Il 7 maggio, a due mesi quasi esatti dall’entrata in vigore dello storico decreto che rese l’intera regione Lombardia una zona rossa, la fondazione Gimbe, istituto indipendente che si occupa di sanità, ha pubblicato un rapporto su quella che ha definito la “Giungla dei tamponi” nel nostro Paese. L’analisi si apre con una domanda, parafrasabile in questo modo: non è che alcune Regioni stanno lesinando sui test perché temono che numeri troppo alti facciano scattare un nuovo, costoso lockdown?
Il dubbio sorge perché, nonostante settimane di raccomandazioni da parte della comunità scientifica, dell’Organizzazione mondiale della sanità, e dello stesso ministero della Salute, in Italia continuiamo a non avere un quadro chiaro dell’andamento epidemiologico della COVID-19. Se da un lato è vero che abbiamo fatto da apripista per il resto dell’Occidente, è altrettanto vero che ormai questa scusa non regge più. Sebbene quello del confronto con altri Paesi sia un terreno accidentato, è ormai innegabile che l’insufficienza di test in Italia sia tra i principali fattori di incertezza sullo stato dell’arte, un freno verso la riapertura e anche il motivo per cui abbiamo un tasso di letalità così alto. Studi scientifici hanno persino stabilito un legame di proporzionalità inversa tra la mortalità (il numero di morti per milione di abitanti in un dato periodo di tempo) e il numero di tamponi effettuati. Logicamente, più test si fanno più sarà facile identificare e isolare i positivi, riducendo la possibilità che questi contagino altre persone e quindi anche quella che vi siano nuove vittime. Inoltre, facendo più test si aumenta anche la possibilità di rilevare in anticipo la malattia, seguendo lo stesso concetto che è valido per la prevenzione dei tumori o di altre patologie.
Non è un caso se, tra gli Stati che fin da subito hanno ricevuto il plauso della comunità internazionale, c’è la Corea del Sud, che ha elaborato sin da subito un metodo di monitoraggio veloce, efficace e applicabile su larga scala con il drive thru. Non è nemmeno un caso se, ora che la Cina sta affrontando la seconda ondata di contagi, ha annunciato di voler testare in pochi giorni tutti gli 11 milioni di residenti della città di Wuhan, il primo focolaio mondiale noto, dove recentemente sono stati registrati nuovi casi.
A fine aprile, il commissario Domenico Arcuri, nominato dal governo per gestire la pandemia, aveva dichiarato alla stampa che l’Italia era il Paese che effettuava più tamponi al mondo. La fondazione Hume, centro di ricerca indipendente e ufficio studi di La Stampa e Sole24Ore, aveva già allora smentito questa affermazione, inquadrandoci addirittura nell’ultima categoria di una classificazione che va da 1 (gli Stati che fanno più tamponi) a 5 (quelli che ne fanno meno). Bisogna infatti considerare due fattori: prima di tutto, il fatto che l’anzianità epidemica nel nostro Paese è maggiore rispetto a quella di molti altri, perché i primi focolai sono stati individuati diverse settimane prima rispetto ai nostri vicini europei, e quindi abbiamo iniziato in anticipo a testare in maniera estensiva. In secondo luogo, è importante capire la differenza tra tamponi diagnostici e tamponi di controllo. I primi sono quelli che vengono effettuati per confermare o smentire la presenza del virus nei pazienti con sintomi sospetti, o che hanno avuto contatti con altri positivi. I secondi sono somministrati a chi è già risultato positivo in passato, solo per attestarne l’eventuale guarigione. Quindi, il numero comunicato quotidianamente dalla Protezione civile non corrisponde al numero di persone testate: per trovare questa cifra dobbiamo sottrarre ai tamponi totali il numero dei tamponi controllo. Da questo punto di vista, dunque, le cifre offerte dal governo vengono di molto ridimensionate. Dall’inizio dell’epidemia, infatti, sono stati effettuati circa 2 milioni e 300mila tamponi, di cui il 67% diagnostici e il 33% di controllo.
