All’inizio del Ventesimo secolo, i patrioti italiani cercavano di superare con non poche difficoltà un profondo senso di inferiorità. Sin dal 1861, quando Giuseppe Garibaldi unificò il Paese, politici e intellettuali vaticinavano infatti l’arrivo di una nuova gloriosa era. Dopo decenni, però, i risultati economici, diplomatici e culturali sperati erano ancora lontani dall’essere raggiunti. I nazionalisti sapevano di aver bisogno di un nuovo mito per aumentare la sicurezza e la coesione dei cittadini, qualcosa che facesse sembrare l’Italia forte e competitiva a livello mondiale. Così furono messe sul tavolo diverse possibilità. Dopo molto discutere, la maggior parte degli statisti arrivò a concentrarsi però sull’antica Roma. L’eredità classica, sebbene piuttosto lontana, costituiva il momento in cui la penisola italiana era stata realmente al centro del mondo. Con questa storia ben in mente decisero quindi di motivare i loro concittadini attraverso un nuovo proposito: rendere di nuovo grande l’Italia.
Come tutto il colonialismo moderno, anche la propaganda italiana aveva sfumature razziste. In effetti, uno dei motivi principali per cui gli intellettuali del Paese ci tenevano tanto ad apparire come un gruppo omogeneo, ironia della sorte, aveva origine proprio nella stessa posizione geografica della loro nazione. Per generazioni, persone di entrambe le sponde del Mediterraneo, da Tangeri a Istanbul, si erano mescolate tra loro, al punto che gli abitanti della penisola italiana non potevano sentirsi certi della loro “purezza” etnica. In tutta risposta, negli anni Venti, filosofi come Julius Evola avanzarono teorie esoteriche su una “super-razza” ariana, una sorta di nobiltà spirituale apparentemente sempre esistita in Italia fin dall’epoca romana, che dava ai “veri” italiani il diritto morale di dominare i non europei. Il mescolio confuso di questi filoni di pensiero sostenne la nascita dell’ideologia fascista.
Quando Benito Mussolini salì al potere, nel 1922, lo fece utilizzando l’iconografia romana – l’aquila, i fasci e un fittizio saluto “antico” – in modo ancora più aggressivo di quanto facessero altri suoi predecessori o intellettuali come Gabriele D’Annunzio. Allo stesso tempo, Mussolini sostenne in maniera opportunistica l’allora fiorente campo del razzismo scientifico, incoraggiando antropologi ed eugenetisti – come Alfredo Niceforo e Sabato Visco – a produrre prove “empiriche” per quella che definì la “vitalità innata” della razza italiana.
Il mito di una Roma bianca è così radicato nell’immaginario occidentale che ha trovato sostenitori anche fuori dall’Europa. Tutte le maggiori potenze europee fecero paragoni simili, fondati sull’antica Roma. La Gran Bretagna, ad esempio, alla guida dell’opposizione alle forze dell’Asse nella seconda guerra mondiale, aveva a lungo fatto appello a questo tipo di simbolismo per giustificare la propria espansione imperiale. Ed è noto quanto anche i padri fondatori degli Stati Uniti tenessero in grande considerazione l’antica repubblica.
È importante riconoscere che, mentre ci sono grandi differenze tra il fascismo italiano, il colonialismo britannico e i gruppi schiavisti negli Stati Uniti, tutti hanno contribuito a un’idea immaginifica sulla bianchezza di Roma nell’immaginario comune. Naturalmente, altre figure di alto profilo di questi Paesi, da Antonio Gramsci a Franklin D. Roosevelt, hanno lavorato in modi diversi per respingere questa narrazione falsata. Qui, tuttavia, voglio concentrarmi su due argomenti meno noti al grande pubblico che oggi sono invece particolarmente rilevanti: in primo luogo che i romani non intendevano la razza nel senso moderno del termine. In secondo luogo – ma è un punto altrettanto importante – nel loro impero, a differenza di quanto succede ancora oggi molto spesso, le persone non bianche hanno svolto in realtà ruoli di primaria importanza.
