In questo periodo di messa in discussione delle nostre coordinate sociali ed esistenziali, di incertezza per il futuro e paura per il presente, da cui è difficile estrapolare risposte, molti si sforzano di contribuire a un clima di serenità – a differenza di quanto hanno fatto sistematicamente i media – anche per arginare l’aumento di esordi psicotici e l’aggravarsi di diverse condizioni di disagio. Tantissime persone danno un loro contributo, anche per distrarsi a loro volta e sentirsi utili. Ognuno cerca di ridisegnarsi un ruolo nello scenario del lockdown, e così come a un certo punto sono diventati tutti medici, biologi, statistici e giornalisti, c’è stata l’esplosione degli psicologi prêt-à-porter, veri e propri dispenser social di pillole new age.
Questa serenità forzata mi fa sentire simile alle vacche di kobe che prima di essere macellate vengono massaggiate. Una parte di me sospetta anche che questa narrazione rientri in quella retorica sempre più messa in discussione della positività tossica, che nega qualsiasi emozione negativa. Ma capisco che in presenza di situazioni patologiche o sul confine della patologia, disinnescare il panico generato dalla probabilità statistica della morte (e non solo) sia già molto. Gli altri, però, dovrebbero ricordarsi che la morte è in fondo il nostro destino, e che prima o poi dovremo farci i conti. D’altronde, la filosofia antica, quando la vita non era un diritto e non ci si poteva accanire per mantenerla, suggeriva di imparare a morire un po’ ogni giorno.
Scrittori e poeti hanno raccolto in particolar modo questa chiamata, e non si sono risparmiati dal dire la loro. Nella maggior parte dei casi lo hanno fatto con la presunzione di aver capito il mondo, solo che forse hanno capito un mondo che non esiste più. D’altronde, per parlare del contemporaneo è inevitabile usare schemi del passato, è proprio qui che risiede la sfida: Cassandra parla di cose nuove con parole nuove, che nessuno può capire. Sembra però che i narratori italiani non riescano più a raccontare il presente, perché gli strumenti di cui si servono risultano ormai inadeguati. Messi di fronte all’assurdo camusiano della peste, sembrano ripercorrere le filosofie esistenzialiste che sfociano nella “speranza forzata”.
Ne Il mito di Sisifo, è lo stesso Albert Camus a descrivere questo fenomeno che oggi ci si ripropone inalterato. Come fa infatti notare, rispetto al pensiero del filosofo e psichiatra Karl Jaspers, questi tentativi sottintendono l’impotenza di realizzare il trascendente in un universo chiuso e limitato all’umano. Incapaci di scandagliare la profondità dell’esperienza e coscienti di un universo sconvolto dalla sconfitta, non riescono a progredire e nell’esperienza non trovano altro che la confessione della propria stessa impotenza: a quel punto, e senza alcuna giustificazione, affermano il trascendente. La sconfitta così non mostra il nulla, ma l’essere stesso della trascendenza. Questo essere che spiega tutto è però un atto cieco della fiducia umana. “In questo modo l’assurdo diventa dio (nel senso più lato della parola), e l’impotenza a comprendere, l’essere che tutto illumina”. La passione che viene posta in questa affermazione di trascendenza è proporzionale alla divergenza fra il suo potere di spiegazione e l’irrazionalità del mondo e dell’esperienza.
Queste derive affondano le radici nel pensiero mistico, di cui anche la nostra cultura pop è involontariamente intrisa, e sono tutte posizioni legittime, se consapevoli. Sforzarsi di dare un significato morale al virus per trovare una consolazione può però risultare scorretto e controproducente, oltre a rientrare in una visione oscurantista e vendicativa da Antico testamento. Da qui a promettere alla Madonna, ai Santi o alla riscoperta divinità pagana del momento di costruire templi una volta che avranno arrestato la pandemia il passo concettuale è breve.
Non dovremmo farci accecare né dalla retorica della morte, né da quella della positività, che fa capo a quella della fede e del sacro, in un’atavica quanto impossibile ricerca di intenzione e direzione, di un senso “superiore” del reale, come molti umanisti hanno suggerito. L’uomo lo fa da sempre, è un potente strumento di sopravvivenza. È una scelta lecita, basta però essere coscienti di entrare nel dominio della religione, e del fatto che quest’ultima possa trasformarsi facilmente in “religio”, intesa come ottenebramento delle capacità critico-razionali. E se è vero che non può esistere uno sguardo puro sulle cose, credo che in questa occasione bisognerebbe almeno provare a guardarle quelle cose, invece di distrarci sistematicamente dalla questione, come unica strategia per riuscire a sopportarla e attraversarla. Questa realtà ovattata, che trasporta la prevenzione igienica dal virus a una sorta di protezione acritica dell’Io, rischia di non farci essere presenti in un momento che richiederebbe invece tutta la nostra attenzione.
