In uno dei tanti gruppi WhatsApp che in questi giorni di quarantena sono tornati a essere attivi o si sono formati, un amico che vive a New York da qualche anno ha scritto di essersi messo in isolamento volontario, molto prima che Trump distruggesse il mito della Grande America invincibile ammettendo una possibile recessione economica, tentasse di comprare l’esclusiva di un vaccino a uso degli Stati Uniti e diventasse chiaro che nessuna serrata generale di scuole, bar e altri luoghi pubblici fosse prevista dal Presidente.
Più che mai in questi giorni ognuno di noi ha la grande responsabilità di poter fermare il crescere dei casi di contagi di SARS-CoV-2, come ha spiegato il matematico e scrittore Paolo Giordano sulle pagine del Corriere. Così ci è stato chiesto di restare in casa, di uscire il meno possibile e solo se strettamente necessario, di evitare non solo di ammalarci ma di rischiare di far ammalare qualcun altro e di sovraccaricare le strutture sanitarie e il lavoro che medici, infermieri e personale ospedaliero portano avanti da giorni a ritmi incessanti. In questo momento abbiamo il duplice ruolo di figli – col dovere di attenerci alle regole – e di genitori – aiutare le persone più deboli, calmare i parenti lontani, essere solidali – e non ci siamo preparati.
La durata della pandemia costituisce un segmento ben preciso sulla nostra linea temporale. Esiste un prima ed esisterà un dopo, in cui dovremo fare i conti con quanto accaduto e in cui probabilmente le dinamiche del mondo che conoscevamo saranno diverse. Abbiamo capito quanto siamo fortunati ad avere una sanità pubblica e quanto precarie possano essere le vite di chi vive in Stati in cui la salute è un servizio di lusso. Ci chiediamo cosa ne sarà del nostro diritto alla privacy e di altri diritti costituzionali, ora che è stato creato un precedente. Scopriamo quanto fragile può essere l’Europa, incapace di garantire diritti umanitari ai migranti che fuggono dalla Siria o vengono usati da Erdogan come pedine sul confine greco-turco, e frammentata dall’innalzamento di confini e barriere che sospendono, di fatto, la libera circolazione istituita dal trattato di Schengen. D’altronde, come ricorda il politologo Nick Vaughan-Williams in Border Politics: The Limits of Sovereign Power, “Nessuno dei confini è in alcun senso dato, ma (ri)prodotto attraverso modalità di affermazione e contestazione ed è, soprattutto, vivo. In altri termini, i confini non sono né naturali, né neutrali e nemmeno statici, ma storicamente contingenti, politicamente carichi, fenomeni dinamici che coinvolgono in primo luogo le persone e le loro vite d’ogni giorno.” La stessa etimologia della parola “pandemia”, è un composto delle parole greche pân (tutto) e dêmos (popolo). Il virus non conosce gerarchie politiche o sociali, unisce le generazioni. I suoi effetti mostrano però tutta la disparità sociale di cui, ognuno nella propria bolla, si era forse dimenticato.
Quando, a gennaio, guardavamo la Cina iniziare a prendere misure drastiche contro l’epidemia di COVID-19, ci limitavamo irrazionalmente a evitare i luoghi e i locali della comunità cinese pensando che a noi non sarebbe potuto accadere nulla di simile. Per una lontananza geografica, forse, ma soprattutto perché siamo nati e cresciuti in un continente democratico, ricco e sicuro.
Eppure questo apparente benessere nasconde delle profonde contraddizioni. Veniamo infatti da un’epoca dominata anche da incertezza, stati d’ansia, rabbia e violenza. “È nelle nostre relazioni quotidiane che in un clima sempre piú offuscato dalla facile offesa e da una fin troppo vivace propensione all’accusa, l’inasprirsi dei toni, il ribollire di tensioni e animosità vanno di pari passo col subdolo diffondersi della tendenza ad attribuire sempre a qualcun altro, o piú genericamente a fattori esterni, la causa dei propri malumori, fallimenti, sventure o sofferenze” e si accompagnano a una “resistenza ad assumersi la responsabilità del proprio sentire e agire, che occlude qualsiasi possibilità di messa in discussione”, analizza la psichiatra e psicoterapeuta Nicoletta Gosio nel saggio Nemici miei. La costrizione all’isolamento ci porta però non solo a fare finalmente i conti con noi stessi, ma anche a renderci conto che nessuno nell’era della globalizzazione può salvarsi davvero da solo in quanto parte inscindibile di una comunità. La nostra vita è profondamente connessa a quella degli altri, ancora di più nei grandi centri urbani, nelle zone ad alta densità e nelle metropoli.
