La recente petizione di Mia Merrill e Anna Zuccaro per far rimuovere dall’esposizione permanente del Metropolitan Museum of Art di New York il quadro di Balthus accusato di “promuovere la pedofilia”, Thérèse rêvant (che non si sa perché i quotidiani italiani continuano a citare nella traduzione inglese Thérèse Dreaming), è stata respinta. Questo ci fa mantenere un briciolo di speranza nelle sorti dell’umanità, eppure, il fatto che due cervelli abbiano potuto partorirla, oggi, non è un buon segno; il fatto che poi sia stata firmata da più di 11mila sostenitori si avvicina quasi alla catastrofe e dovrebbe farci rivalutare il concetto di democrazia diretta.
“Sono rimasta scioccata nel vedere un dipinto che ritrae una ragazzina in una posa sessualmente esplicita”, scrive all’inizio della petizione Mia Merrill, precisando di non voler chiedere al Met “di censurare, distruggere o nascondere per sempre il dipinto” – ci mancherebbe altro – ma di “considerare le implicazioni che ha l’appendere particolari opere d’arte alle pareti, e di essere più attenti nel contestualizzare alle masse questi lavori”.
“Masse” è una parola chiave, che non leggevo dai saggi scritti negli anni Settanta. L’arte di Balthus è per le masse? Forse no. Quindi non la possiamo più esporre? Possiamo solo venderla all’asta per farne godere una cerchia ristretta di ricchi iniziati? Mia Merrill sale sul piedistallo e insegna al Met come trattare il popolo, come difenderlo, proteggerlo dai vizi, dall’oscurità della natura umana, come istruirlo. E se il popolo fosse lei? Tanto turbata da un dipinto fin da sentirsi aggredita e offesa? Così come gli indiani pensavano che le fotografie gli rubassero l’anima, così come me che a dodici anni (l’età in cui veniva ritratta Thérèse), dopo averlo letto, ho dovuto nascondere in fondo a una libreria Il muro di Sartre, tanto mi aveva scossa.
L’arte, in generale, è per le masse? Quel che è certo è che non tutti hanno gli strumenti
per discernere il messaggio sottile di un’opera, che non è mai univoco. E qui si aprirebbe un capitolo tendente a infinito. Quanti sono stati gli artisti osteggiati in nome della morale comune, incompresi, esiliati, emarginati ai confini della società? La lista è lunga. Chi siamo noi per giudicare? Un mio vecchio maestro, giornalista, mi ha insegnato a non usare mai la parola massa: “La ‘gente’ e le ‘masse’ non esistono, esistono solo gli individui”. Ho deciso di credergli.Mia Merrill chiede che venga contestualizzata meglio l’opera: non aggiungendo particolari sulla storia personale e artistica di Balthus, ma inserendo piuttosto una riga che condanni le inclinazioni dell’artista nei confronti delle ragazzine, come evidentemente deve aver letto in qualche manuale di storia dell’arte. Una sorta di denuncia retroattiva e anacronistica per molestie. Balthus novello Weinstein. Ed è così che questa vicenda diventa sempre più simile alla farsa. Infatti, quel che propone Merrill sarebbe paragonabile a voler togliere dal commercio tutti i film prodotti da Weinstein dove recita almeno una donna invece di processare Weinstein stesso. Nessuno ha punito Balthus quando era in vita? Allora puniamo adesso le sue opere. D’altronde le colpe dei padri ricadono sui figli. Già che ci siamo potremmo impedire ad Adelphi di fare nuove ristampe di Lolita, altra opera ampiamente discussa. Crediamo davvero che tutto questo sia indice di “civiltà”? Non so voi, ma a me viene in mente solo il rogo di libri di Fahrenheit 451. Non importa che la petizione, com’è stato sottolineato, non chieda di far scomparire l’opera – e ripeto, ci mancherebbe altro – la matrice di pensiero da cui nasce quel gesto è la stessa delle censure di regime.
Discutere di queste cose poi rende inevitabile che Balthus finisca per essere paragonato artisticamente a Weinstein. Ma la cosa più ridicola di tutte è che l’autrice di questa messa in scena vorrebbe in effetti far rientrare la sua denuncia nel calderone del #metoo per dare voce a Thérèse Blanchard, la modella, figlia di una cameriera parigina, ritratta da Balthus dagli 11 ai 13 anni. Ma c’è un risvolto ancor più paradossale: grazie alla petizione di Mia Merrill, ora il dipinto in questione è stato pubblicato ovunque e tutti possono vederlo, anche chi al Met non c’è mai stato e mai ci andrà e non ha la più pallida idea di chi sia Balthus – che era il protetto di Rilke, oltre ad essere figlio della pittrice Baladine Klossowska.
