I bambini italiani sono infelici. Dobbiamo dare loro più libertà.
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Nel 1560 l’olandese Pieter Bruegel il Vecchio dipinse Giochi di bambini. Il quadro rappresentava una grande piazza in cui più di 200 bambini erano intenti a praticare ben 85 passatempi diversi, il tutto all’aperto e senza nessun genitore nei paraggi. Con quel dipinto, Bruegel chiariva quale fosse la sua posizione su un argomento di cui già al tempo si parlava molto: il diritto del bambino a giocare. L’opinione dell’artista era la stessa di molti umanisti del tempo, in primis il connazionale Erasmo da Rotterdam: era necessario incoraggiare il gioco all’aperto in qualunque periodo dell’anno e senza il controllo troppo opprimente degli adulti.

Quelle idee negli anni hanno portato all’approccio che oggi nella patria di Bruegel e Erasmo da Rotterdam si riassume col termine relativeren. Il cuore di questa filosofia sta nel non preoccuparsi troppo dei pericoli ipotetici, ma fare capire subito ai bambini come evitarli da soli: imparare da subito a nuotare impedirà il rischio di annegamenti mentre andare presto in bici aiuterà a comprendere come comportarsi in strada per evitare incidenti. Una volta capiti i rischi, il bambino potrà giocare in acqua, fare corse in bici in autonomia e, in generale, vivere da solo quelle esperienze di crescita che nascono giocando e relazionandosi coi propri coetanei.

Gli olandesi hanno fatto propria questa filosofia. L’estrema libertà garantita ai bambini li rende infatti tra i più felici del mondo. Lo conferma anche l’UNICEF, in un rapporto del 2013 che prende in esame i bimbi di 29 Paesi industrializzati: gli olandesi sono primi nel benessere dell’infanzia. Gli italiani sono invece solo ventiduesimi. Nonostante l’Italia sia la patria di metodi pedagogici che lasciano grande libertà al bambino di sperimentare e imparare giocando, come il metodo Montessori, oggi chi cresce nel nostro Paese ha poco spazio nelle sue giornate per l’attività ludica.

Già tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila si è volutamente accorciato il tempo che il bambino può dedicare al gioco libero e senza imposizioni: la scoperta che il cervello dei più piccoli è più ricettivo ha portato molti a voler sfruttare in modo eccessivo questa elasticità, proponendo subito programmi prescolari che rubano tempo a giocattoli e passatempi vari.

Si è arrivati a proporre una rilettura in buona parte distorta della tesi della tabula rasa, elaborata da John Locke: il filosofo anglosassone era convinto che il bambino fosse un essere plasmabile in tutto e per tutto dall’ambiente circostante e invitava ad approfittare delle possibilità che nascevano da questa condizione. 

La docente di psicologia Kathy Hirsh-Pasek è stata tra le prime a evidenziare il problema che un’idea del genere può portare con sé: “Oltre a insegnare ai bambini il contenuto, dovremmo cercare di rafforzare le loro capacità umane, aiutandoli a imparare, a pensare nuove idee, a esplorarle, a cavarsela con gli altri nei giochi di gruppo e, più tardi, nel mondo del lavoro. Queste sono cose che gli umani fanno meglio dei computer, e si sviluppano proprio giocando”.

Paesi come la Finlandia per questo hanno scelto di far iniziare le elementari più tardi per garantire un altro anno di gioco ai bambini. Analizzando i risultati di indagini internazionali come il PISA (Programma per la valutazione internazionale dello studente), si può affermare che questa scelta non ha pregiudicato il futuro rendimento scolastico dei finlandesi che, nell’ultima rilevazione OCSE, occupano una posizione molto più alta dei coetanei italiani. Contestualmente, una ricerca presso il dipartimento di Psicologia dell’università di Zurigo ha messo in correlazione la quantità di ore dedicate al gioco con i risultati scolastici di 254 studenti universitari eha scoperto che i bambini che continuano a dedicare tempo al gioco anche negli anni della scuola conseguono voti migliori. Nel 2015, lo studioso americano Peter Gray ha reso noti i dati di uno studio trentennale che incrocia la predisposizione all’attività ludica e l’evoluzione della persona. La ricerca spiega bene tutti i vantaggi di chi ha passato una vita intera senza perdere lo stimolo di giocare: i soggetti che durante l’infanzia hanno smesso di giocare sono infatti più spesso affetti da quelle che consideriamo le patologie di questo secolo: ansia, depressione, narcisismo, isolamento e dipendenza dagli altri.

Le ragioni per cui questo si verifica sono facilmente intuibili e rimangono connesse alla natura sociale della pratica ludica. Il filosofo Roger Caillois scrive che il gioco ha un’“intima fecondità culturale” e pertanto le società che lo esaltano sono quelle che l’antropologo Levi- Strauss definiva “società calde”: comunità in continua trasformazione ed estremamente creative. Giocare arricchisce perché apre quella che lo studioso francese Albert Piette definisce una “faglia della realtà quotidiana” e dà un diverso punto di vista per leggere gli eventi. La teoria freudiana azzarda che la pratica ludica garantisca una libertà di lettura che, in altri momenti della vita, non è altrettanto possibile e pertanto è fondamentale per avere una nuova prospettiva a qualunque età.

