Alla fine dell’estate del 1972 è avvenuto il massacro degli atleti israeliani a Monaco di Baviera per mano dei terroristi palestinesi di Settembre nero.
Ai primi di gennaio del 1973, negli uffici dei servizi segreti italiani arrivano comunicazioni che avvertono di cellule dormienti della stessa organizzazione terroristica pronte a colpire in Italia. Il 5 settembre 1973, a Ostia, i Carabinieri fanno irruzione in un appartamento e trovano cinque palestinesi di Settembre nero con quattordici lanciamissili e relativi missili terra-aria; li avrebbero usati per abbattere l’aereo del primo ministro israeliano Golda Meir. I Servizi pensano sia finita, ma le comunicazioni di un possibile attentato da parte di fonti certe si fanno ancora più frequenti: se ne contano 23. Il governo intensifica la sorveglianza degli obiettivi sensibili.
La mattina di lunedì 17 dicembre a Fiumicino piove e fa freddo. Manca una settimana a Natale, e le 40mila persone che quotidianamente attraversano l’aeroporto sono raddoppiate. È tutto un viavai di famiglie e viaggiatori che si spostano tra valigie stracolme, ombrelli, soprabiti bagnati e code ai passaporti. Fuori non è meglio: i facchini dell’Asa sono pochi e devono lavorare in fretta sotto la pioggia per svuotare le stive degli aerei e riempirle. Non è nemmeno mezzogiorno e l’aeroporto ha già totalizzato parecchi ritardi sulla tabella di volo. La sorveglianza è affidata a oltre un centinaio di uomini delle forze dell’ordine, perlopiù assegnati ai controlli di frontiera. Una direttiva del ministro dell’Interno ha fatto arrivare 9 uomini dell’antiterrorismo, che hanno appena ricevuto una chiamata da un addetto alla manutenzione dell’aeroporto. Dice che ha visto un buco nella rete che delimita l’aeroporto, forse fatto con un tronchese. È a una decina di chilometri da lì, così i nove uomini abbandonano i loro posti e vanno a vedere.
Nello stesso momento, al tribunale di Roma, è appena iniziato il processo ai cinque palestinesi arrestati a Ostia. Il capo della Digos, Domenico Spinella, rilascia una dichiarazione che l’Ansa riporta testuale: “Circa due mesi fa sono venuto a conoscenza dell’eventualità di un atto terroristico clamoroso che doveva avvenire probabilmente a Roma. Sarebbe stato fatto per ottenere la liberazione dei palestinesi imputati a questo processo. Era chiamato “operazione Hilton” ed era affidato a Wadi Haddad, detto Abu Hani, residente in Yugoslavia.” Al giudice arriva una comunicazione personale, poi interrompe il processo.
Al gate 10 di Fiumicino ci sono dei pellegrini palestinesi in coda per il controllo passaporti; indossano gli abiti tradizionali, ma tra loro ce ne sono cinque vestiti eleganti. Portano però valigie da poco, che stonano coi completi. Di sicuro, cinque sono atterrati da Madrid con biglietto tratta Tripoli-Madrid-Roma, pagato si scoprirà dai conti correnti dei Servizi Segreti libici. Arrivati alla barriera, uno di loro tira fuori una pistola e la punta alla gola di un poliziotto. Gli altri quattro escono dal gruppo armati di mitragliatori e sparano in aria forando le tubature dell’acqua e scatenando il panico tra la folla, che scappa in tutte le direzioni. Ciro Strino, ferito, viene preso in ostaggio insieme agli altri poliziotti, i quali, nel frattempo, sono stati disarmati. Poi il gruppo di terroristi di divide: metà di loro spingono i poliziotti verso il gate 14, altri sparano contro le vetrate per sfondarle.
