Nel 1971 l’Udi, Unione donne italiane, picchettò ogni fabbrica di Roma in cui la forza lavoro era prevalentemente femminile consegnando a ciascuna operaia una cartolina. Su un lato c’era una fotografia di una donna nera con i capelli afro, sull’altro un indirizzo: onorevole Moro, ministro degli Esteri. Le volontarie andarono in diverse fabbriche romane e riuscirono a distribuire e a far spedire alle lavoratrici novemila cartoline. La donna ritratta nella foto era Angela Davis, docente universitaria, comunista, femminista radicale e attivista per i diritti civili che le manifestanti definivano la “nostra compagna nera”. Ad alcune l’Udi fece firmare un appello, che poi spedì al presidente del Consiglio Emilio Colombo. Dal 13 ottobre 1970, Davis era in arresto in California per il suo presunto coinvolgimento nel sequestro del giudice Harold Haley e di altre tre persone da parte del diciassettenne afroamericano Jonathan Jackson. Jackson, durante un processo contro tre militanti delle Pantere Nere, il gruppo rivoluzionario per i diritti dei neri, aveva fatto irruzione nell’aula con tre detenuti e sequestrato il giudice Haley. Le armi usate in quella circostanza risultavano intestate a Davis: l’attivista venne accusata di rapimento, cospirazione e omicidio e inserita nella lista dei ricercati più pericolosi degli Stati Uniti. Poteva esserle inflitta anche la pena di morte, dal momento che secondo la legge californiana la sanzione prevista per chi è complice di un reato è pari a quella di chi lo commette. Angela Davis diventò così un’icona e tutto il mondo progressista si spese per la sua liberazione: i Rolling Stones le dedicarono la canzone “Sweet Black Angel”, John Lennon e Yoko Ono scrissero per lei “Angela”. In Italia fu, curiosamente, il Quartetto Cetra a intitolarle un brano, “Angela”. Dopo un lungo processo Davis venne assolta per insufficienza di prove e scarcerata il 4 giugno 1972.
Il pensiero di Angela Davis è oggi più attuale che mai. Il suo libro più famoso, Donne razza e classe, uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1981 e recentemente riedito in Italia da Alegre, è un testo fondante del femminismo intersezionale, ovvero quella pratica femminista che riconosce i punti di contatto tra le oppressioni. L’idea di base di questo libro è evidente sin dal titolo: la questione femminile, quella razziale e quella di classe sono non solo collegate, ma anche imprescindibili l’una dall’altra. La riflessione di Davis arriva dopo quasi vent’anni di femminismo che oggi definiremmo “della seconda ondata”, che ebbe meriti indubbi per quanto riguarda la liberazione sociale e sessuale, ma anche un grosso limite. Infatti, il femminismo degli anni Sessanta e Settanta – spesso raccogliendo l’eredità delle suffragette che erano perlopiù donne colte, borghesi e benestanti – si rivolgeva soprattutto alle donne bianche di ceto medio, lasciando in disparte le afroamericane. Proprio in quegli stessi anni, mentre il movimento per i diritti civili cominciava a strutturarsi e a battersi per eliminare la segregazione razziale, le donne nere subivano una doppia esclusione: quella dal femminismo bianco che non si interessava ai diritti civili e quella dal movimento nero stesso, che spesso non considerava la questione di genere rilevante all’interno della lotta contro la supremazia bianca.
Se c’era qualcosa che il femminismo bianco sbagliava (e ancora sbaglia) era considerare il soggetto “donna” come un unicum di possibilità. Non tutte le donne hanno lo stesso vissuto, condividono le stesse lotte o subiscono lo stesso tipo di subordinazione. Il rischio opposto è la pretesa di combattere una cosa alla volta, ma una lotta separatista porta necessariamente con sé il rischio di lasciare indietro qualcosa o qualcuno. Davis propone allora di trovare le intersezioni tra ogni condizione, scavando nella storia con rigore per ricostruire le ragioni che hanno portato il verificarsi di certe oppressioni. Parte da ciò che per lei ha determinato lo scisma tra la questione di genere, di razza e di classe: lo schiavismo. Nel primo capitolo, “L’eredità della schiavitù. Principi per una nuova condizione femminile”, Davis ricostruisce il modo in cui la condizione delle schiave – che oltre agli orrori del lavoro coatto dovevano anche subire abusi sessuali – è stata sistematicamente ignorata dagli abolizionisti e successivamente dagli storici, persino da quelli afroamericani. Anche altri movimenti progressisti, come quello per il suffragio femminile (in questo caso organizzato e sostenuto principalmente dalle donne) erano intrisi di razzismo: gli uomini neri erano considerati dei privilegiati perché avevano ottenuto il diritto di voto prima delle donne bianche grazie al XV emendamento, mentre le donne nere non venivano nemmeno considerate.
Allo stesso problema si riconduce la figura dello “stupratore nero”, un’immagine pregiudiziale che combina sessismo e razzismo, protagonista del triste fenomeno dei linciaggi, che si protrassero fino agli anni Sessanta. Davis mostra come la quantità di queste esecuzioni sommarie fosse spropositata rispetto al numero di effettive violenze commesse da uomini neri ai danni di donne bianche. Per questo motivo furono le donne afroamericane, che invece subivano in continuazione aggressioni sessuali da parte di uomini bianchi, a guidare il movimento contro i linciaggi, denunciando che la violenza di genere veniva combattuta sulla base di un pregiudizio razzista e non per il bene delle donne.
