Nel 1984, la allora giovane azienda di software Apple realizzò uno spot per lanciare il suo primo computer Macintosh destinato a entrare nella storia della pubblicità. Nello spot, diretto da Ridley Scott e trasmesso nell’intervallo del Super Bowl, si vede una schiera di persone, tutte rasate e vestite di grigio, che guarda catatonica uno schermo gigante dove il Grande Fratello recita messaggi di propaganda. Nel mentre, un’atleta vestita di bianco e rosso irrompe sulla scena correndo inseguita dalla polizia e, lanciando un martello, distrugge lo schermo. Appare quindi una scritta: “Il 24 gennaio, Apple lancerà Macintosh. E capirai perché il 1984 non sarà come 1984”. Il riferimento, chiarissimo e iconico, è al più famoso romanzo distopico di sempre, 1984 di George Orwell. Negli anni quest’opera ha trasceso i confini della letteratura diventando un simbolo di risveglio delle coscienze, di spirito democratico e di anticonformismo rispetto a un pensiero dominante. È capitato anche che il senso di 1984 fosse distorto e piegato per scopi che non sarebbero sicuramente piaciuti all’autore: lo spot Apple, appunto, o l’aver chiamato uno dei più controversi e influenti programmi televisivi del ventennio “Grande Fratello”. Ma c’è un’appropriazione che più di tutte è particolarmente insidiosa: quella dei complottisti.
Per quanto mi riguarda, i complottisti hanno compromesso per sempre il mio apprezzamento per Orwell. Quando leggo una citazione tratta da 1984 il mio primo pensiero va automaticamente al Piano Kalergi, al complotto pluto-giudaico-massonico-pedo-satanista di QAnon, al Deep state o al Nuovo ordine mondiale e non al bellissimo libro che lessi per la prima volta a tredici anni, senza capirci granché, per poi riprenderlo con una coscienza più matura e apprezzarne la raffinatezza. Invece, ogni volta che questo romanzo viene proposto come un avvertimento o addirittura come una predizione del futuro, questa raffinatezza viene tradita e 1984 diventa una lettura didascalica, che non va interpretata ma presa alla lettera. Un destino davvero molto triste per un classico della letteratura.
Nel 2013, il creatore del sito di disinformazione Infowars e guru dell’alt-right Alex Jones, ospite in un programma della Bbc, paragonò la conferenza del gruppo Bilderberg a 1984, accusando il presentatore e tutta l’emittente di essere conniventi con “lo stato di polizia”. Non fu il primo né l’ultimo “pensatore indipendente” (o per meglio dire complottista) a vedere nel libro una corrispondenza con la realtà, se non addirittura la prova del complotto dei complotti. I tanti spunti presenti nel romanzo sono infatti una risorsa infinita per accendere la fantasia cospirazionista e vedere prove inconfutabili in quelle che sono solo invenzioni letterarie: il bispensiero diventa “la forma mentis massonica”, le indagini e gli arresti legati al terrorismo di estrema destra diventano “psicoreati”, la “dittatura del politicamente corretto” è la moderna neolingua, la distruzione delle statue durante le proteste di Black Lives Matter somiglia alla cancellazione della storia del Ministero della Verità, Immuni ha il vólto del Grande Fratello, e si potrebbe andare avanti per ore. Nel 2017 l’allora consigliera di Trump, Kellyanne Conway, dichiarò che l’amministrazione voleva offrire “alternative facts” rispetto alla narrazione dominante dei media. Pochi giorni dopo 1984 era in testa alle classifiche di vendita.
Con il Covid-19 poi, abbiamo finalmente avuto prova della passione letteraria anche di varie figure di spicco italiane: il consigliere della Regione Lazio Davide Barillari, che in più occasioni ha negato l’emergenza sanitaria e che è stato ospite della manifestazione negazionista a Roma del 10 ottobre, ha citato un passaggio del libro su Twitter per criticare le restrizioni sul numero massimo di ospiti a casa. Poche settimane fa, anche Matteo Salvini ha menzionato il romanzo in un tweet di critica al Dpcm del 13 ottobre: “Togliamo la Polizia dalle strade e la trasformiamo in Psico-Polizia per controllare i condomini? Neanche George Orwell sarebbe arrivato a tanto, siamo alla follia, rileggiamoci 1984”.
Cogliamo l’invito di Salvini e rileggiamocelo, 1984. Ci si potrebbe chiedere come mai, tra i tanti e bei libri del genere dispotico, proprio questo sia diventato così importante per la cultura popolare, fino a subire risignificazioni notevoli. Sicuramente il carattere – se così si può dire – predittivo dell’opera ha fatto la sua parte: senza arrivare alle correlazioni arbitrarie dei complottisti, alcune cose che Orwell aveva intuito si sono poi avverate: l’onnipresenza degli schermi, le intelligenze artificiali che ascoltano le nostre conversazioni o più in generale il concetto di post-verità, tanto che i capitoli del saggio che ha reso popolare questo termine, Post Truth di Lee McIntyre, sono scanditi proprio dalle citazioni di 1984. E non c’è dubbio che questo libro abbia un grande valore letterario, riconosciuto anche pochi anni dopo l’uscita: già nel 1954 la Bbc ne realizzò un adattamento televisivo e nel 1956 uscì la prima versione per il cinema, nota in Italia con l’assurdo titolo Nel 2000 non sorge il sole.
