La seconda guerra mondiale è finita da pochi mesi e i morti si contano a decine di milioni. L’Europa è un panorama di macerie, ma chi è sopravvissuto vive il sollievo della fine del conflitto, venato dall’incertezza sul futuro e dalla sicurezza che gli anni a venire saranno difficili, di sacrificio e dura ripresa. La direzione presa dal mondo dopo il 1945 la conosciamo tutti a grandi linee. Ciò che non sappiamo è che in un piccolo Stato europeo, l’Albania, è iniziato un percorso politico che cinquant’anni dopo avrà ripercussioni anche sull’Italia.
Pochi mesi prima dell’invasione nazista e comunista della Polonia, l’Albania viene occupata dall’Italia fascista. Il 7 aprile 1939 le truppe italiane sbarcano a San Giovanni di Medua, Santi Quaranta, Valona e Durazzo, sconfiggono in pochi giorni l’esercito albanese e proclamano un governo fantoccio, seguito dalla proclamazione di Vittorio Emanuele III di Savoia come re di Albania. I soldati italiani occupano il Paese, usandolo anche come base per l’invasione della Grecia, fino all’8 settembre 1943, quando il controllo passa direttamente alla Germania nazista. Il popolo e le autorità locali si oppongono sia con la lotta armata che nascondendo gli ebrei presenti nel Paese. Molti vengono accolti nelle case, mentre ad altri vengono forniti documenti falsi per non essere individuati.
Come in molti altri Paesi occupati dalle forze dell’Asse, anche l’Albania ha avuto la sua storia di resistenza partigiana. Un gruppo di partigiani denominato Fronte di Liberazione Nazionale iniziò a contrastare militarmente i tedeschi, fino a ottenere la liberazione nel novembre del 1944. Le truppe comuniste partigiane erano guidate da Enver Hoxha, futuro leader del Partito comunista d’Albania. Il 29 novembre 1944 il suo prende il potere e forma il governo ufficialmente riconosciuto dalla comunità internazionale. Hoxha si definisce in quegli anni “marxista-leninista“ e instaura una Repubblica socialista di stampo totalitario, convinto che la soluzione migliore per il suo Paese sia l’applicazione più intransigente dell’ideologia comunista. Nei primi due anni di governo l’Albania comunista è vista come un satellite della Jugoslavia di Tito. Dopo l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform (organizzazione internazionale che riuniva i partiti comunisti) per via degli attriti tra Stalin e Tito, l’Albania si allontana dalla linea jugoslava avvicinandosi all’Urss e entrando nel cosiddetto “periodo filosovietico“.
Due anni dopo la rottura con la Jugoslavia il dittatore Enver Hoxha da già i primi segni di delirio. A partire dal 1950, temendo un’improbabile invasione delle forze occidentali, fa costruire in tutto il territorio nazionale decine, se non centinaia di migliaia, di piccoli bunker per mettere in sicurezza la sua popolazione. La trasformazione del Paese in una fortezza di cemento senza nessuna minaccia reale a renderla necessaria fa capire il clima che regna nell’Albania comunista: sospetto e paura dominano l’immaginario collettivo, bombardato da decenni di propaganda del regime.
Il successivo passo nella politica estera albanese è la chiusura dei rapporti con Mosca per avvicinarsi alla Cina maoista. La decisione di uscire dal Patto di Varsavia viene presa nel 1961, ma l’occasione per formalizzarla è l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Urss nel 1968. Questo episodio avvicina in modo definitivo Hoxha e Mao. Il dittatore albanese prende spunto dal leader cinese e dal suo approccio politico, come dimostra la durezza con cui vengono repressi i principi e le idee contrarie al suo regime. Mentre molti Paesi autoritari sono dotati di una costituzione almeno in apparenza democratica, la Costituzione albanese chiarisce in modo esplicito il divieto di “attività o propaganda fascista, antidemocratica, religiosa, guerrafondaia o antisocialista, come pure l’incitazione all’odio nazionale o etnico“.
La causa più alta del Paese è la tutela della patria e del socialismo, contro cui nessuno può esprimere parole di dissenso. L’Albania di Hoxha è anche forzatamente laica: vengono confiscate chiese, moschee e ogni altro edificio di carattere religioso per destinarlo all’utilizzo pubblico ed è vietato professare qualunque credo religioso, perché contrastante con la dottrina marxista. La volontà dello Stato è controllare tutto, anche le idee dei suoi cittadini. Il tesserino militare di ogni albanese recita in prima pagina: “Ogni cittadino della Repubblica Popolare Socialista Albanese ha il dovere di essere in ogni momento un degno combattente, sempre fedele e irremovibile fino alla fine, pronto in ogni momento a combattere contro chiunque abbia il coraggio di attentare alla nostra gente, senza risparmiare la propria vita per difendere l’interesse maggiore del Popolo. Per la patria, la rivoluzione e il socialismo“.
