Leggere autori russi, come la poeta Anna Achmàtova, non rafforza Putin ma aiuta a criticarlo - THE VISION
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Nelle ultime due settimane, a partire dall’invasione Russa dell’Ucraina e dai fatti drammatici che ha scatenato, in Italia si sta discutendo molto su che attitudine mantenere nei confronti della cultura russa, o meglio, di lingua russa, e soprattutto dei suoi prodotti. Tra le sanzioni che sono state messe in atto nei confronti della superpotenza rientrano senza dubbio anche i vari sbarramenti per quanto riguarda importanti manifestazioni culturali, che per forza di cose, risultano essere anche vetrine politiche. Un conto, però, è ritirare un invito istituzionale a un determinato Paese, cosa che appare a tutti gli effetti coerente, un altro conto è sabotare in qualche modo la produzione artistica di elevato valore sviluppata in seno a un certo territorio, che nel caso della Russia è ben lungi dall’essere schiava e megafono del sistema di potere. Basti pensare che la maggior parte degli artisti e degli intellettuali di valore furono infatti duramente perseguitati dal regime sovietivo. Leggerli oggi non significa certo rafforzare l’influenza degli organi di potere russo, quanto sviluppare un pensiero critico che ci può permettere di mettere in discussione una certa realtà e un certo impianto di potere. Se i grandi scrittori sono coloro in grado di portare alla luce le ombre e le criticità del reale – e i russofoni hanno fatto la storia della letteratura a pieno titolo – la poeta Anna Achmàtova rientra altrettanto a pieno titolo tra questi.

Anna Andreevna Achmàtova è stata una delle più grandi poete in lingua russa del Novecento, anche se lei preferiva essere definita al maschile. Anche se non si conoscono le sue poesie, è difficile non avere presente il suo volto inconfondibile. Impossibile che non vi sia rimasto impresso il suo profilo. Il naso piccolo e spezzato, gli occhi intensi e intrisi di tristezza, la bocca severa anche quando increspata da un sorriso. Famoso il dipinto che le fece nel 1914 Nathan Altman – in cui appare vestita dei colori di quella che quattro anni dopo diventerà la bandiera ucraina, giallo e blu –, ma anche i disegni in cui Amedeo Modigliani la ritrasse a memoria, dopo averla incontrata nel 1912 a Parigi: una semplice linea nera sullo sfondo bianco.

Schizzo di Amedeo Modigliani che ritrae Anna Achmatova

Nata nel 1889 a Odessa, figlia del funzionario pubblico Andrej Antonovič Gorenko e della nobile Inna Erazmovna Stogova, inizia a scrivere poesie a quindici anni, e nel 1910 sposa il poeta, critico letterario e viaggiatore Nikolaj Gumilëv, dal quale avrà il suo unico figlio, Lev Nikolayevich Gumilyov. Nel 1911 Achmàtova entrò a far parte insieme a Osip Ėmil’evič Mandel’štam della “Gilda dei poeti”, che rappresentava il movimento acmeista fondato e guidato dal marito, e a cui prese parte anche Vladimir Nabokov. Il movimento, che fu chiamato anche adamismo, si contrapponeva alle teorie mistiche e ridimensionava la pretesa di superiorità spirituale dei poeti simbolisti. Gumilëv intendeva ribadire la necessità di immagini poetiche chiare e di un’espressione moderna e quotidiana, mentre Gorodeckij, un altro membro, lo definì una “lotta per questo mondo sonoro, multicolore, mondo della forma, del peso e del tempo, lotta per il nostro pianeta la terra”.