Sulla pista, intanto, il Boeing 707 “Celestial Clipper” della compagnia americana Pan Am si sta preparando al decollo con un ritardo di 25 minuti. Il comandante Andrew Erbeck sta facendo i controlli di routine quando vede la vetrata del gate andare in pezzi e decine di persone riversarsi in pista, inseguite da due uomini armati. Erbeck guarda il quadro comandi, ma i portelloni dell’aereo sono ancora aperti e la scala mobile fissata, quindi non può decollare; può solo gridare all’interfono ai passeggeri di togliersi dal finestrino e distendersi a terra. Si alza dal posto di comando e vede i due terroristi correre verso di loro con una bomba in mano “come quelle tedesche, con il lungo bastone e il contenitore in cima”. Fa appena in tempo a capire che sono un paio di granate al fosforo, poi il terrorista ne innesca una e la lancia dentro l’aereo. Il fosforo bianco, entrando in contatto con l’ossigeno presente nell’aria diventa anidride fosforica, un composto corrosivo che reagisce violentemente con tutto ciò che contiene acqua, come ad esempio la pelle, disidratandoli e producendo acido fosforico. Il calore sviluppato da questa reazione brucia la parte restante del tessuto molle, distruggendolo completamente. Quando la prima granata esplode, è un massacro. Un altro terrorista lancia la seconda bomba dentro l’aereo, che scoppia sventrando il tetto. Tra i sedili c’è Luigi Peco, che racconta di essersi tappato le orecchie come gli avevano insegnato durante il militare, così da non spaccarsi i timpani ed evitare di svenire. Nel fumo, si trascina verso il primo portellone e, aiutato da uno steward, riesce ad aprirlo. Aiuta i sopravvissuti finché non si accorge che le sue mani sono ustionate.
Nello stesso momento, il secondo gruppo di terroristi spinge gli ostaggi fino a un Boeing 737 della Lufthansa con i passeggeri ancora a bordo e gli operai dell’Asa che svuotano la stiva. C’è anche un finanziere di appena vent’anni, Antonio Zara, che quando vede i terroristi armati in cima alla scaletta del portellone anteriore decide di reagire. Alle sue spalle, un terrorista gli spara. Lo stesso assassino poi sequestra Domenico Ippoliti, facchino dell’Asa, spingendolo su per la scaletta e dentro l’aereo. Da sotto l’ala esce Spartaco Rimedia, un altro facchino, a cui viene puntato in faccia il mitragliatore; Spartaco alza le mani e si blocca, il terrorista gli fa cenno di andarsene. Spartaco comincia a correre a zig zag, il terrorista gli spara senza colpirlo. Poi il secondo gruppo arriva di corsa dal Pan Am in fiamme, sale a bordo del volo Lufthansa e chiude i portelloni. Gli uomini raggiungono la cabina di comando e, puntando le armi contro il comandante Joe Krose e il suo vicepilota Olf Kiess, gli ordinano di decollare.
La torre di controllo italiana, sotto indicazione del ministro dell’Interno, non obietta né fa resistenza. Alle 13.32 il 737 della Lufthansa con a bordo 14 ostaggi – comandante e vice, la hostess Helene Hanel con due colleghe, il tecnico Yohannes Tesfaye, un impiegato della Lufthansa, Rosel Busch, i sei poliziotti italiani e il facchino Domenico Ippoliti – si lascia alle spalle un aereo in fiamme e 31 morti. Sono passati venti minuti da quando tutto ha avuto inizio.
A bordo del 737 gli ostaggi vengono ammanettati a due a due, incluso Ciro Strino, il poliziotto ferito. Le manette sono troppo strette, e le mani di alcuni si gonfiano e diventano cianotiche. Domenico Ippoliti è ammanettato a Helene Hanel. Nei sedili della prima classe Strina sta sempre peggio. Un terrorista ordina a Helene di prestargli assistenza e le toglie le manette, così Ippoliti resta da solo. Atterrano ad Atene, alle 16:50. Dalla pista di atterraggio chiedono alle autorità elleniche di rifornire l’aereo di viveri e carburante, di parlare con gli ambasciatori di Siria, Egitto, Libano e Iraq e di rilasciare due terroristi palestinesi, Chafiq el-Arid e Talal Vantouran, che avevano fatto un attentato proprio in quell’aeroporto il 5 agosto dello stesso anno.