Non parlerò nemmeno del fatto che ritrarre una giovane modella, stando a quanto sappiamo della vicenda, non sia un reato. Nessuno ci dice, o può provare, che Balthus l’abbia molestata. Probabilmente la pagava, o faceva regali alla famiglia – nel 1938, la vita per la classe operaia parigina non era certo un idillio. Proprio come il pedofilo dilaniato dell’opera teatrale Hamelin, del drammaturgo spagnolo Juan Mayorga, che come tutte le opere d’arte riuscite non ha un solo messaggio, non ha una sola risposta esatta, chiara, lineare alla domanda che pone. Perché la natura umana non è esatta, non è chiara e men che meno lineare, e uno dei compiti dell’arte – se proprio di compiti vogliamo parlare, invece che di vocazioni – è proprio quello di esplorare e illuminare quella zona d’ombra. Abbiamo messo le mutande alle statue, ora vogliamo mettere il bollino rosso ai quadri, e forse oggi non si fanno più roghi eclatanti, ma la censura si insinua sottile nei rifiuti editoriali. Non si può tagliare l’animo umano con l’accetta, non si può vietare a un artista di rappresentare il suo universo creativo. Un’opera d’arte non può essere ridotta a una prova, a un capo d’accusa.
La presunta moralità dell’arte è un tema che ha sempre fatto discutere – anche persone che di arte non ne capiscono niente, ma che si sentono sempre in dovere di esprimere la loro opinione sulla piazza, facendosi garanti non richiesti di principi e valori. È uno sporco lavoro ma qualcuno dovrà pur farlo. Sentir parlare di queste cose mi fa sempre una certa impressione, anche perché il tema è stato perfettamente esaurito da Wilde nel 1890. Ne Il ritratto di Dorian Gray – che di solito ci fanno leggere a scuola, alle medie, o al più tardi nei primi anni di superiori – si legge: “There is no such thing as a moral or an immoral book. Books are well written, or badly written. That is all”; che tradotto, con l’eleganza che caratterizzava lo scrittore, equivale a dire: ciao popolino, questi problemi triviali sono i tuoi, non i miei, questi non sono i problemi dell’arte, perché l’arte è libera. L’arte non guarda in faccia a nessuno. L’arte non soggiace al diritto. L’arte non si preoccupa del giudizio dell’osservatore. E questo, per chiarire, vale per qualsiasi forma essa assuma.
La cosa positiva è che l’arte, quella vera, faccia ancora discutere. La cosa interessante è che faccia discutere di più un’opera degli anni ’30 che una contemporanea. Balthus ha dipinto un quadro che, ottant’anni dopo, è ancora sovversivo, pericoloso, forse oggi più di allora. Ha creato un’opera che vive, immortale, che minaccia e diseduca, che vuole essere oscurata dai benpensanti, da tutti coloro che non sono in grado di confrontarsi con l’arte – e con la vita – e che vogliono infilarla in fondo al deposito di un museo, sperando che venga dimenticata, come l’arca perduta di Indiana Jones o lo slittino di Charles Foster Kane, in Quarto potere, là dove l’arte diventa la vita e gira attorno alla domanda “Who am I?”. Ma vogliamo davvero sapere chi siamo? Le opere degli altri esseri umani, degli artisti, ci aiutano a rispondere a questa domanda, ma non tutti sono pronti per ascoltare, per farsi osservare dall’opera.
Mia Merrill sembra avere un’idea vittoriana della funzione educativa dell’arte, mentre – se proprio deve averne una – la funzione dell’arte è proprio quella di sovvertire il sistema, capovolgerlo, far trasparire uno spiraglio attraverso lo specchio. Perché non ritirare dal commercio anche Alice nel paese delle meraviglie? Carrol aveva una reputazione piuttosto dubbia in fatto di bambine, eppure l’immagine che ci è arrivata è stata ripulita da qualsiasi malizia. Sì, a Lewis Carrol piacevano le bambine col caschetto, ma gli raccontava solo splendide filastrocche, non le ha mai sfiorate con un dito, no? Allora cosa facciamo? Impostiamo un #metoo anche per Alice Liddell? Salviamo il cartone della Disney e condanniamo il dipinto di Balthus? Il punto è che non si può e non si deve giudicare moralmente l’arte.
La faccenda al momento – per fortuna – è stata liquidata dal Met, così come dalla critica. Sembrerebbe che Mia Merrel si debba inventare qualcos’altro per far parlare di sé senza sembrare una bigotta invece che una studentessa di storia dell’arte della New York University. Non dimentichiamoci però che la sua azione, e il seguito che ha avuto, sono sintomo di un sentimento più grande e generalizzato.
Ginia Bellafante sul New York Times ha manifestato stupore rispetto alla posizione del museo e della critica: “Questo contraddice l’ethos di un’epoca in cui abbiamo cercato sempre più di capire la struttura morale che appartiene a quasi tutto ciò che consumiamo. Il caffè deve essere prodotto ed etichettato secondo i principi del free trade, i pavimenti di legno devono provenire da fonti sostenibili, i polli devono essere cresciuti e uccisi in modo umano. Le start-up tecnologiche hanno bisogno di storie che affondano le radici nella virtù. Eppure, quando il prodotto è arte, e il materiale d’origine è un corpo a tutti gli effetti, segnalazioni di questo tipo vengono apparentemente accantonate.”
Ma il punto è proprio questo, persone come Merill, Zuccaro, Bellafante, e tutti coloro che hanno firmato la petizione, confondono gli ambiti, confrontandosi con un’opera come Thérèse rêvant come se si trattasse di un “prodotto”. L’arte è tutto fuorché essere tale, anche se da un po’ di tempo a questa parte ci siamo ostinati a definirla così, fino ad arrivare a crederci. È fondamentale ricordarselo.