La prima opera compiuta di Achmàtova, Sera, risale al 1912, a cui due anni dopo seguì Rosario, che la rese celebre e sancì il suo grande talento. Queste prime due opere appaiono intime e delicate, mentre quelle successive saranno profondamente nostalgiche, segnate dalla dura esperienza biografica dell’autrice e generate dal movimento continuo della mente e dei sentimenti verso il ricordo del passato, per portarne almeno un pezzo a rendere sopportabile il presente. Nel 1917 Achmàtova pubblica Lo stormo bianco e divorzia da Gumilëv, partito volontario per il fronte. Nel 1918 si risposa con il poeta, traduttore e assiriologo Vladimir Šilejko, ma a causa della sua gelosia patologica la loro unione terminerà nel 1921, anno di pubblicazione di Piantaggine. Gumilëv, che nel frattempo si era anch’esso risposato, nonostante il suo dichiarato anticomunismo tornerà in Russia nel 1918 dicendo: “Ho cacciato i leoni in Africa e non credo che i bolscevichi siano molto più pericolosi”. Ad agosto del 1921 verrà arrestato con l’accusa di aver preso parte a un complotto sovversivo monarchico e poco dopo verrà fucilato insieme ad altri sessanta compagni.

Vladimir Ilyich Ulyanov Lenin in Piazza Rossa, 25 maggio 1919

Essendo considerata prossima a un controrivoluzionario (in quanto sua ex-moglie) e non essendosi mai espressa, fra il 1917 e il 1921, chiaramente in favore della Rivoluzione, pur scegliendo di non emigrare, Achmàtova si ritrova sola, in una Russia che non la condanna ufficialmente, ma che le è senza ombra di dubbio ostile. Nel 1925 intreccia una nuova e faticosa relazione con il critico d’arte Nikolàj Punin, caro amico di famiglia, che conosceva dai tempi degli studi a Carskoe Selo. A causa della crisi degli alloggi si trasferisce nell’allora Leningrado, dove insieme al figlio convive, nella casa sulla Fontanka – l’affluente del fiume Neva che attraversa la città – con Punin, la sua ex moglie e la loro figlia, in un contesto innegabilmente difficile. Casa loro diventa però un importante centro di ritrovo per gli intellettuali della città, anche se Achmàtova interrompe la sua produzione poetica fino alla fine degli anni Trenta.

All’alba delle grandi purghe staliniane, con l’apertura dei gulag e l’inizio delle deportazioni, Achmàtova interrompe la sua relazione con Punin, pur salvandogli la vita dopo il suo arresto scrivendo una petizione a Stalin. Il 13 marzo del 1938, però, anche suo figlio viene arrestato e condannato a morte, a causa del cognome paterno (condanna che verrà poi convertita in deportazione). Achmàtova, insieme a molte altre madri russe, si reca ogni giorno alle carceri di Leningrado per avere sue notizie. Da qui prende forma quella che è diventata la sua opera più nota, il Requiem che le sue più care amiche – tra cui alcune che si impegnarono a memorizzarlo, essendo certe dell’intolleranza del governo verso quel genere di composizione – che vide la luce a Monaco solo nel 1963 e in Urss nel 1987. Ricorda la poeta Lidija Čukovskaja: “Anche Anna Andreevna, quando veniva a trovarmi, mi leggeva versi di Requiem in un sussurro, ma a casa sua, alla casa sulla Fontanka, non si risolveva neppure a sussurrare; d’un tratto, nel bel mezzo del discorso, si interrompeva e, indicandomi con gli occhi il soffitto e le pareti, prendeva un pezzetto di carta e una matita; poi diceva ad alta voce qualcosa di molto frivolo: ‘Volete del tè?’, oppure: ‘Come siete abbronzata!’, scriveva velocemente fino a riempire il foglietto e me lo porgeva. Io leggevo i versi e, quando li avevo impressi nella memoria, glieli restituivo in silenzio. ‘L’autunno è venuto così presto’ diceva Anna Andreevna ad alta voce e, acceso un fiammifero, bruciava il foglietto in un posacenere. Era un rito: le mani, il fiammifero, il posacenere – un rito splendido e doloroso”.

