Nell’elencare le misure di sicurezza volte a contrastare l’epidemia di coronavirus in Italia, il primo ministro Giuseppe Conte – supportato dal Comitato Tecnico Scientifico – aveva raccomandato a inizio marzo, in particolare, di proteggere le persone anziane, inserite dall’Organizzazione mondiale della sanità e dal ministero della Salute tra i soggetti più inclini a sviluppare una sintomatologia grave se contagiati dal Sars-CoV-2. Non solo il loro sistema immunitario sviluppa con più difficoltà gli anticorpi necessari a sconfiggere il virus, ma a causa dell’età avanzata, spesso presentano anche delle patologie croniche, come ad esempio diabete o ipertensione.
Purtroppo, però, il ritardo dei provvedimenti e la mancata adozione di misure adeguate hanno invece portato, nei primi quattro mesi dell’anno, – solo nella popolazione di Ats Milano con più di 70 anni d’età – a circa 5.500 decessi in più di quanto atteso in base alla media dei decessi degli anni precedenti. Di questi, il 46% si sono verificati nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), strutture non ospedaliere ma comunque a impronta sanitaria, che ospitano, per un determinato periodo e in cambio del pagamento di una retta, persone non autosufficienti, che non possono essere assistite in casa e che necessitano delle specifiche cure mediche di più specialisti e di un’articolata assistenza sanitaria. Va da sé che, le RSA per prime, avrebbero dovuto proteggere le persone più fragili, di cui erano responsabili, a prescindere dall’emergenza sanitaria. Il caso più eclatante, in Lombardia, è stato quello del plesso per anziani Pio Albergo Trivulzio dove, tra gennaio e aprile, sono stati registrati complessivamente 300 morti rispetto ai 186 decessi medi dello stesso periodo tra il 2015 e il 2019 – dati che si ritengono, comunque sottostimati.
Il Pio Albergo Trivulzio, posto sotto inchiesta della Procura di Milano per i reati di omicidio colposo e diffusione di epidemia, è però solo uno dei tanti esempi di pessima gestione dei pazienti e scarsa tutela delle persone anziane all’interno delle RSA italiane durante l’epidemia di COVID-19. A dichiararlo è l’Istituto superiore di sanità, che ha chiesto a 3.417 RSA italiane di elencare le difficoltà incontrate nei mesi di emergenza sanitaria, per capire che cosa abbia contribuito alla diffusione del contagio nelle strutture e ad alcune inefficienze. Le risposte sono arrivate da 1.356 strutture e la difficoltà più sentita – segnalata dal 77,2 % dei partecipanti – è stata la mancanza di dispositivi di protezione individuale adeguati per assistere gli ospiti e per evitare i contagi tra il personale e altri residenti. Oltre la metà ha poi segnalato di avere avuto grandi problemi nell’ottenere che fossero eseguiti i tamponi sugli ospiti, in modo da identificare e isolare velocemente gli infetti. La mancanza di un numero sufficiente di operatori e la scarsa informazione dalle istituzioni sanitarie sono state altre difficoltà segnalate da molte strutture. Attraverso questa indagine si è inoltre potuto constatare che, da febbraio a maggio, i decessi registrati nelle RSA prese in esame sono stati 9.154 in tutto il Paese, con una maggiore incidenza in Lombardia, Piemonte e Veneto. Di questi, solo 680 pazienti erano risultati positivi al tampone e 3.092 avevano presentato sintomi simil-influenzali.
Se c’è una pratica a cui la pandemia ci ha abituati, è la lettura costante di dati e numeri, ma non la capacità di provare a dar loro un volto, un nome o una storia. Fare questo passo ulteriore sarebbe invece un esercizio di umanità, con cui potremmo accorgerci che, quanto avvenuto nelle RSA, ricalca fin troppo la legge di sopravvivenza di Darwin, in cui è il più forte a salvarsi a scapito del più debole, in un continuo processo di selezione naturale o “sopravvivenza del più adatto” alla vita, sua e della comunità in cui è inserito. Questa formula è un po’ quella che è stata applicata, a un certo punto della pandemia, negli ospedali di tutta Italia, al collasso e abbandonati dal governo, in cui si è iniziato a decidere chi curare in base all’età e alle condizioni di salute.
Con queste premesse, come ha denunciato Giovanni Merlo, direttore di Ledha-Lega per i diritti delle persone con disabilità, gli anziani – in particolare quelli delle RSA – non solo sono morti per il coronavirus, ma nella maggior parte dei casi sono stati “lasciati morire”. Le morti di anziani nel nostro Paese, però, a differenza di quanto si possa pensare, sono un’enorme perdita sociale. La popolazione anziana, infatti, al primo gennaio 2020, in Italia si attestava al 23,1%. Il nostro Paese, con un indice di vecchiaia del 177%, vanta anche il record di età media più alta in Europa: 45,7 anni rispetto alla media UE dei 43,1. La presenza degli anziani è oltremodo significativa nei piccoli comuni, svuotati a causa della dipartita dei più giovani, ma popolati da gruppi di anziani riuniti ai bar o nelle piazze principali, da vecchi abitanti che chiacchierano sui porticati o per le vie dei borghi, immagini che ritroviamo nel film diretto da Andrea Zaccariello Ci vediamo domani, ambientato in un paese immaginario popolato solo da ultranovantenni. Inoltre, i nonni sono spesso parte integrante delle famiglie italiane, particolarmente amati per le cure che riservano ai nipoti, con cui, in alcuni casi, costruiscono rapporti di profonda fiducia anche migliori rispetto a quelli che si creano tra genitori e figli. Per esempio, nel romanzo dello scrittore e professore italiano Alessandro d’Avenia Cose che nessuno sa, è nonna Teresa a guidare la protagonista attraverso i primi anni della sua adolescenza, segnata dall’abbandono del padre e dalla separazione dei genitori, raccontando alla nipote quattordicenne la sua storia d’amore vissuta col nonno.
