nel film-documentario Gli occhi più azzurri, Storia di un popolo, di Simona Cappiello e Manolo Turri Dall’Orto, è evidenziato come l’iniziativa del Comitato non sia sfuggita, ad esempio, alla strumentalizzazione politica e alla contrapposizione tra democristiani e comunisti, sempre dipinti come “mangiatori” di bambini. I cattolici accusarono di speculazione i partiti e le associazioni di sinistra e denunciarono una “tratta dei fanciulli”, mentre diverse testate contribuirono a diffondere quella che oggi chiameremmo una fake news, e cioè che i piccoli accompagnati ai treni in partenza per l’Emilia sarebbero stati, in realtà, spediti altrove. Nel gennaio del 1947, come riportato da Buffardi, Il Giornale scrisse, ad esempio, di bambini che lasciavano “la tropicale Napoli per quelle boreali regioni del sottozero” titolando l’articolo “E perché non in Russia?”.

Il lavoro di ricerca dei bambini in condizioni più disagiate – gli stessi che si vedono ancora oggi – fu dunque complicato dalla propaganda negativa che raggiungeva le famiglie soprattutto attraverso le parrocchie, ma il risultato, dopo la partenza del primo convoglio, superò ogni aspettativa. Grazie ai controlli medici fatti ai bambini prima della partenza fu possibile avere una stima precisa di malattie e infezioni e dopo le diffidenze iniziali, si riuscì a coinvolgere anche gli oppositori politici della sinistra come la Pachiochia, una capopopolo monarchica che, una volta appurata la natura benefica dell’iniziativa, si offrì per collaborare in prima persona con gli organizzatori.

Nel documentario Gli occhi più azzurri, la regista mescola la narrazione storica al racconto personale di una giovane donna sulle tracce dei ricordi della nonna: le testimonianze di attivisti e partecipanti diventano allora attuali e preziosissime, spiccano quelle dell’ex sindaco di Napoli Maurizio Valenzi, della senatrice Luciana Viviani, di Lina Porcaro, attivista dell’Udi, e del regista Carlo Lizzani. Fa tenerezza il racconto della bambina napoletana che, arrivata a destinazione, nessuno riusciva a capire né a calmare perché piangeva chiedendo la sua “pazziella”, il suo giocattolo, così come fa sorridere l’idea di altri piccoli che, davanti alla neve, vista per la prima volta dal finestrino del treno, la scambiarono per ricotta, ma a emergere, sotto la traccia dei racconti, è un’idea fortissima: quella di una nazione in difficoltà, stremata dalla guerra, capace però di mobilitarsi incondizionatamente per proteggere i figli di tutti. Questo documentario parla, allora, di un viaggio fisico e simbolico che avvicinò due “Italie”, all’epoca ancora molto distanti per lingua e cultura.

Quella del Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli è stata una realtà di successo, riproposta anche in altre situazioni di emergenza, come durante l’alluvione del Polesine nel 1951 e in seguito allo sciopero di San Severo nel 1950, a Foggia, che portò all’arresto di 184 persone, tra cui molte donne costrette a lasciare i propri figli che vennero temporaneamente “adottati” da famiglie del centro-nord Italia. Resta da chiedersi perché questa storia positiva sia ancora così poco nota e perché gli stessi protagonisti, come riportato sia da Buffardi che da Cappiello, mostrino una certa difficoltà a parlarne.

L’altruismo e la solidarietà oggi sono quasi considerate pecche dell’animo, una specie di pericolosa malattia chiamata “sensibilità”, o “empatia”, una stortura capace di portare il Paese intero alla rovina, vittima di approfittatori e speculatori. Diventa allora sempre più necessario ricordare di quando queste erano le fondamenta del vivere civile ed erano sentite come un dovere. “Credo che quello che ti fa avere paura dello sfruttamento sia la perdita di fiducia,” spiega Cappiello. “Ma tutto questo coesiste con forti sentimenti di apertura e collaborazione che ancora ci pervadono e di cui sentiamo sicuramente bisogno”. Della stessa opinione era Agostino Paluan, sindaco di Reggiolo, uno dei comuni emiliani ospitanti: “Sono convinto che nella maggior parte della gente ci siano ancora questi sani principi: è che non si trova lo sbocco, il modo”. A chiusura del documentario, la voce narrante di Nunzia Schiano dice: “Sono stata accolta e amata come una figlia  e ora sento che devo fare io qualcosa per loro, per questo racconto questa storia, per non dimenticarlo”. Torno alla fotografia che ha dato inizio alle mie domande: c’è una scritta sul manifestino attaccato sul vagone: “Non esiste Nord e Sud. Esiste l’Italia”. Il passato ha ancora qualcosa da insegnarci, se non ce l’ha il presente.

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