Le comunicazioni sono difficili; il capitano Joe Krose fa da interprete e loro, per convincerlo a collaborare, inscenano finte esecuzioni. Portano dei passeggeri tra cucina e bagno, tirano la tendina e sparano senza ucciderli davvero, tanto che poi li riportano al loro posto. Ma, dopo le finte esecuzioni, ne arriva una vera: prendono Domenico Ippoliti, gli sparano un colpo al cuore e uno in testa, poi buttano il corpo sulla pista, così che tutti lo vedano, e rilasciano una dichiarazione: “Noi amiamo la libertà, specialmente la libertà della Palestina e vogliamo dirlo al mondo intero. Ci sono donne sull’aereo. E anche bambini. Se volete rivederli vivi, portate qui gli ambasciatori arabi e fatelo in fretta.”
Il ministro degli Esteri greco, Spyridon Tetenes, fa chiamare gli ambasciatori, manda il camion a rifornire l’aereo e ordina al carcere di Atene di prelevare i due prigionieri, che però rifiutano di salire sull’aereo perché appartengono a una fazione diversa. Alle 8:35, il 737 della Lufthansa decolla di nuovo, diretto in Kuwait. A bordo restano in 17. Ciro Strino viene fatto scendere. Puntano inizialmente Beirut, ma il ministro Fuad Ghosn blocca le piste con ogni veicolo a disposizione. I terroristi chiedono l’autorizzazione ad atterrare per tre volte, ma gli viene negata, a quel punto decidono di proseguire per Damasco, dove atterrano alle 11:50.
Fanno di nuovo rifornimento di viveri e di carburante mentre gli ambasciatori italiani e siriani cercano senza successo di convincerli a rilasciare gli ostaggi. Ripartono alle 14:14 e atterrano all’aeroporto di Kuwait City alle 15:10. Lì, il ministro dell’Interno e quello della Difesa kuwaitiano, insieme allo sceicco Saad al-Abdullah, chiedono ai dirottatori di uscire disarmati e liberare gli ostaggi; cosa che accade effettivamente alle 18:20 del 18 dicembre.
I cinque terroristi a quel punto vengono arrestati e condotti in una base aerea nel segreto più assoluto. La loro identità non viene mai rivelata all’Italia. Rosario Priore, il magistrato a cui furono affidate le indagini, nel suo libro La strage dimenticata, scritto a quattro mani con Gabriele Paradisi, racconta che furono costretti a emettere un mandato di cattura contro ignoti e una richiesta d’estradizione in Kuwait, che rispose che i terroristi erano stati trasferiti in un altro Stato. Quale fosse questo Stato non è mai stato reso noto; è solo dall’ultima versione del memoriale di Moro che sappiamo come i terroristi palestinesi venissero arrestati e rilasciati in segreto, per quel dibattuto patto segreto che fu il lodo Moro.
Nella lettera privata spedita a Flaminio Piccolo, Aldo Moro scrive: “Non una, ma più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti e anche condannati allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in essere se fosse continuata la detenzione.”
Della strage di Fiumicino restano i morti, la medaglia d’oro del finanziere Zara e le fotografie di Elio Vergati, unico italiano ad avere ricevuto un premio Pulitzer. L’attentato venne condannato da tutti i Paesi arabi e dallo stesso Arafat. Settembre nero verrà smantellato dal Mossad che ucciderà i membri uno a uno, inseguendoli in giro per il mondo, nell’operazione “Wrath of God”. Se tra loro c’erano alcuni dei dirottatori di Fiumicino, però, non si è mai saputo.