Camilleri non ha mai avuto paura di schierarsi contro il potere. Seguiamo il suo esempio.

Quando nasci in un posto come la Sicilia, cresci in una costante contraddizione tra bellezza e orrore. Giri tra riserve naturali paradisiache, paesi sperduti con cattedrali barocche che scoppiano d’oro, bar sontuosi con granite e dolci che ti fanno rischiare il coma diabetico, e poi a due passi c’è una distesa di cemento e palazzi abusivi che ti ricordano in modo brutale dove sei. Disoccupazione, criminalità organizzata, abusivismo, nepotismo e corruzione sono le parole d’ordine che ci fanno da biglietto da visita in giro per il mondo e per il resto d’Italia, tra l’ipocrisia di chi da fuori elogia la meraviglia della “Sicilia bedda” pensando che bastino arancini e carretti siciliani a salvarla dal buco nero in cui sprofonda. Una cosa però – al di là della banalità di vanti come il cibo, il sole, il mare, da isolana che è andata via a malincuore ma con un senso di rabbia e rifiuto abbastanza forte – mi ha sempre resa orgogliosa del posto da cui venivo. Giovanni Verga, Federico De Roberto, Luigi Capuana, Vitaliano Brancati, Luigi Pirandello, Elio Vittorini, Leonardo Sciascia, Goliarda Sapienza, Tomasi di Lampedusa: sono tanti scrittori nati nell’isola dei ciclopi, talenti letterari riconosciuti in tutto il mondo. Il 17 luglio del 2019, una di queste persone che ti fanno sentire un po’ più orgoglioso della tua terra è morta e se i coccodrilli tendono sempre a passare un colpo di spugna sulla biografia del defunto per garantirgli un biglietto diretto per il paradiso, nel caso di Andrea Camilleri non c’è bisogno di aggiustare niente. Anzi, possiamo già tranquillamente dire che abbiamo perso uno degli ultimi – l’ultimo? – intellettuale schierato, militante e presente in modo attivo nella contemporaneità del Novecento come ogni persona di cultura dovrebbe essere.

Camilleri è stato uno scrittore che come quasi tutti i suoi conterranei ha messo al centro delle sue opere la Sicilia. Lo ha fatto Pirandello quando parlava della follia dei suoi abitanti, dell’ironia tragicomica che la caratterizza nei modi di fare e di pensare; lo ha fatto Sciascia tracciando un ritratto della cosa peggiore che abbiamo mai avuto, la mafia; Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa descrive quella convivenza tra nobiltà e popolo, l’eredità aristocratica borbonica che fa sentire quest’isola ancora immersa in una sorta di feudalesimo fantasma, dove decorazioni sontuose e discariche a cielo aperto convivono senza contraddizione. L’esigenza di raccontare questo luogo è tanto forte da risultare quasi stucchevole per chi lo vede solo da lontano, chi giustamente si domanda perché i siciliani parlino solo della Sicilia. Una risposta che si può dare a questo quesito lecito è che c’è talmente tanto materiale sia umano che storico, naturale – e paradossale, grottesco, mostruoso – che sarebbe assurdo parlare d’altro. Seguendo questo flusso inevitabile di narrazione che ben poco attinge dalla fantasia ma che al massimo se ne serve per decorare la realtà, Andrea Camilleri ha continuato quello che i suoi conterranei avevano cominciato, dando alla letteratura popolare una voce indimenticabile – e non si tratta solo di una metafora, visto che l’imitazione di Fiorello ce la ricordiamo più o meno tutti.

Quando muore un personaggio molto amato – che nel caso di Camilleri è il simbolo di un filone culturale come quello della tradizione letteraria siciliana – è naturale rimettere insieme i pezzi della sua carriera per comporre un puzzle di successi, traguardi e buone azioni. Ora che anche lo scrittore semi-cieco di Porto Empedocle con la fissa per le sigarette si è unito alla schiera di lapidi notabili, si tracceranno centinaia di profili, documentari e retrospettive sulla sua vita, sulla sua creatura Montalbano, sulla lingua che ha inventato, sulla sua energia con tratti soprannaturali che lo ha spinto a mettere su spettacoli fino a pochi giorni dalla sua morte – che comunque è arrivata a quasi novantaquattro anni. Ci concentreremo tutti a riflettere sulla bellezza di un uomo tanto avanti con l’età da non riuscire a ricordarlo da giovane, anche perché da giovane non lo conosceva nessuno. E da qui rifletteremo sulla meravigliosa lezione che ci ha lasciato sul successo in tarda età, dimostrando a tutti che non sei mai troppo vecchio per diventare un autore di successo internazionale – il libri del Commissario Montalbano sono stati tradotti in 120 lingue diverse.

Luca Zingaretti e Andrea Camilleri

Tutte queste considerazioni sono vere, spontanee e corrette: Camilleri era effettivamente un fuoriclasse, qualcosa nel suo DNA di strano doveva pure avercelo se è arrivato a quell’età con un cervello tanto lucido da goderne fino all’ultimo giorno. Ed era un professionista assoluto del suo mestiere, uno scrittore meticoloso, attento, quasi scientifico nel modo in cui aveva creato non solo l’universo di Salvo Montalbano – poi riprodotto altrettanto bene nella serie televisiva – ma anche tutti gli altri scenari a cui ha dato vita con la sua scrittura. Una scrittura generata da decenni di lavoro in teatro e televisione sempre dietro le quinte, fino poi a sbucare fuori come personaggio pubblico negli anni Novanta grazie alla casa editrice Sellerio e grazie al successo del suo Commissario.

