
È interessante notare che per mettere ordine nella nostra mente si dica fissare un’idea. L’immagine è simile a trafiggere una farfalla con uno spillone, nel centro del corpo; o a tracciare la sagoma di qualcosa. Le idee per essere analizzate, spostate, maneggiate, secondo la nostra cultura devono essere fermate, incastonate almeno per un momento. E questo fermarle, farle nostre, acchiapparle con gli strumenti che abbiamo a disposizione – il disegno, i diagrammi, la parola, la scultura, il colore – per poi restituirle allo scorrere del tempo in maniera organizzata paradossalmente stimola molto di più la nostra creatività che il raccoglierle attraverso quelli che potrebbero essere i mezzi d’elezione per poi riprodurle ancora e ancora: il video e la registrazione audio, canali che poi danno forma a quell’incantesimo meraviglioso che è il cinema, e che pure nasce dal disegno, dall’inquadratura, da una forma statica, che vuoi per un gioco di illusionismo o una scoperta tecnica inizia a muoversi, ad animarsi.

È su questo fenomeno che si sviluppa A Kind of Language: Storyboards and Other Renderings for Cinema, curata da Melissa Harris e allestita all’Osservatorio di Fondazione Prada, a Milano, in Galleria Vittorio Emanuele, fino all’8 settembre. La mostra parla agli appassionati di cinema ma non solo, mostrandoci il processo creativo che sta alla base della realizzazione di alcuni film che hanno fatto la storia del cinema, ed esponendo su quelli che sembrano grandi tecnigrafi minimali materiali come moodboard, bozzetti, schizzi, disegni, foto, quaderni, pagine di sceneggiature commentate e annotate come partiture, insomma tutto l’apparato di cui si servono i registi per mettere insieme quelle che poi diventano le loro visioni. L’ossatura del progetto, con tutte le sue possibilità che mano a mano si solidificano in una forma, scelta dopo scelta, svista dopo svista, come una forza centripeta che dalle estreme propaggini dell’immaginazione e del possibile, un giro alla volta, addensa l’idea e il sogno in una forma univoca, tangibile, reale.
Questo progetto espone più di ottocento elementi creati tra la fine degli anni Venti e il 2024 da più di cinquanta autori tra cui registi, direttori della fotografia, artisti, grafici, animatori, coreografi e altre figure legate alla produzione di film e video, come Pedro Almodóvar, Wes Anderson, Matthew Barney, Ingmar Bergman, Bernardo Bertolucci, Luis Buñuel, Charlie Chaplin, Sofia Coppola, Jonathan Demme, Walt Disney Productions, Federico Fellini, Fleischer Studios, Terry Gilliam, Jean-Luc Godard, Alfred Hitchcock, Alejandro González Iñárritu, John Irving, Alejandro Jodorowsky, Akira Kurosawa, Hayao Miyazaki, Pier Paolo Pasolini, Satyajit Ray, Martin Scorsese, Steven Spielberg, Agnès Varda, Carrie Mae Weems e Wim Wenders.

Come si legge sul catalogo della mostra, uno dei primi cineasti a utilizzare gli storyboard fu Georges Méliès, un illusionista noto principalmente come mago interessato ai mondi fantastici e alla fantascienza, che nel 1902 divenne un regista di fama internazionale con una prodigiosa creazione: Le voyage dans la lune. Già nel 1896 Méliès aveva infatti dato vita a uno dei primi studi cinematografici, in cui aveva realizzato più di cinquecento cortometraggi, combinando trucchi di scena ed effetti ottici, i primi effetti speciali, pianificando ed elaborando poi il suo film su carta, attraverso disegni molto dettagliati. Da qui il passo all’animazione fu breve, e a partire dagli anni Trenta i Fleischer Studios e la Walt Disney Productions, e poi negli anni Quaranta la United Productions of America, commissionavano abitualmente ai loro artisti la creazione di sequenze di schizzi e altri elementi visivi durante l’elaborazione della trama e la definizione dei personaggi dei loro film. Ma in parallelo lo storyboard diventa anche uno strumento fondamentale per l’elaborazione delle opere cinematografiche, una rappresentazione concreta e sistematica dello svolgimento della storia. Un vero e proprio progetto, capace di intersecare tutti i dettagli che concorrono alla realizzazione di un film.

È come se nel disegno la mente del regista si chiarisse, e al tempo stesso quello spazio organizzato potesse accogliere l’immaginazione e le fantasie di tutte le figure professionali che concorrono alla resa dell’opera, accordandole, permettendo loro di calarsi a terra, di prendere una forma sempre più specifica, di incontrarsi e confrontarsi. Si crea quindi una visione condivisa, un vero e proprio immaginario collettivo, un mondo fatto di qualità estetiche, di atmosfere, di energie, di relazioni, di suoni, di colori. In questo spazio la fantasia, che nella nostra mente è totalizzante e per quanto potente raramente a fuoco, è come se si guardasse allo specchio, venisse vestita, scolpita. Il soggetto che è immerso al suo interno, grazie allo storyboard può fare un passo indietro e uscire dal mondo che sta creando, osservarlo da fuori.