Ma ciò che ha reso Orwell così famoso e apprezzato – più di Huxley, Dick o Ballard – va al di là del mero riscontro positivo delle sue opere: Orwell tornava utile perché era “anticomunista” ed era scomparso proprio nel 1950, l’anno della guerra di Corea che sancì uno dei momenti più intensi della Guerra fredda. Come spiega John Newsinger nel libro Hope Lies in the Proles. George Orwell and the Left, 1984 fu usato come mezzo di propaganda antisovietica, rendendo Orwell, nell’immaginario collettivo, un autore liberale se non proprio di destra. Considerando l’orrore che provava nei confronti della manipolazione, si tratta proprio di uno smacco enorme. Se oggi è infatti citato – se non assunto come ideologo – da conservatori, liberali, sovranisti e populisti, nella sua vita Orwell era senza dubbio un socialista e un marxista. Combatté la guerra civile spagnola nelle file del Partito operaio di unificazione marxista e fu un iscritto del Partito laburista indipendente. Aveva persino un cane di nome Marx. Scrisse molti testi per denunciare l’ingiustizia del sistema classista, le disumane condizioni degli operai inglesi e la povertà estrema che egli stesso provò sulla sua pelle: La strada di Wigan Pier che, osservando le condizioni degli operai nel Lancashire e nello Yorkshire, ruota tutto intorno alla domanda “Perché non siamo tutti socialisti?”; Come muoiono i poveri, un saggio sulle condizioni dei sanatori; Fiorirà l’aspidistra, un romanzo sulle differenze di classe insanabili; Il leone e l’unicorno, un pamphlet per la lotta armata contro il capitalismo. Proprio perché era un socialista democratico era diventato un antistalinista, a dispetto di chi usa La fattoria degli animali come favola pedagogica sull’ormai proverbiale fallimento della sinistra.
Ed è per questo che 1984 non è un romanzo sui complotti, né un avvertimento contro i poteri forti, il Nuovo ordine mondiale, Big Pharma o qualsiasi altra entità che ci controlla. È un romanzo sulla guerra tra poveri, sulla miseria, sullo sfruttamento dei lavoratori, sull’incapacità di reagire e agire di fronte a un sistema sempre più soverchiante. Sono i prolet, le “masse di diseredati” di lavoratori intercambiabili e oppressi, gli eroi silenziosi del romanzo, quelli che Winston identifica come l’unica speranza contro il Partito. A differenza della classe media e dei burocrati, i prolet non sono sorvegliati dal Grande fratello perché era “meglio che i prolet non avessero alcuna passione politica. A loro si richiedeva solo un patriottismo elementare, sul quale far leva quando li si doveva costringere a più ore di lavoro o a razioni più piccole. E anche quando si sentivano scontenti, come talvolta capitava, la loro insoddisfazione non portava da nessuna parte, perché, privi com’erano di grandi idee, potevano scaricarla solo su banali frustrazioni momentanee”.
Le masse, ci dice Orwell in maniera esplicita, per il potere è meglio che stiano nella loro condizione di ignoranza e subordinarietà, distratte da “la fatica fisica, la casa e i bambini, i bisticci con i vicini, i film, il calcio, la birra, e soprattutto il gioco d’azzardo”. Ed è importante sottolineare che queste distrazioni non sono imposte dalla psicopolizia, dal Grande Fratello o dal pensiero unico, ma sono la conseguenza di una vita dove esiste solo il lavoro e qualche piacere temporaneo, e dove i profitti se li godono solo le élite.
1984 è un romanzo pessimista che riflette la disillusione di un uomo che credeva in una promessa che non si è realizzata, quella della rivoluzione socialista. Quando Winston viene arrestato, sul finire del romanzo, sta osservando con Julia una donna di mezza età che canta mentre fa il bucato. Per questa donna Winston prova un “rispetto mistico”, perché nonostante tutto continua a cantare: non canta perché è stupida o indottrinata, canta perché cantare è bello. Questo rispetto si mescola poi allo stupore che prova quando pensa che il cielo è uguale per tutti, “in Eurasia, o in Estasia come qui. E sotto il cielo tutti erano uguali – dovunque, nel mondo intero, centinaia di migliaia di milioni di individui così, individui ignari gli uni degli altri, divisi da muri di odio e di menzogne, eppure perfettamente uguali –, individui che non avevano mai imparato a pensare ma che accumulavano nel cuore, nella pancia, nei muscoli il potere che un giorno avrebbe rovesciato il mondo”. Forse questo principio ha meno fascino del complotto dei poteri forti da cui Orwell ci avrebbe messo in guardia nelle sue opere. Ma sicuramente è uno strumento più utile per capire davvero 1984.