Non a caso la religione, fin dai tempi dell’Impero romano, era considerata “instrumentum regni”, uno strumento per tenere unito lo Stato e coeso il suo popolo. In antichità, però, gli uomini si appellavano alla fede perché spesso non potevano darsi altre risposte: oggi le cose sono molto diverse e forse vale la pena fare un altro tentativo. Se chiudiamo gli occhi i problemi non smettono di esistere, quindi meglio tenerli aperti. È stata invece imbastita in breve tempo una corrente di pensiero new age che porta a un abbandono acritico, a una fiducia cieca in un senso più alto delle cose, che parte dall’assunto che questo senso sia buono e giusto, così come l’essere umano. Una sorta di quella che Camus ne L’uomo in rivolta chiamava “la religione della virtù” e che poi sfocia nell’autonarrazione eroica dello stare a casa in pigiama per non diffondere il contagio, agendo così per il sommo bene – anche se poi si denunciano quelli che escono col cane. Il nostro ruolo per il bene comune si esaurisce in questo.
Scriviamo ovunque che “Andrà tutto bene” ma gli eventi sembrano suggerirci il contrario. Dopo una grave crisi infatti è la storia la prima a insegnarci che per i popoli è facile cadere in una voragine di odio, frustrazione, risentimento. E se pensare che essa si sviluppi in modo ragionevole è irragionevole, è vero che però tende a ripetersi. L’aver attraversato un conflitto, la povertà o l’essere stati di fronte alla morte non basta a rendere una persona più consapevole. La consapevolezza va costruita, con fatica e costanza e a volte sofferenza. Perché essere consapevoli significa essere pronti a ricostruire la propria percezione del sé, in modo da farla aderire a una nuova verità, essere pronti a fare i conti con le proprie macerie, morire e rinascere.
Su WhatsApp tra le centinaia di bufale, circolano anche messaggi di sedicenti santoni che sostengono che il virus ci porterà a una società più evoluta spiritualmente, illuminata, a cui si apriranno portali dimensionali. Si rientra qui nella classica narrazione suprematista nazi-fascista, oggi ripresa dall’estrema destra americana, che parla appunto di un popolo spiritualmente superiore e che quindi mina alle fondamenta il concetto stesso di democrazia, sancendo l’esistenza di un’umanità di serie A e una di serie B. Ma a ben vedere questo è ciò che oggi dicono anche tanti intellettuali di sinistra, pur usando altre parole. Questa è una favola bella che ci stiamo raccontando. Tutto dipende da cosa saremo in grado di trarre. L’evoluzione non sarà certo immediata. Questa esperienza non ci renderà migliori per il solo fatto di averla vissuta, ma possiamo impegnarci affinché lo faccia. E il fatto che forse miglioreremo come umanità, seguirà comunque al vedere il nostro universo distrutto (sotto diversi punti di vista), e alla necessità di ridare una forma a questi resti, ricostruirli, come scriveva Alberto Savinio in Ascolto il tuo cuore città.
Non basta la crisi per ottenere il cambiamento, ce lo insegna la rivoluzione francese; così come la prima e la seconda guerra mondiale: pur avendo portato al sovvertimento non solo dell’ordine costituito ma dell’umano, non hanno migliorato la società, così come non l’ha migliorata il crollo economico del ’29. Basti pensare a quanto sia ancora necessario ricordare la tragedia e l’esistenza storica dei campi di sterminio, i quali non facevano certo “migliorare” spiritualmente gli individui che c’erano rinchiusi. Come racconta Primo Levi, il Lager tirava fuori il peggio dall’essere umano, fino a farlo diventare “inumano”. Per evitarlo alcuni attingevano ai loro strumenti interiori, ne è un esempio Etty Hillesum, la cui lucida visione della realtà la portò a un profondo percorso di analisi e infine a una distruzione dell’ego per certi versi mistica – non viceversa, come molti ci invitano a fare oggi. Lo “scandalo della bontà” di Hillesum è qualcosa di profondamente diverso da questa anestesia buonista. L’atto di fede, se per alcuni può essere molto utile, non può essere una risposta sociale.
Stendere una coltre di formule create ad hoc per consolare un popolo, che prima è stato terrorizzato sistematicamente attraverso gli organi di stampa e informazioni istituzionali confuse – che non hanno fatto che contribuire ad alimentare lo stato d’ansia e di incertezza – per non parlare della diffusione delle fake news, può avere effetti collaterali non trascurabili. Rischia infatti di farci perdere completamente di vista i problemi che ruotano intorno alla pandemia e che per certi versi hanno contribuito a generarla, diffonderla e aggravarne le conseguenze, facendoci trovare impreparati quando sarà terminata l’emergenza. Non reggere il confronto con questa realtà significa accettare di restare in uno stato di minorità, tipico della me generation, delegando allo Stato la responsabilità e con essa i nostri diritti. Dobbiamo crescere come comunità ed essere pronti a rinunciare al racconto di storie rassicuranti, farci carico della nostra preoccupazione e usarla come stimolo per riflettere criticamente sul reale, studiare la situazione e discernere le informazioni, solo così riusciremo a costruire una nuova visione, una nostra ontologia e una nostra etica, che ci permettano una buona volta di agire responsabilmente e non per sentito dire, influenzati dalla retorica di qualcun altro, succubi delle dinamiche di controllo ed esclusione del linguaggio dei poteri.
