Chi è nato tra gli anni Ottanta e Novanta ha probabilmente potuto sperimentare più di ogni altra generazione la rivoluzione digitale e il passaggio tra l’analogico e il digitale, dalla connessione a 16k e il 5G. La rete ha per certi versi accelerato la nostra esistenza, o forse l’ha semplicemente stipata all’inverosimile di materiali e informazioni che non sempre abbiamo la capacità di decodificare, capire, strutturare. Se da un lato la nostra capacità di emozionarci è stata sempre più stimolata, fino a raggiungere in certi casi una sorta di ottundimento, è anche vero che alcune opere con cui siamo entrati in contatto negli anni della nostra formazione psichica e identitaria ci sono rimaste, per forza di cose, più impresse di altre. Per me, ma lo fu anche per Ungaretti, è il caso di Roma città aperta, forse il più grande film di Roberto Rossellini, che oltre ad essere una delle opere più rappresentative del neorealismo segnò un vero e proprio spartiacque nella storia del cinema italiano e internazionale. Prodotto da un commerciante di lana e uscito in sala il 24 settembre del 1945, a guerra appena finita, è il primo film della “Trilogia della guerra antifascista” e ha impresso nell’immaginario collettivo una fotografia dell’occupazione nazista e della Resistenza nella capitale, riferendosi – pur non facendone mai volontariamente menzione – all’attentato partigiano di via Rasella e all’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Fu quella la prima volta che vidi Anna Magnani, in quella che è una delle sequenze più famose e toccanti della storia del cinema e che non credo potrò mai cancellare dalla mia mente, come nessuno che l’abbia vista: la sequenza dell’uccisione di Pina, ispirata alla vicenda di Teresa Gullace. Durante la scena – girata in un contesto di totale precarietà, in via Raimondo Montecuccoli, nel quartiere Prenestino-Labicano – Magnani cadde troppo presto rispetto a quanto era previsto, e si decise quindi di sfruttare oltre a quella frontale anche l’inquadratura laterale, in modo che la sequenza sembrasse più lunga. Questa scelta di montaggio obbligata finì per dare ancora più forza alla corsa di Pina verso il marito Francesco, che viene portato via dai tedeschi. Nel mondo del cinema ci sono attori che concentrano la loro interpretazione sull’espressività facciale, Magnani invece recitava con tutto il corpo, facendo diventare profondamente espressivo ogni gesto, veicolo di intenzione, azione ed emozione. Non a caso Pier Paolo Pasolini disse di lei: “Anna è romantica, vede la figura nel paesaggio”, e in questa sorta di magia Magnani era in grado di diventare parte dell’ambiente e al tempo stesso di emergere come simbolo di un’epoca, di un Paese, di un sentimento, di una città, di una caratteristica umana.
Vincitrice di innumerevoli riconoscimenti, e considerata unanimemente una delle più grandi attrici della storia del cinema, Magnani fu celebrata come un vero e proprio mito. A causa e grazie alla sua storia personale, infatti, aveva sviluppato un talento raro, capace di una forza interpretativa unica. Basti pensare a film come Mamma Roma, di Pasolini, Bellissima di Luchino Visconti, o La rosa tatuata, di Daniel Mann con Burt Lancaster, tratto dall’omonima pièce di Tennessee Williams, che nel 1956 le fece vincere, peraltro come prima interprete non anglofona, l’Oscar come miglior attrice protagonista. Ma Magnani era tutto fuorché un’icona, una diva, era una donna reale, potente, libera, senza paura, una personalità artistica come poche ne sono esistite, che aveva dovuto affrontare l’abbandono del padre prima e dalla madre poi e attraversare la tragedia della guerra, riuscendo a fortificare così la sua presenza. “Ho capito che non ero nata attrice,” disse, “Avevo solo deciso di diventarlo nella culla, tra una lacrima di troppo e una carezza di meno. Per tutta la vita ho urlato con tutta me stessa per questa lacrima, ho implorato questa carezza”, e in ogni sua interpretazione è proprio questo urlare che si sente, la tensione di questo strappo malamente rimarginato, l’insistenza di non darsi mai per vinta.
Quando nel 1927, a 19 anni, iniziò a frequentare la scuola d’arte drammatica sotto la guida di Silvio D’Amico, tutti capirono che l’accademia non poteva insegnarle molto di più di ciò che non aveva già imparato da sola. Magnani aveva già un carisma in grado di renderla indimenticabile, non recitava, ma viveva a pieno le parti che le venivano assegnate. Magnani infatti non si risparmia, dà tutto ciò che ha, mette in gioco tutto ciò che è perché è l’unica cosa su cui può puntare, sé stessa, e se sembra popolare e istintiva in realtà ha la sensibilità, la tecnica e l’intelligenza necessarie per indirizzare il suo intuito, la sua passione. Prima che riesca a ottenere un ruolo primario che le permetta di mostrare la sua potenza drammatica passano però quattordici anni. È Vittorio de Sica nel 1941 a offrirle questa occasione, in Teresa Venerdì, dove interpreterà Loletta Prima. L’anno dopo darà alla luce il suo primo e unico figlio, Luca, frutto della relazione con l’attore Massimo Serato, che l’abbandonò non appena lei gli disse di essere incinta. Magnani, dando ancora una volta prova del suo carattere – che inevitabilmente oltre alla forza era composto anche da fragilità, traumi e debolezze – riuscì a far sì che il figlio avesse il suo cognome, proprio come aveva fatto sua la madre con lei, diventando così uno dei rari casi di genealogia matrilineare italiana che si protrasse per tre generazioni.