Il gioco del calcio ha aiutato l’integrazione dei neri in Brasile più di qualunque discorso proprio perché apriva una faglia nella realtà quotidiana carioca, in cui neri e mulatti non venivano mai a diretto contatto con i bianchi di origine europea. Lo scrittore francese Olivier Guez ha raccontato che il dribbling nacque proprio come modo di evitare le cariche violente degli avversari bianchi, che gli arbitri non fischiano mai: “Astuzia e tecnica di sopravvivenza dei primi giocatori di colore, il dribbling evita loro ogni contatto con i difensori bianchi. Il giocatore nero che serpeggia e ancheggia non verrà pestato né in campo né dagli spettatori a fine partita; nessuno lo agguanterà; il dribbling può salvargli la pelle”. Un gesto semplice ma spettacolare all’interno di un gioco aiuta a mostrare e ribaltare i rapporti di forza di una società: il rispetto che il giocatore guadagna in campo lo aiuta a essere rispettato nel suo quotidiano.

L’artista del dribbling Garrincha ispirò valanghe di poesie perché in fondo tra l’arte della parola e quella del gesto atletico si mantiene la stessa dimensione ludica. Vladimir Nabokov ne era convinto, al punto da parlare delle sue opere come di un gioco, di un esercizio solo apparentemente gratuito e senza senso pratico. Il problema della società contemporanea è che ha impoverito la parola al punto da rendere il linguaggio un gioco sterile e ha tolto importanza anche al movimento atletico spontaneo, che nasce con la pratica libera e gioiosamente anarchica del giocare. Le capriole sono il simbolo di questa libertà e il fatto che quasi nessun bambino italiano si eserciti più a farle ci dice molto su quanto la nostra società abbia sottovalutato il gioco. Secondo una ricerca di Sergio Dugnani, docente di Scienze del Movimento all’Università di Milano, in prima media due ragazzi su tre non sono in grado di fare una capriola perché non ci hanno mai provato.

Tanti bambini frequentano scuole calcio o fanno danza ma questo tipo di movimento, per quanto sia senz’altro un’attività positiva, non è equiparabile a quello che si fa giocando da soli in strada o senza la supervisione di un adulto. Giocare liberamente seguendo il proprio istinto è un’esperienza diversa ed estremamente formativa che regala una coscienza diversa del proprio corpo: un tipo di conoscenza di sé che non può esserci se si dedica al gioco solo spazi di tempo limitati, in cui l’attività è coordinata da altri e si limita alla ripetizione di esercizi imposti.

Ai bambini italiani però non manca solo il tempo da dedicare al gioco ma anche gli spazi dove giocare: in Italia ce ne sono sempre meno e scompaiono, mentre all’estero sono in continuo aumento. Anche in questo caso l’Olanda è un esempio virtuoso da prendere come riferimento: solo Amsterdam può contare circa 1300 luoghi pubblici pensati per i bambini. La maggior parte di questi campi sono nati dopo la Seconda Guerra Mondiale e il conseguente aumento delle auto nelle strade: molti spazi sono piccoli gioielli di architettura modernista che arricchiscono la città anche dal punto di vista panoramico. Il solo architetto Aldo Van Eyck ha progettato 860 di questi luoghi, mentre in Italia, secondo il rapporto Istat del 2011 “Infanzia e vita quotidiana”, solo il 25,5% dei bambini frequenta il cortile e i giardini. Nelle nostre città ci sono bei parchi e zone verdi ma, in molti di questi luoghi compaiono i famigerati cartelli che vietano ai bambini di correre, calpestare le aiuole o giocare col proprio cane. Soprattutto è tassativamente proibito “il giuoco del pallone”, scritto proprio così per chiarire che quel cartello lo ha messo un adulto 60 anni fa.

 A volte guardiamo con supponenza ai luoghi più poveri del nostro pianeta. Gli occidentali credono che si tratti sempre di uno scambio unidirezionale: gli europei portano aiuto e gli europei insegnano agli altri, mai il contrario. In realtà non è proprio così e i più ricchi avrebbero molto da imparare dagli abitanti di determinati posti dove sopravvive ancora una forte “cultura del gioco”. Il fotografo Gabriele Galimberti ha passato diciotto mesi a fotografare bambini di tutto il mondo con i loro giochi e ha scoperto che in molte zone povere dell’Africa i bambini hanno ancora spazio e tempo per crescere divertendosi e che questo li accresce come persone, rendendoli più altruisti e pronti al dialogo dei sedentari e paurosi coetanei occidentali.

Galimberti racconta che: “i bambini dei Paesi più ricchi avevano un rapporto più possessivo con i loro giochi ed era molto più difficile interagire rapidamente con loro. In Africa invece i bambini continuano ad apprezzare il gioco in compagnia dei propri amici e in generale per i bimbi africani l’amicizia tende ancora ad avere più valore del gioco di per sé”.

I bambini tendono ad imitare quello che vedono fare dagli altri: se vivono in una società che preclude loro la possibilità di giocare, smettono di cercare nell’attività ludica con gli altri un’opportunità di confronto e arricchimento e ne risentono in seguito. Giocare non è solo un aspetto  fondamentale per lo sviluppo del bambino ma è anche un suo diritto inalienabile, come scritto anche nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia approvata il 20 novembre di trent’anni fa. Bisognerebbe prendere esempio da chi, a qualunque latitudine, non ha dimenticato l’importanza del gioco per instaurare un dialogo e capire come rimettere davvero “il parco giochi” al centro dei villaggi.

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