Prima di passare al mondo antico, è necessario però affrontare alcuni sospetti persistenti, secondo i quali la razza sarebbe un concetto scientifico legittimo. Numerosi studi hanno dimostrato che la stragrande maggioranza degli alleli genetici umani è condivisa dall’intera specie e che, anche tra i gruppi che abitualmente chiamiamo “razze”, la variazione è troppo grande per identificare categorie distintive e stabili. A parte questo avvertimento, il mio interesse principale qui non è tanto la biologia etnica, ma il modo in cui immaginiamo il concetto di “razza” attraverso le narrazioni della bianchezza. La pelle bianca è una caratteristica fisica teoricamente neutra, ma l’idea di bianchezza, invece, ha forti connotazioni culturali: la bianchezza era, come hanno dimostrato, sia una spiegazione che una condizione della supremazia europea.
I romani, attraverso il latino, furono i progenitori della stessa cultura occidentale, ma in quanto membri di un’antica società mediterranea non avevano alcuna nozione di bianchezza. In primis perché semplicemente non erano, o non erano soltanto, ciò che oggi definiremmo “bianchi”. Oggi, grazie a una ricerca della Stanford University pubblicata nel 2019, abbiamo una storia genetica completa di Roma che mostra come, nel I secolo d.C., la città-stato fosse popolata da molti popoli di discendenza del Vicino Oriente e del Nord Africa.
Fonti archeologiche e letterarie aggiungono ulteriori sfumature a questo quadro. Lo stesso Virgilio scrisse nell’Eneide che i padri fondatori di Roma non erano europei ma troiani, un mix di anatolici e altri popoli asiatici e mediorientali che attraversarono il mare per creare una nuova cosmopoli. Inoltre, i resti di case, templi e altri manufatti scovati in Sicilia e in meridione mostrano chiaramente come i greci asiatici e i fenici del Medio Oriente si stessero integrando con le tribù italiche già nel VII secolo a.C.
Alcuni studiosi, come dicevamo, hanno ipotizzato che i romani non avessero alcun concetto di razza intesa come “categoria”, ma non è del tutto corretto. Avevano infatti diverse parole, tra cui “ethnos” (di derivazione greca), “genos” e “natio”, con cui distinguevano i popoli secondo il ceppo familiare, e che, a volte, si sovrapponevano al concetto di etnia. Il loro grande principio organizzativo, tuttavia, era puramente geografico. I romani divisero le tribù dell’odierna Francia e Germania in gruppi che comprendevano i galli, gli aquitani e i celti; e distinsero a loro volta questi gruppi dagli iberi e dai celtiberi. Per quanto riguarda l’Africa, poi, spartirono il continente per definire distinzioni tra egiziani, berberi algerini, che chiamavano mauri, e fenici punici.
Grazie ai loro viaggi e alla conoscenza di tante popolazioni, i romani cercavano di ipotizzare spiegazioni alle diverse abitudini e ai comportamenti ricorrenti che riscontravano nelle varie culture che avevano inglobato nel loro impero, o con cui erano in contatto per scambi commerciali. Non esistendo né il metodo scientifico né la psicologia sociale o le neuroscienze le motivazioni che si sforzavano di avanzare oggi appaiono ridicole, se non in alcuni casi, razziste. Spesso trovavano ragioni legate alle caratteristiche meteorologiche delle varie aree. Vitruvio, ad esempio, notava che gli africani fossero sani e intelligenti, ma pensava che il sole, prosciugando loro il sangue, li rendesse codardi. Al contrario, descriveva i tedeschi come persone ottuse ma forti e con un flusso sanguigno sano, temprate dal freddo. Fondamentalmente, però, non esisteva una gerarchia in cui i “bianchi” venivano considerati come “al di sopra” delle persone nere e non ci sono prove che le istituzioni romane abbiano fatto alcun tentativo di sviluppare uno di questi giudizi positivi e negativi in un sistema, per non parlare di una scienza con una pretesa di oggettività.
