Qualche giorno fa la notizia dell’istituzione in Belgio della figura del knuffelcontact, il “compagno di coccole”, è stata accolta con ironia e cinismo dalla stampa internazionale. Il quotidiano belga in lingua inglese The Brussel Times ha dovuto scrivere un articolo per spiegare che il knuffelcontact non è un funzionario addetto a dispensare grattini, ma semplicemente una persona fra le tue conoscenze autorizzata a frequentare casa tua. Il knuffelcontact però è una misura seria, presa per salvaguardare la salute mentale delle persone durante il lockdown e per ovviare a un problema concreto: la solitudine. Chi ha passato o sta passando una quarantena in solitaria sa benissimo cosa vuol dire non interagire con nessuno che non sia il farmacista o la persona in fila prima di te al supermercato e che per quanto esistano Skype, Zoom o WhatsApp, il contatto umano resta insostituibile. Ma anche stare tutto il giorno in compagnia della stessa persona o di poche altre, di quelli che noi italiani abbiamo più burocraticamente imparato a chiamare “congiunti”, può essere altrettanto soffocante.
La pandemia ha avuto in molti casi un impatto negativo per chi ha una relazione o una famiglia. Alcune persone non hanno visto i propri partner o i propri familiari per mesi, separati dalle restrizioni o per paura di trasformarsi in vettori del contagio per i propri cari. Molti, per precauzione, non sono ancora andati a trovare i loro parenti anziani, mentre chi li ha in casa di riposo spesso non li vede da marzo, dal momento che diverse Rsa hanno preferito sospendere del tutto le visite anziché organizzarle in sicurezza. Chi ha una storia a distanza, poi, ha dovuto sopportare una separazione ancora più lunga del solito, accompagnata dall’incertezza della sua durata. Per la maggior parte delle persone, però, non sembra essere la lontananza il problema, quanto la vicinanza continua e forzata.
I dati sulle relazioni ai tempi della pandemia evidenziano un aumento di attriti e litigi, che in alcuni casi sono degenerati anche in separazioni o addirittura in violenza domestica. Da un sondaggio condotto negli Stati Uniti – che tra l’altro non hanno nemmeno avuto un lockdown generalizzato come l’Italia – dall’Indiana University School of Public Health e dall’Indiana University School of Medicine, risulta che il 34% delle persone in coppia ha visto aumentare i conflitti, con una conseguente diminuzione di baci, abbracci e carezze. Dalla ricerca emerge anche un calo dell’attività sessuale e, al contrario, un aumento della masturbazione solitaria. Tutte queste difficoltà sorgerebbero anche dal repentino cambio dello stile di vita che tutti abbiamo vissuto durante il lockdown che, per molte persone, non è mai tornato a essere quello di prima. In un articolo pubblicato su Nature, le psicologhe cliniche Marieke Dewitte e Lauren Walker e la sessuologa Chantelle Otten spiegano che tra i fattori che più incidono sulla salute mentale delle coppie in questo periodo ci sono la mancanza di privacy dovuta alla convivenza 24 ore su 24, uno stravolgimento del bilanciamento tra lavoro e vita privata, le difficoltà nella gestione del tempo libero. “Quando ci sono meno opportunità di fare attività indipendenti o di passare del tempo separati e quando l’intimità diventa fusione, il desiderio può essere ostacolato perché stare troppo insieme distrugge l’equilibrio tra il bisogno di vicinanza e quello di autonomia e separazione”, spiega Dewitte.
In un momento già di per sé sfibrante dal punto di vista psicologico, queste difficoltà sfociano facilmente nella rottura della coppia. Agli inizi di marzo, quando il coronavirus era ancora associato più a Wuhan che ai Dpcm di Conte, l’Occidente guardava con curiosità al boom di divorzi nella Cina già in lockdown. Per il momento, in Italia non si hanno dati su un aumento di separazioni e probabilmente una misura del fenomeno si avrà solo quando i tempi della giustizia saranno tornati alla normalità. Quel che è certo, però, è che, proprio come in Cina, anche nel nostro Paese sono aumentati i maltrattamenti in famiglia durante il lockdown: nel primo mese di chiusura le richieste di aiuto ai centri antiviolenza erano aumentate del 75% rispetto alla media dell’anno precedente, e tra marzo e giugno, secondo l’Istat, le telefonate al numero di emergenza 1522 sono più che raddoppiate. Con i bambini a casa, peraltro, è aumentato di conseguenza anche il fenomeno della violenza assistita, come denuncia Save the Children.