Il disegno d’altronde è uno strumento potente con cui iniziamo a leggere e a interpretare il mondo, a capirlo e a raccontarlo, e insieme a lui noi stessi. Disegnare, infatti, è una delle prime forme di auto-narrazione: è lì che all’inizio si costruiscono storie, emozioni, scenari; è lì che fin da bambini proviamo a mettere ordine nel caos di ciò che vediamo, sentiamo, viviamo. Ed è uno strumento potente perché molto più immediato e istintivo del linguaggio, pur essendo appunto “a kind of language”, proprio perché la nostra mente nel processo di resa dell’esperito e di creazione è intrinsecamente e culturalmente linguistica. Un bambino, al pari di qualsiasi adulto, che disegna non sta solo “colorando”. Sta mettendo in ordine i pensieri, e anche se da fuori a volte possono sembrano scarabocchi, lì dentro c’è un mondo, che per il suo autore ha un senso profondo e sorprendente. Disegnando esploriamo, conosciamo, rielaboriamo ciò che vediamo, lo cambiamo, lo personalizziamo, lo distorciamo. È una forma di conoscenza.
In fondo, non è così diverso da quello che succede quando si disegna uno spazio. Anche in architettura si parte da un’idea, un’intuizione che non ha ancora peso né materia, a volte nemmeno un intorno. Poi si schizza una linea, si tracciano i primi volumi, si immagina il modo in cui entra la luce o come colpisce – per dirla con Le Corbusier – la superficie di una colonna, un attacco a terra, il grado zero dell’edificio, e poi si sviluppano le dimensioni, i dettagli tecnici, si pensa a come ci si vorrebbe sentire in quell’ambiente. L’architettura, come il cinema, è un atto di visione: una regia dello spazio che coinvolge l’immaginazione e il corpo, che ha bisogno di essere disegnata prima di poter essere realizzata. E i fogli, i render, le sezioni, sono proprio come gli storyboard: strumenti per costruire mondi prima che esistano, per invitare altri a vederli con i nostri occhi. Il regista e l’architetto non lavorano da soli. Entrambi devono comunicare agli altri ciò che vedono e sentono, senza poterlo ancora toccare con mano.

Questa vicinanza profonda tra cinema e architettura – sottolineata sapientemente dall’allestimento di Andrea Faraguna dello studio di architettura Sub di Berlino – è più di un’affinità formale: è un modo simile di pensare e di sentire. Entrambi lavorano col tempo e con lo spazio, con le relazioni che li governano, e con le nostre emozioni. Entrambi ragionano per inquadrature e sequenze: uno definisce cosa sarà visto sullo schermo, l’altro cosa sarà vissuto nello spazio, un passo alla volta. Lo storyboard, allora, è una sorta di planimetria dell’immaginazione, e il disegno architettonico una sceneggiatura senza parole. In entrambi i casi, l’atto creativo non è mai solitario ma poroso e rizomatico, aperto, contaminato e contagioso, pronto a essere abitato dagli sguardi e dai sogni di altri. E anche per questo il disegno, in un certo senso fragile e provvisorio (come i piccoli negativi ritagliati e attaccati al foglio da Vardà e che alcuni visitatori si sono rubati), resta uno dei pochi luoghi in cui la complessità, il suo continuo intrecciarsi e a volte ingarbugliarsi, può ancora essere accolta senza dover essere subito definita, ma auscultata attentamente, in totale presenza, quasi come durante un atto contemplativo. Il processo creativo del cinema e dell’architettura è lo stesso, cercare il bandolo della matassa da cui iniziare a raccontare la stratificazione del reale.

È molto affascinante a questo proposito guardare l’enorme varietà di tratti, tecniche e stili proposti, a volte agli antipodi gli uni dagli altri. Si passa da veri e propri dipinti, che potrebbero essere le locandine del film, più che i materiali che lo precedono, a schemi confusionari e pressoché illeggibili, eppure, come tutti i disordini organizzati, sicuramente perfetti allo scopo dei loro autori. Se da un lato infatti vedere certi bozzetti ci fa ricordare quanto sia importante l’educazione visiva e l’esercizio grafico, e non solo una materia accessoria della nostra formazione, dall’altro questa mostra ci fa anche capire quanto il processo creativo sia libero e non inquadrabile, di come ciascuno possa creare le sue proprie regole a seconda della sua sensibilità e del suo scopo. Non è infatti “necessario” saper disegnare o saper disegnare bene per usare il disegno come strumento. E questa forse è la vera magia, la grande libertà di questo tipo di linguaggio tutto speciale.

Dai bozzetti raccolti in A Kind of Language emergono prima ancora che dei documenti legati alla storia del cinema infiniti modi di esistere e di diventare, mostrandoci una varietà di possibilità che ci farebbe sempre bene ricordare, riconoscere. È possibile dar forma alle proprie visioni, anche con linee storte e colori che stridono, riprendendosi la libertà di essere come siamo, e soprattutto di pensare, di immaginare, di sognare quello che vogliamo e come lo vogliamo, proprio perché la mente è libera, anche se il mondo intorno a noi, fin da quando siamo piccoli, ci convince a credere tutto il contrario, criticandoci, giudicandoci, dicendoci che sbagliamo anche quando non abbiamo fatto nessun errore, ma abbiamo semplicemente espresso liberamente ciò che siamo, aprendo una piccola fessura nell’uniformità a cui ci spinge invece il sistema.