Angela Davis è oggi considerata una delle maggiori teoriche del femminismo intersezionale: non basta essere antisessisti, antirazzisti, o anticlassisti, ma bisogna sforzarsi di prendere in considerazione tutti questi temi contemporaneamente. Donne, razza e classe dovrebbe tornare a essere il libro fondamentale che fu negli anni Ottanta, non solo per il femminismo ma in generale per tutta la sinistra. L’incapacità di affrontare insieme le tre questioni è emblematica nell’atteggiamento della sinistra italiana, da sempre campionessa nell’esclusione delle donne o fautrice di stereotipi e pregiudizi paternalistisulle persone nere. Non che il femminismo se la passi troppo bene, dal momento che tutti i bei discorsi sull’empowerment sono quasi sempre rivolti allo stesso pubblico di donne bianche e benestanti, al grido di “Be the CEO your parents wanted you to marry”.
Intanto nel Paese reale sono le donne immigrate a passarsela peggio, proprio perché donne, vittime di razzismo e di povertà. Le donne migranti sono quelle che ricorrono maggiormente agli aborti clandestini, perché spesso non sanno che in Italia l’Ivg è gratuita e legale (molte volte rischiando, oltre alla vita, anche una sanzione che può arrivare a 10mila euro, come successo a una donna nigeriana denunciata dall’ospedale a cui si è rivolta dopo un’emorragia causata da farmaci abortivi illegali). Le donne straniere subiscono più spesso violenza fisica rispetto alle italiane e, come indica l’ultima Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, subiscono le violenze più gravi. Questi reati vengono commessi soprattutto in famiglia per mano del partner attuale o ex. Inoltre, per loro uscire dalla situazione di violenza è sempre più difficile, perché in molti casi vivono isolate rispetto al resto della comunità, non hanno reti di supporto, non sanno cosa fare o a chi rivolgersi, non conoscono la lingua, oppure perché sono generalmente considerate poco credibili. Le donne straniere sono anche le più povere, perché svolgono lavori sottopagati o in nero, oppure perché ancor più delle italiane per loro è impossibile conciliare la vita familiare con quella lavorativa. E a questo proposito non si può non citare l’intensa critica al capitale portata avanti da Davis, che per prima ha mostrato come la forza lavoro femminile sia ormai predominante in molti settori (basti pensare a quello della fast fashion, in cui sono impiegate 75 milioni di donne), e che nello sfruttamento di questa forza lavoro siano predominanti la questione razziale e quella di genere: si preferiscono operaie donne, immigrate o nei Paesi in via di sviluppo perché costano meno, spesso chiudendo un occhio su diritti, sicurezza e tutele in nome del profitto.
Angela Davis è stata tra le prime a capire e a spiegare perché tutti questi problemi siano interdipendenti e a svelare l’ipocrisia di chi si professa contro il razzismo pur restando sessista, o viceversa. Quasi quarant’anni dopo, ovunque assistiamo a un forte ritorno del razzismo, e le persone di sinistra che a parole vorrebbero arginare questo fenomeno spesso portano avanti un razzismo più sottile, più paternalista, oppure continuano ad abbandonarsi a esternazioni e comportamenti discriminatori nei confronti delle donne. Per molti il migrante è incapsulato in una sola possibilità di esistenza comoda per la propria propaganda politica, quella del giovane maschio. Le donne in questo processo diventano praticamente invisibili, sia per gli xenofobi ossessionati dai “ragazzi muscolosi con lo smartphone sui barconi”, sia per l’opposizione che si ricorda di donne e bambini solo quando muoiono tragicamente in mare. Allo stesso modo è inutile pensare all’antirazzismo o alla parità di genere trascurando le questioni di classe, che restano fondamentali per l’autodeterminazione e la libertà delle donne.
Donne, razza e classe è ancora rilevante nella misura in cui non siamo ancora davvero riusciti a tenere insieme le tre questioni. Ed è rilevante anche perché Davis propone una soluzione radicale, un cambio di paradigma della società che non può più reggere il capitalismo. Ancora oggi lo ribadisce, in un mondo che è cambiato molto dal 1981. “Penso che il femminismo, il femminismo radicale, l’antirazzismo radicale e il femminismo anticapitalista ci aiutino nella riconcettualizzazione che è necessaria per produrre una sinistra che sia più in linea con i grandi cambiamenti dell’era del capitalismo globale,” ha detto Davis in un’intervista a The Wire. “Innanzitutto riconoscendo la femminilizzazione della classe lavoratrice, il cambiamento strutturale dell’economia globale, il fatto che molte industrie sono popolate in gran parte dalle donne, industrie che si basano sul lavoro riproduttivo, di cura, domestico, sanitario. Mi sembra che in molti casi i sindacati nel mondo non siano in grado di riconoscere questi cambiamenti. Organizzare l’inorganizzato, in questo momento, significa organizzare le donne”.
Quando nel 1971 l’Udi volantinava fuori dalle fabbriche femminili stava mettendo in pratica quello che Davis insegnava: organizzare le donne nella sorellanza per aiutare una “nostra compagna nera”, rendendole consapevoli che la loro condizione di operaie sottopagate non era poi così lontana da quella ragazza con i capelli afro detenuta ingiustamente.