In generale, a quanto risulta da una ricerca condotta dall’Università Bicocca nell’ambito dello studio europeo Digitised Education Of Parents For Children Protection, l’aggressività nelle famiglie sembra essere aumentata. Un’indagine dell’Università Cattolica di Milano, sostiene che nel 60% dei nuclei famigliari ci sono alti livelli di stress, aggravati anche dall’impossibilità di chiedere aiuti esterni come quelli di nonni e baby sitter. “Le famiglie con figli piccoli hanno livelli di benessere psicologico decisamente inferiori alle altre”, spiega Rosa Rosnati, ordinaria di psicologia sociale dell’ateneo. Dalla ricerca emergono due fattori importanti: da un lato chi ha bambini piccoli si sente maggiormente “in gabbia”, ma è riuscito anche a trasformare questo periodo in un’opportunità per svolgere nuove attività con i propri figli; dall’altro chi ha figli adolescenti ha fatto più fatica ad avvicinarsi a loro e ha vissuto più conflitti e litigi. Secondo Rosnati, ciò è anche dovuto al fatto che i ragazzi, pur essendo più autonomi, risentono maggiormente dell’isolamento e delle difficoltà nella socializzazione, e per questo preferiscono la compagnia dei social, che escludono ulteriormente i genitori.
Un altro dato interessante legato a queste ricerche è che a rispondere sono soprattutto le donne. A un sondaggio sugli effetti del lockdown della Bicocca rivolto a 7mila nuclei familiari hanno risposto nel 94% dei casi le madri. “Già questo la dice lunga sul fatto che la cura dei figli in Italia sia ancora completamente femminile”, ha commentato la responsabile della ricerca Giulia Pastori ad Agi. Proprio da questa ricerca, pubblicata ad agosto, risultava che una mamma su tre stava pensando di lasciare il lavoro se la didattica a distanza fosse continuata anche a settembre. Non sappiamo ancora se ci sia stato a tutti gli effetti un aumento delle dimissioni, ma è comunque significativo il senso di rassegnazione che emerge da questi dati. Stiamo pur sempre parlando del Paese con il più alto tasso di disoccupazione femminile in Europa, dove solo il 31% delle donne ha un lavoro a tempo indeterminato, contro la media europea del 41,5%.
Non possiamo pensare che questi cambiamenti nelle relazioni e nelle famiglie siano del tutto indipendenti dalle condizioni di partenza. Quando il Dpcm del 26 aprile 2020 aprì alla possibilità di vedere i propri congiunti (ma anche, chiarì poi la ministra dei Trasporti De Micheli, gli “affetti stabili”) fu chiaro a tutti come la società italiana fosse ancora basata sulla precedenza della famiglia nucleare e del matrimonio su altri tipi di relazione. Mentre in Nuova Zelanda ci si attrezzava con l’istituzione delle bolle (una cerchia ristretta di persone che era possibile frequentare) – un’iniziativa adottata anche dalla Gran Bretagna – da noi contava più lo stato di famiglia che la possibilità di vedere chi davvero per noi rappresentava una persona cara.
Anche all’interno delle famiglie stesse vediamo quanto ancora persista una visione tradizionale della famiglia e manchi una cultura della condivisione del lavoro di cura, della divisione dei compiti e del carico mentale, che ricade in maniera gravosa sulle donne. Spesso, e a ragione, si è rimarcato che l’idea che siano le donne a doversi occupare in maniera quasi esclusiva della gestione della casa e della crescita dei figli fosse favorita da un welfare ormai inceppato: le donne non sanno a chi lasciare i figli, perché gli asili nido non ci sono e i baby sitter sono un lusso che non ci si può permettere, e così rinunciano al lavoro perché in media guadagnano meno dei mariti. Durante il lockdown entrambi i genitori erano a casa, eppure il lavoro di cura continuava a essere svolto in prevalenza dalle donne. Allora è evidente che il problema è culturale, oltre che sociale ed economico, ed è a monte. Lo dimostra anche il fatto che ad agosto il 67% delle donne intervistate dalla Bicocca continuava a lavorare in smart working. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che le donne sono impiegate in settori che si prestano meglio al lavoro agile, ma non è da escludere che lo abbiano fatto per occuparsi più agevolmente dei figli, in una situazione sicuramente più favorevole rispetto alla primavera, ma non priva di rischi.
In questa situazione, il benessere psicologico dell’individuo passa in secondo piano. Nell’impossibilità di stare bene da soli – o anche, più banalmente, di stare soli – è chiaro che stare bene con gli altri è ancora più difficile. Sembrerà retorica, ma in un momento di grande difficoltà collettiva e di ostacoli oggettivi che non dipendono dalla nostra volontà, basterebbe riflettere proprio su quel lavoro di cura che è necessario per evitare il collasso di quella istituzione che tutti dicono di voler proteggere: la famiglia.
In copertina, still frame dal film Carnage di Roman Polanski (2011), fonte Jamovie.