Nonostante tutto è vero che le credenze possano fare da collante per la popolazione e la nazione, e che in particolare il cristianesimo abbia contribuito a fondare la stessa democrazia statunitense, poi esportata in Europa. Nelle prime pagine della Democrazia in America, Alexis de Tocqueville scrive infatti che “il Cristianesimo, che ha reso tutti gli uomini uguali davanti a Dio, non avrà ripugnanza di vedere tutti i cittadini uguali di fronte alla legge”. Se la rivoluzione francese aveva infatti sovvertito il vecchio regime lasciando una tabula rasa, la democrazia americana invece si affermò proprio grazie al suo essere “provvidenziale”. Nel frattempo però c’è stato il nichilismo attivo di Friedrich Nietzsche, che promuoveva l’accelerazione del processo di distruzione degli ideali tradizionali per rendere possibile l’affermazione di nuovi valori. Eppure questi nuovi valori non si sono mai manifestati, a meno di non voler considerare quello del profitto come unico protagonista.
In questi giorni sembra piuttosto di assistere a un ritorno al vecchio fondamento del valore, mai eradicato a ben vedere dal nostro inconscio e dalla nostra formazione da nessuna corrente di pensiero, per quanto nota. Così sembra che il nostro spirito collettivo riconosca un determinato orizzonte di valore, così come le nostre orecchie una tonalità maggiore da una minore. Tutti parlano di crisi dei valori tanto che ormai è diventata una sorta di formula simile a “Piove governo ladro”, e spesso se ne ignora la reale portata. Se Dio è morto però – come ha detto Nietzsche e ci ha ricordato Guccini – anche se in qualche modo bisogna pur vivere, questi valori possono davvero tornare ad avere un significato? Non sapendo cosa rispondere alla domanda “Che fare?”, avendo perso l’esercizio raziocinante per tentare anche solo di trovare una risposta, di questi tempi sembra che preferiamo rifugiarci come Jaspers nelle braccia della fede, della religione, del trascendentale.
L’instancabile ricerca di senso è il dono della nostra specie, il raccontare e il raccontarci storie. Il senso che diamo alle cose, però, non è il senso delle cose. Anche le narrazioni sono strumenti, dipende da come le si usa. Puoi essere Dante o Goebbels. Il linguaggio non è neutro, e men che meno aprioristicamente “buono”, per questo va usato con rigore, anche quando si fa letteratura. Altrimenti ci porta dove vuole, e non ci fa uscire dai nostri pattern, dai nostri bias, dalle nostre abitudini mentali, cosa che invece avrebbe la capacità di fare. Anche le parole apparentemente buone in un sistema corrotto risultano false, anche per questo è fondamentale uscire dallo stato di analfabetismo funzionale e riappropriarci della capacità di analisi della cosa detta.
La crisi va osservata e analizzata in quanto manifestazione dell’assurdo, se continueremo a volerle dare un senso altro e a narrarla nel modo che ci è più comodo per non mettere in discussione la nostra coscienza (singola e collettiva), non riusciremo a sfruttarla come occasione per evolverci in quanto corpo sociale. D’altronde come scrisse Camus nei suoi quaderni: “La peste dimostra che l’assurdo non insegna nulla”. E così ha risposto Massimo Cacciari quando Gruber su La7 gli ha chiesto cosa possiamo imparare da questi giorni e cosa ha imparato su se stesso. Nulla. D’altronde viviamo in un contesto culturale in cui il nichilismo è qualcosa che viene guardato con profondo sospetto (tanto che spesso lo si sente usare come fosse un’offesa), il laico e razionale occidente è d’altronde ancora profondamente intriso di cristianesimo. Dopo le reazioni alla scenografica e ben costruita omelia del Papa per la preghiera straordinaria in una Piazza San Pietro deserta, che invitava a un ritorno alla conversione e che infatti ha fatto breccia nell’animo di tanti atei, è evidente che le persone vogliano affidarsi a un altro tipo di risposte, e che tra tutte le laiche credenze comuni, che nei secoli scorsi facevano da collante della comunità, davanti alla crisi la risposta che diamo oggi sia ancora una volta nel solco della fede. Ma come lo stesso Nietzsche ci ricorda in Al di là del bene e del male: “Fintantoché continuerai a sentire le stelle come un ‘di sopra a te’, ti mancherà sempre lo sguardo dell’uomo della conoscenza”.