Iosif Stalin

L’Unione Sovietica ai tempi di Stalin

Nel 1940, con le raccolte Il salice e Da sei libri, dalle quali emerge la sofferenza nata dalla costante ricerca disattesa della bontà degli uomini, Achmàtova riuscirà a rompere il silenzio a cui la censura l’aveva costretta per più di vent’anni. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale scrive poi Nell’anno quaranta. Nel 1941 Ahmatova incontra un’altra grande poeta fortemente osteggiata dal regime, Marina Cvetaeva. Il poemetto Lungo tutta la Terra risale a questo periodo. Nel 1941 la Germania invade la Russia e Stalin senza pudore sfrutta tutti quei nomi che, da tempo in disgrazia, potevano tornare utili: Ahmàtova parla allora alla radio per riunire il popolo russo contro la minaccia nazista. La composizione Poema senza eroe si delinea proprio a partire dal 1942, ma la sua lavorazione continua fino al 1962, e vede Achmàtova conciliare l’intimismo con una più ampia e drammatica visione della realtà e della Storia. Nel frattempo il nemico avanza; Anna viene evacuata, insieme con altri intellettuali, da Leningrado a Tashkent, in Uzbekistan, dove scrive Luna allo zenit. Il tema centrale della sua produzione poetica diventa la guerra. Nel 1944 torna a Leningrado, nella casa sulla Fontanka, e lo stesso anno il figlio viene liberato perché costretto ad arruolarsi nell’Armata Rossa.

La liberazione di Stalingrado, 1943-44

In questo periodo Achmàtova riprende a pubblicare su diverse riviste, ma la pace è breve. Il 23 novembre del 1945, alle tre del pomeriggio incontra in una tetra stanza di Leningrado il diplomatico, filosofo e politologo di origine lettone ma naturalizzato britannico Isaiah Berlin, uno dei massimi teorici del pensiero liberale contemporaneo. È l’inizio una straordinaria storia d’amore. L’incontro, durato solo un giorno e una notte, è destinato a lasciare un segno indelebile nelle loro vite. Dopo quella sera – resa pubblica dal Randolph Churchill, il figlio giornalista di Winston – Achmàtova diventerà uno dei principali bersagli politici del regime stalinista e Berlin passerà a essere considerato dai sovietici come la “spia britannica”. Nel 1946 Achmàtova verrà espulsa dall’Unione degli scrittori Sovietici con l’accusa di “estetismo” e “disimpegno politico”. Risalgono a questo periodo anche le critiche rispetto alla sua opera di “pessimismo nevrotico, misticismo e culto per il passato” in relazione ai canoni della produzione culturale sovietica stabiliti da Andrej Aleksandrovič Ždanov.

Stalin e Ždanov ai funerali di Sergej Mironovič Kirov, 6 dicembre 1934

Punin, invece, viene arrestato di nuovo nel 1949 e accusato di attività antisovietiche, a causa di alcune sue dichiarazioni rispetto al fatto che secondo lui alcune centinaia di ritratti di Lenin tradissero una grande mancanza di gusto. Le sue famose lezioni all’Accademia d’Arte di Leningrado, in cui parlava di Rembrandt e degli impressionisti europei, furono viste dai comunisti come prova schiacciante della sua attività di propaganda antisovietica. Punin venne esiliato in Siberia, nel gulag di Vorkuta. Stavolta era impossibile aiutarlo: l’élite intellettuale di Leningrado era infatti stata duramente colpita dall’Affare di Leningrado e la maggior parte dei suoi esponenti era stata arrestata, uccisa o esiliata. Come se non bastasse, anche il figlio verrà di nuovo arrestato nel 1949, a causa di un fascicolo ad hoc pieno di false prove contro di lui. Achmàtova, ancora una volta, venne completamente isolata e fu costretta ad attraversare l’ennesimo lungo periodo di solitudine, che emergerà in Frantumi. Nel 1950, terrorizzata dal rischio che il figlio potesse essere ucciso, scrive su consiglio di amici quindici liriche dedicate a Stalin. E, molto probabilmente, fu proprio grazie a queste che Lev venne risparmiato e liberato tre anni dopo la morte del dittatore. Punin fu più sfortunato e morì nel gulag dove era stato deportato pochi mesi dopo la morte di Stalin.

Nel 1964, Achmàtova ricevette il permesso di lasciare la Russia per ricevere in Sicilia il premio “Etna – Taormina” e l’anno successivo la laurea honoris causa all’Università di Oxford. Anche le istituzioni culturali russe la riabilitano come una tra i più significativi poeti sovietici del secolo e nel 1965 uscì una sua nuova raccolta di poesie, La corsa del tempo, contenente fra l’altro le liriche degli ultimi anni e la prima parte del trittico Poema senza eroe, a cui lavorava da più di vent’anni. Il 5 maggio dell’anno dopo, già gravemente malata, Achmatova morirà per una crisi cardiaca.