Non dobbiamo poi dimenticare che gli anziani sono depositari della nostra stessa storia. Come ha sottolineato l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (Anpi), molti partigiani in età avanzata sono stati uccisi dal coronavirus: a Bergamo, per esempio, tra gli epicentri dell’epidemia, da febbraio a maggio sono scomparsi 15 tra partigiani, patrioti e benemeriti e, con loro, la testimonianza di un momento essenziale del nostro passato. Tutto questo dovrebbe bastare a comprendere che, gli anziani, non fossero persone da scartare a cuor leggero dalla nostra società, ma una ricchezza da preservare e valorizzare.
Il peso dell’errore commesso, insieme al rimorso di non aver agito abbastanza in fretta e al senso di colpa dovuto al pensiero che, probabilmente, si sarebbe potuto fare di più, non graverà tanto sulla giunta regionale lombarda o sul governo italiano – come per il resto degli sbagli che hanno esasperato gli esiti di questa emergenza – e nemmeno sugli amministratori delle RSA, quanto sui familiari delle vittime, costretti a rimanere fuori dagli edifici che ospitavano i loro cari, senza poter in alcun modo far fronte e reagire a ciò che stava accadendo al loro interno. Basta leggere le testimonianze raccolte sul gruppo Facebook del Comitato Noi denunceremo – che conta quasi 60.000 membri – per rendersene conto: gli iscritti raccontano che i propri cari sono morti da soli, di fronte all’impotenza dei familiari, che non hanno potuto assistere i loro affetti, né organizzare loro una degna cerimonia funebre, ma solo affidarsi – con non poche difficoltà – a delle blande comunicazioni telefoniche per avere informazioni sullo stato di salute dei loro parenti, per poi venire a conoscenza – il più delle volte all’improvviso – dell’avvenuto decesso.
Sono stati proprio i familiari delle vittime a riunirsi, prima, nel “Comitato Verità e Giustizia per le Vittime del Trivulzio”, che è poi diventato “Felicita – Associazione per i diritti nelle RSA”, nata – come si legge sulla pagina Facebook dedicata – per affermare la verità della giustizia a nome dei parenti, ricordando tutti i deceduti nelle RSA, non solo in Lombardia ma in tutte le regioni italiane, e per difendere i diritti degli anziani fragili diffondendo una nuova cultura della vecchiaia. In particolare, i sostenitori chiedono trasparenza rispetto a ciò che è accaduto e sta succedendo all’interno delle strutture, una tutela dei parenti dei defunti che garantisca loro dignità, la salvaguardia dei lavoratori delle strutture e l’accertamento di tutte le responsabilità di chi ha e ha avuto il compito di gestire la salute degli ospiti e dei lavoratori durante l’epidemia. A tale scopo, lo scorso 10 giugno, il Lombardia si è svolto il primo “Denuncia day”, durante il quale i familiari delle vittime hanno presentato in procura i loro ricorsi contro le residenze per anziani. Solo a Bergamo, sono state consegnate alla magistratura 50 denunce – su un totale di 200 – e altrettante sono state presentate a Brescia. La Procura di Pavia, ha invece aperto 24 fascicoli. Indagini si stanno svolgendo anche a Monza, a Cremona e in tutta la regione, e altre denunce sono attese nelle prossime settimane. Secondo Luca Fusco, presidente del Comitato, “ci sono precise responsabilità politiche” su quanto accaduto ed è in quest’ottica che bisogna indagare per identificare i responsabili.
Come ha affermato Michele Vannini, segretario nazionale della Funzione Pubblica Cgil, è necessario ripensare al sistema delle RSA, a partire da un modello organizzativo che rispetti in maniera assoluta la sicurezza e l’igiene delle persone accolte. Al contempo, è bene rafforzare i servizi territoriali in grado di rispondere alle esigenze di una popolazione che invecchia, attraverso risposte flessibili e appropriate. Ma, sempre secondo Vannini, è finalmente arrivato il momento di riflettere sul senso etico delle RSA e sulla qualità della vita che vogliamo garantire agli anziani, finora trattati come fossero niente di più che un fardello.
Se è vero che l’Italia è ben lontana dall’essere un Paese per giovani, questo non giustifica il sacrificio degli anziani avvenuto durante l’emergenza sanitaria. Il periodo post-pandemia, come si vorrebbe sperare, potrebbe rappresentare un’occasione di ricongiunzione e di riappacificazione all’interno delle comunità, un momento per ripensare e rivalutare il ruolo degli anziani sopravvissuti nella nostra società, in modo positivo e attivo. Ma questo dovrà inevitabilmente avvenire in una prospettiva intergenerazionale che guardi con più attenzione alle necessità dei minori – altri grandi dimenticati di questa crisi – e degli anziani.