Fu nel 1945 che Magnani raggiunse il successo, proprio grazie a Roma città aperta, che diede anche inizio alla sua relazione con Roberto Rossellini. Eppure la sua vita sembra segnata dall’abbandono, come una sorta di stigma. Nel 1948 interpreta infatti il suo ultimo film con il regista, che poco dopo la lascerà per Ingrid Bergman: L’amore. La pellicola è divisa in due atti e il primo, quasi premonitore, è il lungo monologo telefonico di una donna abbandonata dal compagno, ispirato all’atto unico di Jean Cocteau La voce umana; il secondo è invece la storia di una povera donna che si concede a un giovane pastore (Federico Fellini, con cui creò un profondo sodalizio artistico) credendolo nientemeno che San Giuseppe. L’anno dopo recitò poi in Vulcano, di William Dieterle, sull’isola a fianco di Stromboli, dove Rossellini stava girando l’omonimo, immenso film, insieme alla sua nuova compagna. Negli anni successivi, ormai affermata, Magnani collaborò poi con i più grandi nomi del cinema dell’epoca, oltre ai già citati: Cesare Zavattini, Mario Camerini, Walter Chiari, Francesco Rosi (all’epoca debuttante e aiuto regia del suo ex marito Goffredo Alessandrini), Mario Monicelli, Totò, Marcello Mastroianni, Jean Renoir, Anthony Quinn, Marlon Brando, Sidney Lumet, George Cukor e Franco Zeffirelli, solo per citarne alcuni.
Magnani era un enigma, ancor più nell’epoca in cui è vissuta, una persona in grado di contenere e manifestare energie maschili e femminili, che non accettava di sottomettersi a nessuno, se non a sé stessa, e al tempo stesso anelava qualcuno che fosse in grado di dominarla, tenerle testa, un suo pari. Misteriosa e diretta al tempo stesso, nonostante la sua grande carriera e gli innumerevoli premi vinti, si disse per sempre infelice. Quasi avesse desiderato qualcuno che invece di abbandonarla le fosse piuttosto restato accanto punendola, come succedeva a tantissime donne vittime di violenza domestica, facendole espiare in qualche modo l’incomprensibile – e inesistente – peccato per cui si era meritata una vita tanto faticosa. La punizione e il giogo, nei momenti di disperazione, le apparivano pur sempre come qualcosa in più del nulla che a volte ci spalanca davanti la libertà e l’indipendenza, e forse le avrebbero permesso di dare un nome e un volto, una matericità, ai suoi fantasmi. Essere parte di un mondo arcaico, violento, popolare, le avrebbe consentito di avere un suo posto, di soggiacere a regole brutali e non scritte. Invece, essere diventata Anna Magnani la obbligava in qualsiasi istante a essere l’unica padrona di sé stessa, l’unica responsabile delle sue azioni, oltre che sotto i riflettori del mondo, sola. Questi due desideri a tratti deliranti, provocatori e quasi contraddittori confluivano poi nella sua disperazione sguaiata, nutrivano le sue interpretazioni, l’hanno fatta diventare ciò che è stata. Un’attrice immensa e una donna indescrivibile, popolata da energie opposte, agoniste e antagoniste.
La sua ultima apparizione risale al 1972 in un cammeo fortemente voluto da Fellini nel film Roma. È notte, Anna Magnani, nei panni di se stessa, passa davanti a Santa Maria in Trastevere e cammina poi lungo un vicolo deserto verso casa. Si sente solo il suono dei suoi passi. La voce fuori campo del narratore descrive la scena in terza persona, come fosse il commento di un documentario. Dice che Magnani potrebbe essere anche un po’ il simbolo della città, ma a quel punto lei si volta e gli risponde, non guarda in camera, ma oltre, con gli occhi vivi, lucenti, spiritati: “Che so’ io?!”. La voce di Fellini, sospinta dal brulichio e dall’affastellarsi stesso delle parole d’encomio su Roma e su Magnani, come se niente fosse, continua a parlare e a straparlare, in una sorta di buffo brain storming che da retorico si fa in un istante ironico fino a crollare sotto l’influenza della complicità e della stanchezza, come spesso succede intorno ai tavoli degli sceneggiatori. “A Federì, va’ a dormì, va’”, gli dice Magnani. “Posso farti una domanda?”, abbozza lui come ultimo appiglio. Ma riceve un bonario e rapido congedo: “No, nun me fido. Ciao. Buonanotte”. E gli sbatte la porta in faccia. Roma non si lascia definire, raccontare, né lodare. La capitale ora è cheta, silenziosa e deserta. I vicoli dell’inizio degli anni Settanta sono uguali ancora oggi. Fellini sofferma la camera da presa su un muro ricoperto di manifesti in cui si legge: “Pulizia, Ordine, Moralità”.
Anna Magnani morì l’anno dopo, assistita dal figlio e da Roberto Rossellini, che nel frattempo le si era riavvicinato. Proprio come Teresa Gullace, che divenne simbolo della lotta partigiana, all’apparenza così fragile e tuttavia così determinata da sfidare qualsiasi pericolo e avversità, in nome dei sentimenti più profondi, Magnani incarnò la forza immensa delle vittime che resistono e si battono, che si ribellano alla vita e non accettano di piegare il capo e stare zitte, tracciando con fierezza e quasi un alone di follia una strada rivoluzionaria, incarnando cioè i valori più profondi del termine Resistenza.