Anna Achmetova durante l’assegnazione della laurea honoris causa, Università di Oxford, giugno 1965

Riprendendo la figura che emerge da una delle più belle poesie giovanili di Achmàtova (“Prego al raggio di finestra”), il critico Victor Borisovič Ŝklovskij paragonò la sua poesia giovanile a “un raggio di sole penetrato in una stanza buia: una lama di luce che illumina in maniera vivida uno spazio risicato”. Ahmàtova traccia infatti un esiguo sentiero con le sue parole, come filasse i suoi sentimenti, l’unico spazio che la situazione politica della terra in cui vive le permette di abitare autenticamente, essere se stessa. Lei resta, resiste esistendo, denunciando l’incapacità degli esseri umani di dirsi la verità, da cui scaturisce una sofferenza che non tende mai alla catarsi, ma si raccoglie in uno sguardo oggettivo, saldo, pure costantemente triste, inappagato. Una “donna famosa e abbandonata, forte e indifesa, la statua del dolore, della solitudine, della superbia e del coraggio”, come la definì Čukovskaja, dal “profilo dal naso aquilino disegnato con precisione da un’ombra azzurra sulla bianca parete di un carcere di transito”, che colpivano secondo lei con la stessa irrevocabile naturalezza dei ponti di Leningrado, Sant’Isacco, il Giardino d’Estate o i Lungoneva. Nella sua voce, grazie alle sue parole, la solitudine dialoga con l’assenza, con l’abbandono, dando forma alla sofferenza che sancisce il non poter sapere nulla dell’esistenza di chi si ama a causa dell’incubo generato dal potere.

La sua voce poetica porta su di sé i segni lasciati sul popolo russo – e poi sovietico – e sulla sua intelligencija, dalla rivoluzione bolscevica prima e dallo stalinismo poi. A differenza di molti altri intellettuali e artisti, nonostante le enormi violenze subite e il bavaglio alla sua espressività artistica, Achmàtova non abbandonerà mai la sua terra. E forse fu proprio questo stolido sentimento di appartenenza, in nome del quale si sopporta qualsiasi cosa, questo attaccamento viscerale a un territorio, a nutrire il discutibile nazionalismo del figlio, anch’esso duramente punito dalla cultura sovietica e pure fattosi voce di dogmi assurdi da sostenere, ancora una volta basati sul dominio e l’oppressione in nome di una presunta giusta causa. Come se la terra fosse un’entità politica e non gli esseri umani che la popolano; il genus loci una sorta di assoluto declinato entro confini circoscritti che guida lo spirito della civiltà di un singolo, determinato, luogo, fino alle più estreme conseguenze, calpestando tutti gli altri, senza accorgersi che siamo uguali.

Come fa notare la ricercatrice Sara Sermini sulla newsletter di Mis(s)conosciute: “La parola russa вместо si ripete spesso nei componimenti della poeta, col significato di ‘invece di’, ‘al posto di’, ‘in luogo di’, in alcuni dei titoli delle sue poesie: ‘In luogo di prefazione’, ‘In luogo di dedica’, ‘In luogo di nota in calce’. […] descrive un rimpiazzo, un riposizionamento anzitutto spaziale”. Achmàtova indica dunque in maniera molto definita un’assenza. Penso al cappotto di Punin che anche dopo la sua deportazione l’autrice lasciò sempre appeso all’appendiabiti e sta ancora lì, in quello che oggi è diventato un museo. La parola poetica si insinua in questo spazio rimasto vuoto, colma questa mancanza senza risolverla, ma la trasforma come l’oro fuso che rammenda le crepe nella ceramica giapponese. Al tempo stesso si crea un tensore con l’avverbio “lì”, che indica un luogo specifico, qualcosa di estremamente preciso, identificabile e dicibile. Achmatova, forse più di tutti, è stata in grado di dire il silenzio e al tempo stesso dar voce all’assurdo – della violenza, della guerra, dell’abbandono – in modo da poterlo affrontare.

Courtesy foto in copertina Klimbim

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