Cosa vuol dire partorire ai tempi del coronavirus
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Mancano pochi giorni, il termine è previsto per il 22 marzo, lo stesso giorno del compleanno del marito di mia madre. Quando il medico ce lo ha annunciato, lei si è messa a piangere. Gianfranco è morto nel 2016 a causa di un attacco cardiaco, tra le sue braccia. Ho trovato molto bella questa coincidenza di date, a ricordarci che la vita è un ciclo continuo, un passaggio che dalla morte apre a una nuova vita. Sono rimasta incinta il mese di luglio scorso, allora il mondo somigliava a quello che più o meno tutti conoscevamo fino a poco tempo fa. Si parlava di crisi, ma non se ne veniva a capo, di disoccupazione giovanile, ma non si agiva per arginare il problema, di collasso ecologico, ma le misure prese per correre ai ripari non erano mai abbastanza. Tutto sembrava sull’orlo del collasso, ma non si collassava mai, quindi ci si era abituati a camminare su di un filo.

Il primo asse a incrinarsi è stato quello del Libano, Paese nel quale mi sono trasferita un anno e mezzo fa con mio marito. Mio figlio sarà per metà polacco, per metà libanese, avrà la cittadinanza italiana e parlerà francese, perché ci siamo incontrati in Francia, io sono cresciuta a Roma e sono stata naturalizzata italiana. Ancora non è nato, e già nel suo sangue c’è tutta la storia delle migrazioni di questi ultimi trent’anni.

La rivoluzione in Libano è scoppiata il 17 ottobre, il 18 ottobre abbiamo festeggiato il nostro matrimonio. Ero al quarto mese di gravidanza. L’atmosfera, quel giorno, era apocalittica, di fine del mondo, parte degli invitati non sono riusciti a venire a causa delle strade chiuse, degli pneumatici che bruciavano ovunque, e da lì per più di due mesi il Paese si è bloccato, scuole e banche sono state chiuse e niente da allora è stato come prima. Il governo ha appena dichiarato, il 9 marzo scorso, la bancarotta e l’incapacità di ripagare il suo debito che ormai ammonta a 90 milioni di dollari, vale a dire più del 160% del suo Pil. Negozi, centri commerciali e ristoranti hanno chiuso l’uno dopo l’altro. La moneta si è svalutata. L’inflazione è salita alle stelle.

Le manifestazioni in Libano non sono state un caso isolato. Hanno coinciso con innumerevoli focolai sparsi in tutto il mondo, da Hong Kong all’Iran, dalla Francia dei gilets jaunes ad Haiti, dall’Ecuador, passando per Barcellona fino al Cile.

Nel mese di gennaio, volevo rientrare in Italia per approfittare di un sistema sanitario pubblico e della mia famiglia accanto. Invece sono stata costretta a rimanere a Beirut a causa di un problema comune nelle donne in gravidanza che mi ha impedito di viaggiare. Quando nel mese di febbraio, l’Italia è stata attraversata dai primi casi di COVID-19, ho provato un certo sollievo all’essere rimasta in Libano, nonostante il parto mi sarebbe costato molto di più in termini di assicurazione medica. Al momento, in Italia ci sono quasi 25mila casi, qui invece un centinaio, l’Organizzazione mondiale della sanità parla di pandemia, il Libano ha dichiarato ieri lo stato di emergenza sanitaria, e mio figlio dovrebbe nascere tra qualche giorno.

È difficile spiegare lo stato d’animo in cui si trova una madre quando sta per partorire in una situazione simile. Gli ospedali sono i luoghi peggiori in termini di trasmissione delle malattie, ma soprattutto, nel ripensare a questi nove mesi di gravidanza, mi accorgo che sto assistendo alla fine di un mondo, che siamo i testimoni di un’epoca che probabilmente, passata questa pandemia, non esisterà più. La crisi economica in Libano ha mostrato i limiti del neoliberismo, le derive della corruzione, l’ipocrisia di un sistema di clientelismo che per trent’anni, dalla fine della guerra civile a oggi, ha fatto solo i propri interessi a scapito delle infrastrutture di base del Paese, al punto che oggi viviamo in uno stato senza stato, quella che insomma si può chiamare una repubblica delle banane, dove non a caso il ministro dell’Agricoltura è anche ministro della Cultura, e non è uno scherzo. Ma l’arrivo della COVID-19, ci ha messi di fronte a una crisi del nostro attuale sistema economico, sociale, ecologico e soprattutto morale, a livello globale, perché ci sta facendo assistere al crollo del mondo individualista alla Donald Trump, che cerca di accaparrarsi un vaccino e di averne l’esclusiva solo in America, alla Boris Johnson, che preferisce annunciare di essere preparati a perdere i propri cari, perché la macchina economica non può fermarsi ed è meglio debellare parte della popolazione che non parte del prodotto interno lordo. Per non parlare del razzismo che si è scatenato contro i cinesi nel mese di gennaio, contro gli italiani nel mese di febbraio, e dell’egoismo di buona parte della popolazione che invece di seguire le direttive sanitarie indette dagli esperti, ha preferito continuare a uscire ed essere portatrice di un virus che adesso è sempre più difficile confinare. Assisteremo così anche alla fine di questa generazione edonistica, che poi aimè è la mia generazione, incapace di amare, del narcisismo perverso che vede ogni singolo ego come centro del mondo, la me generation.

La pandemia in corso ci ha mostrato che la natura è in grado di punirci, perché potrebbe trattarsi, così come scrive un articolo apparso ieri sul New York Times, del suo sistema immunitario che si sta ribellando. Ci ha così costretti, nel giro di pochi mesi, a ridurre le emissioni di carbonio e a ripensare interamente il nostro sistema economico. Il cielo, da qualche settimana a questa parte, non è mai stato così trasparente, così come l’acqua nei canali di Venezia, che stiamo riscoprendo essere azzurra. Forse quest’estate potrò osare di farmi un bagno con mio figlio nelle acque che fino a poco fa erano troppo contaminate delle spiagge libanesi.

Se c’è qualcosa che vorrei che rimanesse a mio figlio di questi nove mesi di gravidanza, è la speranza che la sua nascita corrisponda alla nascita di un mondo nuovo, visto che il nostro, quello dei dinosauri del petrolio, del nazionalismo, della finanza e dell’individualismo estremo, sta crollando. Questa crisi ha messo in luce quanto siamo in ritardo sui veri rischi che accaparrano il pianeta, quelli ecologici e sociali, che come un virus, sono trasparenti, ma non per questo meno pericolosi, e stanno condannando il nostro sistema all’estinzione. Dovremmo però trarne più di una lezione per il futuro, e soprattutto per il futuro della nuova generazione, e inventare un sistema che prenda atto del bisogno di sviluppare un legame più collettivo, dove il rispetto e la gentilezza verso il prossimo, e non più la cieca competitività e l’arricchimento individuale e a tutti i costi, diventino i veri valori.

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