Ma Andrea Camilleri, è bene tenerlo a mente non solo nei giorni immediatamente successivi alla sua morte ma come memento per i secoli futuri, oltre a uno scrittore di romanzi accessibili e godibili per tutti – elemento che andrebbe lodato, non trattato con classismo culturale come invece è avvenuto – è stato un autore e un intellettuale che nella sua creatività ha messo in mezzo una lotta politica e senza far diventare l’arte un semplice manifesto propagandistico. Camilleri non ha mai goduto della sua posizione di intellettuale per stare comodo e tranquillo in penombra, tenendosi le sue opinioni per sé senza il rischio di fare crollare quella famosa torre d’avorio in cui si rinchiudono tanti personaggi pubblici con la paura di perdere la posizione che hanno conquistato. Forse perché il vero successo nella sua vita è arrivato quando era già abbastanza maturo da potersene fregare, forse perché era una testa troppo brillante per poterla nascondere a convenienza, forse perché uno scrittore che si rispetti mette prima di tutto avanti le idee e poi i suoi interessi. Ma sta di fatto che oggi, nel 2019, intellettuali che abbiano lo stesso coraggio che ha avuto lui fino a pochi giorni prima di morire di dire apertamente ciò che pensava di un personaggio politico come Salvini – che twitta condoglianze che sanno di opportunismo – non mi pare di vederne molti in giro. E non è solo nelle polemiche a viso scoperto, con schiettezza, che Andrea Camilleri ha detto chiaro e tondo “io sono questo, penso questo, che vi piaccia o meno”: lo ha fatto schierandosi sempre con la magistratura palermitana, contro Berlusconi, contro i suoi stessi colleghi che sguazzavano nell’ignavia e nel porto sicuro dell’indifferenza paracula.

Per Camilleri, parlare di politica era un dovere che gli intellettuali avevano non tanto da scrittori, registi, artisti, ma da cittadini. E così, se da un lato nei racconti di Montalbano c’era sempre un riferimento alla realtà, sebbene fosse un mondo fittizio fatto di regole semplici come quelle della narrazione di un giallo, dall’altro lui stesso non perdeva occasione per dire quello che pensava, a costo di sparare a zero su molti leader politici dell’ultimo ventennio. Camilleri, infatti, era stato un comunista convinto, mai affascinato dalle derive dittatoriali ma sempre fiducioso di una sua realizzazione democratica, che garantisse la felicità a tutti e non dividesse il mondo in deboli e forti. Mafia, politiche del lavoro, politiche dell’immigrazione: nelle sue dichiarazioni in tv, nei suoi spettacoli e nei suoi romanzi non si è mai perso un momento di presente attraverso i suoi J’accuse concreti, non chiacchiere da salotto.

E se da un lato metteva nero su bianco i problemi della società attraverso Montalbano, dall’altro riusciva nell’incredibile impresa di unire, raccontandolo, un popolo diviso in tutto, dalla lingua alla ferrovie inesistenti, fino al sesso di un pezzo di tavola calda. Grazie alla serie del Commissario di Vigata, infatti, Camilleri ha creato una sorta di spazio per una tregua, un’oasi fittizia ma composta da tanti elementi di verità mescolati insieme per dar vita a una versione sintetica e aumentata di tutto ciò che è la Sicilia. Se il siciliano come dialetto unico e omogeneo non esiste, considerato che ognuna delle nove province parla la sua varietà, e all’interno delle province stesse ogni singolo paese rivendica la sua versione, Camilleri ha creato un compromesso che mette tutti d’accordo – il famoso “vigatese” – proprio perché non è reale ma allo stesso tempo rappresenta un po’ tutti. E chi non ha capito la grandezza di questa sua operazione accusandolo di starsene comodo nello schema semplice del giallo forse non ha avuto l’intelligenza di osservare bene in cosa stava la sua abilità: sì, lo schema è sempre lo stesso, ma sono tutte le combinazioni di personaggi, di ritratti tipici, anche di stereotipi che danno vita a questo posto inesistente che ci unisce, perché ognuno riconosce là dentro un pezzetto di sé, che si tratti di una caserma di Carabinieri o di una vedova col vestito di pizzo nero e il crocifisso sulla scollatura.

Pietrangelo Buttafuoco ha detto che Camilleri era come una cassata, “una meravigliosa torta piena di squisitezze, ma zeppa pure di stucchevoli canditi, ricoperta infine di glassa, pesante e indigesta, immangiabile perciò in tutto quel trionfo di zuccheri”. Per molti potrà anche essere vero, ma a mio avviso se non sei capace di digerire gli zuccheri allora puoi sempre prendere una fetta di torta margherita invece di una cassata, che senza tutti quei canditi e quei colori esagerati non sarebbe quello che è ma al massimo una banale cheesecake. Fortunatamente Andrea Camilleri lo zucchero e la glassa li metteva eccome, ovunque scrivesse, con chiunque parlasse, ritratto di una persona e di un cittadino che non si rifugiava nell’ignavia di ingredienti semplici e digeribili, ma strabordava di sapore. Nessuno vive in eterno, questo è chiaro, e se muore un uomo a quasi novantaquattro anni non è un’ingiustizia ma il semplice e scontato corso della natura. Ma Andrea Camilleri porta con sé una dote che è sempre più rara, quella di schierarsi senza paura di venire inghiottiti dalla massa e, anzi, assumendo questo principio a valore guida per un intellettuale. Spero che oltre alle repliche di Montalbano su Rai Uno saremo in grado di tenere a mente anche questo.

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