Molte persone, consapevolmente o meno, non sono riuscite a cogliere l’importanza di queste distinzioni. Nel Diciottesimo secolo, lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann identificò l’Apollo del Belvedere, una scultura del Secondo secolo, come un paradigma della bellezza classica, cosa che attribuì almeno in parte al suo candore. Come altri fino a oggi, anche lui commise l’errore di presumere che l’abbondanza di statue di marmo che rimangono dall’antichità fossero la prova che le popolazioni romane preferissero i corpi bianchi a quelli neri. Ma questa conclusione è errata per molte ragioni. In primo luogo perché ci sono molti esempi di statue realizzate in marmo grigio, rosa e verde, ma soprattutto perché fonti letterarie testimoniano che quasi tutte queste opere fossero originariamente policrome, dipinte in blu, rosso e giallo. Alcuni critici hanno ribadito che comunque la maggior parte delle statue dimostrava una “fisionomia europea”. Lasciando da parte la domanda su cosa ciò possa effettivamente significare, possiamo riscontrare però da altre forme d’arte, come affreschi e mosaici, che le idee romane di bellezza non fossero esclusivamente bianche.
È vero che potrebbero non esserci arrivate prove sul fatto che i romani africani subissero una discriminazione basata sul colore della loro pelle. Quello che sappiamo, però, è che proprio come gli inglesi e i tedeschi queste persone hanno lottato per non essere considerate “provinciali”. Mentre l’élite imperiale di Roma era multietnica, la classe dirigente era dominata da famiglie patrizie che rivendicavano antenati della nobiltà fondatrice. Ciò rese difficile per i cittadini nati in territori più lontani salire di rango, ma tuttavia non impossibile. Ci sono molti esempi di individui non bianchi che raggiunsero posizioni rispettabili. Uno dei modi più comuni per riuscirci era la carriera militare. Anche la letteratura e la filosofia hanno fornito percorsi grazie ai quali era possibile avere successo, come dimostrano le storie di Terenzio e Apuleio.
L’ascesa di Settimio Severo fu forse l’esempio più lampante di una persona che oggi definiremmo un “romano Nero” che raggiunse i livelli più alti del potere. Nato nel 145 d.C. a Leptis Magna, in quella che oggi è la Libia, Settimio si trasferì nella capitale durante l’adolescenza e si fece strada lentamente tra i ranghi politici, contrastando la corruzione del Senato. Nel 193 d.C., dopo essersi assicurato un notevole sostegno pubblico, ordì un riuscito colpo di stato militare e prese il potere come imperatore. Tuttavia, la cosa più interessante di Settimio, dal nostro punto di vista, è il modo in cui minimizzò e al tempo stesso celebrò la sua identità africana. Da un lato, infatti, l’imperatore era ansioso di non apparire “provinciale” e lavorò quindi duramente per mascherare il suo accento punico. Dall’altro, Settimio era però molto orgoglioso delle sue radici. Il suo più stretto consigliere, Plautiano, era non a caso un amico proveniente dalla Libia e per sostituire la guardia pretoriana in Italia, istituì un nuovo corpo imperiale pieno di soldati punici. Settimio investì ingenti somme di denaro a Leptis Magna durante il suo regno e commissionò sia un arco di trionfo che un importante foro per la città. Alla fine del Secondo secolo, la sua città natale – un tempo insignificante – divenne insieme ad Alessandria una delle metropoli più ricche dell’Impero. L’aspetto più notevole della storia severiana, tuttavia, non sono tanto i successi individuali di Settimio, quanto ciò che la sua dinastia ci dice sulla politica della razza. Il figlio maggiore di Settimio, Caracalla, fu, secondo la maggior parte dei resoconti, un sovrano povero, vendicativo e intemperante. Tuttavia, fu lui che nel 212 d.C. approvò una delle opere più progressiste della legislazione romana, la famosa Costituzione Antonina, che dichiarava che tutti i popoli liberi residenti nei territori imperiali avessero diritto alla piena cittadinanza. Gli storici hanno spesso cercato di minimizzare l’importanza di questa misura, sostenendo che Caracalla introdusse la legislazione solo per aumentare le entrate fiscali a proprio vantaggio. Eppure le motivazioni economiche non esauriscono la rilevanza di questa azione. Resta il fatto che, nel III secolo d.C., una neonata dinastia unì con successo tutti i popoli dell’Impero, dalla Germania alla Siria, nello stesso corpo politico.