Il regime ha anche il totale controllo sull’economia: ogni singola attività, bene e servizio appartiene allo Stato. Tutti devono lavorare perché non farlo è visto come un tradimento nei confronti del Paese e della sua leadership. L’economia albanese è però un’economia chiusa, improduttiva, inefficace. La chiusura al libero mercato e allo stimolo dell’iniziativa privata rendono l’Albania impermeabile all’innovazione e rudimentale nel suo sistema produttivo. Gli stipendi hanno un margine di differenza minimo, senza grandi distinzioni tra le diverse professioni o i livelli di carriera. Quasi tutti ricevono una busta paga simile, anche i dirigenti delle aziende statali che hanno una remunerazione, fissata per legge, poco più alta dei loro operai.
La chiusura all’esterno non è solo economica, ma anche fisica, come esemplificato dal sistema di fortificazioni voluto da Hoxha. La volontà del dittatore, però non è solo chiudere i confini agli stranieri, ma anche impedire che gli albanesi possano superarli per lasciare il Paese. Nessuno può lasciare l’Albania senza l’autorizzazione dello Stato. Anche le vacanze devono svolgersi entro i confini nazionali, perché Hoxha pensa che agli albanesi debba bastare quello che lo Stato offre loro.
Artan* è nato in Albania nel 1961 ed emigrato in Italia trent’anni dopo, nel 1991. “Vivevamo in un clima di terrore. Potevi essere fermato per strada dalla polizia solo perché usavi pantaloni a zampa di elefante o perché portavi le basette all’americana. In tv non era permesso guardare le reti italiane e si rischiava l’accusa di propaganda contro lo Stato. Avevano paura che, vedendo in tv quanto si stava bene in Italia rispetto all’Albania, la gente si rendesse conto che vivevamo nella dittatura e nella povertà. Un ragazzo che conoscevo ha fatto cinque anni e mezzo di carcere perché cantava le canzoni di Celentano a lavoro” ci racconta.
Anche le elezioni sono gestite come una farsa: le sezioni elettorali fanno a gara a chi chiude per prima le urne. Votano tutti, con affluenze record, ma le elezioni durano al massimo un paio d’ore. Questo perché sulla scheda elettorale si trova solo il simbolo del Partito del Lavoro d’Albania. La costituzione, a livello formale, garantisce la libertà di votare o meno, ma la seconda scelta è un modo certo per farsi bollare come nemico del regime. Nonostante la povertà e il malcontento sempre più diffusi, il sistema regge fino alla morte di Hoxha nel 1985. Lo sostituisce il fedele braccio destro Ramiz Alia, più moderato ma anche meno capace di mantenere le redini di una nazione sull’orlo del collasso.
Nel 1990 l’opinione pubblica albanese è ormai consapevole del divario tra le sue condizioni di vita e quelle dei vicini europei e al limite della sopportazione. I primi a manifestare contro il regime sono gli studenti, che chiedono migliori condizioni economiche e benessere, anche se la reale volontà collettiva è mettere fine a quasi mezzo secolo di regime autoritario. Alcuni Stati europei, tra cui Francia e Germania, danno rifugio a molti cittadini nelle loro ambasciate a Tirana. Mentre le manifestazioni continuano, a Tirana nel 1991 un gesto dei ribelli segna quella che sarà la fine della Repubblica socialista. Nella piazza Skanderbeg di Tirana i manifestanti usano delle funi per abbattere l’enorme statua in bronzo che ritrae Hoxha. Con la caduta del simulacro crolla anche il comunismo albanese. Quel momento diventa il simbolo della forza di un popolo che vuole appropriarsi dopo decenni di un suo diritto fondamentale: la libertà. Il 5 marzo del 1991 inizia a spargersi la voce che diverse navi stanno salpando dalle coste di Durazzo per dirigersi in Italia. Inizia l’esodo che sfocerà nelle migrazioni di massa verso l’Italia, raffigurato dall’immagine della nave Vlora attraccata al porto di Bari con 20mila persone a bordo.
La storia albanese è un buon esempio dell’ipocrisia che circonda il motto “aiutiamoli a casa loro”. Prima, dobbiamo sapere quali sono le condizioni di “casa loro”. Se si vive nel terrore, nella violenza di Stato, nella persecuzione politica, restare a casa propria diventa impossibile. La nostra Costituzione afferma che l’Italia concede asilo politico a coloro che vivono in Stati dove non sono garantite le libertà inderogabili dell’individuo. Molti dei migranti che arrivano oggi in Italia via mare o via terra non sono partiti da Paesi di guerra. Ma se è lo Stato stesso ad averla dichiarata ai suoi cittadini, riducendoli a un mezzo per mantenere con la violenza il potere, cercare un posto migliore dove vivere non è un lusso, ma un diritto basilare di ogni essere umano.
*Il nome è stato cambiato nel rispetto della privacy degli interessati