Sarebbe inutile illudersi di ritrovarsi catapultati, al termine di tutto, in una società nuova, giusta, egualitaria, fondata sul reciproco rispetto, sulla solidarietà e la generosità. Una delle prime conseguenze del diffondersi dell’epidemia, oltre al razzismo nei confronti delle persone di origini cinesi prima e degli “untori” autoctoni poi, è stato infatti un senso di sfiducia e di paura verso il prossimo, che non ha colpito solo gli sconosciuti, ma anche delle figure più prossime a noi, che però potrebbero aver visitato luoghi altrove ed essere entrate in contatto con persone “altre”.
Nonostante questo, questa crisi ci offre l’occasione di provare a immaginare cosa accadrebbe se mettessimo in discussione i nostri stili di vita, i nostri rapporti, la nostra gerarchia di valori. Ora che a turno ci ritroviamo a vestire i panni del “nemico” e proviamo la sensazione di essere in trappola, l’angoscia al pensiero di poter perdere familiari, beni e libertà, la frustrazione di sapere che la nostra vita possa dipendere da un’altra persona, possiamo misurare e analizzare la nostra paura, confrontandola con quella degli altri – popoli e individui – e forse capirla. “Nel corso della nostra esistenza ci interroghiamo continuamente su noi stessi e il mondo che ci circonda, chiedendoci cose del tipo: ‘chi sono io nel corpo e nella mente?’, ‘quali sono i miei valori?’ oppure ‘come mi rapporto agli altri?’”, scrive Giovanni Destro Bisol, docente di Antropologia e Biodiversità umana presso La Sapienza di Roma e promotore, insieme ad altri, di un nuovo Manifesto della diversità e dell’unità umana. “Mentre cerca di tracciare un quadro generale delle somiglianze e differenze tra noi umani, ciascuno di noi sente, prima o poi, la necessità di pensare a se stesso e al suo posto nel grande insieme dell’umanità”.
In questo senso, la pandemia di COVID-19 può portare a ripensare il significato del termine stesso “umanità”. Da un lato, intesa come “il sentimento di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri uomini”: dai canti alla finestra agli hashtag – che per quanto piccoli sono gesti utili a chi non riesce a sopportare la solitudine o ha bisogno di un’azione di conforto da ritrovare nei suoni di cui si riempiono le strade altrimenti silenziose delle città o nelle occasioni di socialità tra vicini, a distanza di sicurezza, sui balconi – alle iniziative per aiutare gli anziani, donare fondi per la ricerca e la costruzione di nuovi posti letto, offrire supporto psicologico e sostegno a coloro per cui stare in casa può rivelarsi davvero un inferno. Paradossalmente ora che siamo forzatamente distanti stiamo riscoprendo il rapporto con gli altri. Vivevamo accelerati, non avevamo mai abbastanza tempo per farlo in modo tanto profondo. Ora che siamo costretti dallo Stato a stare fermi possiamo avere il tempo per pensare.
Dall’altro, nella sua accezione di specie, pensavamo di essere invincibili e di poter dominare su tutte le altre forme di vita, appropriandoci del Pianeta. Abbiamo costruito e visto il mondo ponendo l’uomo come unico metro di misura. E quasi sempre era un uomo bianco, maschio ed eterosessuale che definiva il contesto circostante in termini di utilità e somiglianza. Abbiamo distrutto ecosistemi, portato a rischio estinzione più di un milione di specie, e fatto estinguere tantissime altre, inquinato mari e oceani, sfruttato il riscaldamento globale di cui siamo artefici per trarne ricavi. E come riporta la letteratura scientifica le polveri sottili contribuiscono alla diffusione dei virus, in quanto il particolato atmosferico può fungere da vettore di trasporto di molti contaminati chimici e biologici. È il tempo di ripensare il nostro rapporto con l’ambiente e le altre specie di esseri viventi, tutelando anche la loro salute e quella degli ecosistemi, oltre alla nostra, e di provare a diventare dei “postumani”, come teorizza il filosofo Leonardo Caffo in Fragile umanità: cioè “Una specie che si è evoluta, non nell’aspetto fisico, ma in comportamenti, capacità intellettuali e relazione con l’ambiente: diversi nelle usanze alimentari, nelle relazioni con l’ambiente (ecologisti) e in infiniti altri aspetti, che si si bloccano dove calpestano la vita che non gli appartiene direttamente”.
Ora che ci riscopriamo una parte del tutto, messi in pericolo da un organismo submicroscopico partito dal regno animale che pensavamo di dominare, stiamo assistendo davvero al tanto augurato sfaldamento dell’antropocentrismo. Non siamo più al centro dell’universo, capaci di tutto, ma in periferia, insieme alle altre specie viventi con cui condividiamo la vita e la morte, forse questa ritrovata consapevolezza ci darà la spinta per cambiare la società in meglio, ma non dobbiamo pensare che ciò avverrà senza sforzi, per il solo fatto di aver attraversato una pandemia.