Non è difficile comprendere perché le moderne potenze coloniali abbiano guardato a Roma per trarre ispirazione. La repubblica e l’impero erano entrambe società patriarcali che, a volte, legittimavano l’espansionismo militare. E sebbene fossero in un certo senso cosmopoliti, erano anche xenofobi e intolleranti verso le altre culture che si proponevano di governare secondo le proprie regole. Tuttavia, come abbiamo visto, l’idea che Roma sia sempre stata bianca è insostenibile su quasi tutti i fronti. Sfortunatamente, fino ad oggi, queste evidenze non hanno impedito ai gruppi di estrema destra di riprodurre una versione distorta e razzista del passato classico a proprio vantaggio. Nel 2016, i membri di Identity Evropa (in seguito chiamato American Identity Movement), un’organizzazione neonazista ormai sciolta, hanno iniziato a distribuire statue classiche come avatar nei loro forum, e da allora questo tropo è diventato un segno distintivo delle comunità suprematiste bianche.
Nel frattempo, Richard Spencer, un teorico cospirazionista statunitense, ha apertamente chiesto la formazione di un nuovo “stato etnico” che, sostiene contrariamente a qualsiasi evidenza, rappresenterebbe una “ricostituzione dell’Impero romano”. I suoi sostenitori includono membri del gruppo sciovinista Proud Boys e gli incel un tempo associati al forum di Reddit chiamato Red Pill. Come ha sottolineato la classicista Donna Zuckerberg nel 2018, questi gruppi non stanno solo scherzando: stanno “[trasformando] il mondo antico in un meme”, per proiettare la loro ideologia nel mondo.
Potrebbe essere ragionevole limitarsi a ignorare questa propaganda se non fosse sempre più influente anche offline. Nel 2017, infatti, quando gli attivisti di estrema destra hanno marciato a Charlottesville, lo hanno fatto dietro le immagini di Adriano e Marco Aurelio, su cui hanno sovrapposto frasi come “Proteggi il tuo patrimonio” e “Ogni mese è il mese della storia bianca”. Molti dei rivoltosi che hanno preso d’assalto il Campidoglio a Washington DC all’inizio di quest’anno indossavano magliette con l’aquila d’oro di Roma, oltre a tatuaggi con le lettere SPQR, il motto dell’antica Repubblica. Un manifestante ha anche partecipato alla manifestazione con un cartello in cui il volto di Donald Trump era stato photoshoppato sul volto di Maximus Decimus Meridius, l’eroe immaginario del film Il gladiatore. Insomma, la qualunque.
Dagli anni Ottanta e dalla pubblicazione della storia seminale in tre volumi di Martin Bernal, Black Athena (1987-2006), i classicisti hanno cercato di decolonizzare la loro disciplina per prevenire simili appropriazioni indebite. Oggi si sente di nuovo l’urgenza di questa discussione. Ovviamente è necessario che all’interno delle università si apra una discussione su come cambiare le cose e trasformare di conseguenza il canone. Ma basta guardare gli schermi della TV per vedere dove sarebbe utile che le cose cambiassero. Pensiamo, ad esempio, a quanto sono bianche le nostre idee cinematografiche di Roma. Negli ultimi due decenni, un numero sempre crescente di artisti ha lavorato per affrontare questo squilibrio e alcuni hanno persino accolto l’invito a “riscoprire” le dimenticate frontiere cosmopolite dell’Impero romano.
Il significato di Roma sembra cambiare a ogni generazione, e la nostra non fa eccezione. Eppure, stavolta, ci si offre un’opportunità oltre che una minaccia. Mentre i classicisti affrontano l’urgente questione su come riscattare la loro disciplina dal pregiudizio coloniale, gli altri intellettuali hanno l’occasione senza precedenti di aiutare il grande pubblico ad accogliere un’idea di Roma più diversificata, realistica e interessante rispetto alla fantasia monocromatica che ha dominato il nostro recente passato, portando alle derive che tutti ben conosciamo. Mentre i suprematisti bianchi prendono d’assalto i centri del governo occidentale, dobbiamo renderci conto quanto questo non sia solo un problema di nicchia, ma abbia invece un ruolo fondamentale nel rafforzamento della democrazia.
Questo articolo è stato tradotto da Aeon.