Due settimane dopo le dichiarazioni di Arcuri, anche i dati di Gimbe dipingono una situazione diversa da quella presentata dal commissario. Nel periodo tra il 22 aprile e il 6 maggio 2020, in Italia sono stati effettuati in media 88 test al giorno ogni 100mila abitanti, a cui vanno sottratti circa un terzo di tamponi di controllo. Tolti questi, la media nazionale giornaliera di test scende a 59 ogni 100mila abitanti (circa 35mila tamponi diagnostici al giorno, in media): una cifra davvero troppo bassa, specialmente in vista della riapertura generale del Paese prevista per il 18 maggio.
Il dato che stupisce di più, tuttavia, è quello che riguarda l’incoerenza tra il numero di tamponi e la gravità effettiva dell’epidemia sul territorio. Sulla base della stessa categorizzazione utilizzata dalla Fondazione Hume per mettere a confronto la propensione a testare dei vari Paesi del mondo, Gimbe ha suddiviso le Regioni italiane in 4 classi, partendo da una soglia minima consigliata di 250 test al giorno ogni 100mila abitanti. Alla prima classe, ovvero quella che supera la soglia minima, non arriva nessuno; le province autonome di Trento e Bolzano, la Valle d’Aosta, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia appartengono alla seconda, con un numero tra i 130 e i 250 tamponi quotidiani; il Piemonte, l’Emilia Romagna, l’Umbria e la Liguria ne effettuano tra i 100 e i 129; la Lombardia, le Marche, la Basilicata, la Toscana, il Molise, l’Abruzzo e il Lazio tra i 60 e i 99; la Sardegna, la Calabria, la Campania, la Sicilia e la Puglia ne fanno meno di 60 al giorno ogni 100mila abitanti. Anche a queste cifre è necessario togliere i test di controllo. Come scrive la stessa Fondazione, “I dati confermano la resistenza di alcune Regioni ad estendere massivamente il numero di tamponi, in contrasto con le raccomandazioni internazionali, le evidenze scientifiche e la disponibilità di reagenti”.
Stupisce in particolar modo la Lombardia, che è stata sin dall’inizio il territorio con i numeri più preoccupanti. Per settimane l’amministrazione ha sostenuto di essere perfettamente in linea con le indicazioni dell’Istituto superiore di sanità, che chiede di testare chiunque abbia febbre, tosse e difficoltà respiratorie, oltre a chi proviene da zone a rischio o chi è stato a contatto con persone positive o probabilmente positive. Accusato già a fine marzo da più parti di non monitorare adeguatamente l’andamento dell’epidemia, il governatore Attilio Fontana aveva parlato di illazioni “vergognose”. Tuttavia, diverse testimonianze raccolte nel corso delle settimane dalla stampa, comprese le denunce dei sindaci di Bergamo e Nembro, sembrano confermare il contrario: molte persone in Lombardia, sebbene presentino sintomi acuti, non sono state sottoposte a tampone. Molte sono morte in casa senza sapere nemmeno perché.
In un lungo articolo Il Post ha cercato di ricostruire perché, e ha individuato tre ragioni principali: ci sono state, specialmente nelle prime settimane, grosse difficoltà ad allargare la rete di laboratori certificati, nell’analisi dei tamponi, nell’approvvigionamento dei reagenti chimici necessari e, in molti casi, anche il personale formato e i macchinari necessari. Di fronte a queste problematiche, che sussistono anche oggi seppur in maniera ridotta rispetto all’inizio, le strade potrebbero essere due. La prima, più ovvia ma complessa, è quella di aumentare considerevolmente il numero di laboratori certificati, anche attraverso la creazione di cliniche “volanti”, come ipotizzato dal Ministero, e reperire quanti più reagenti e macchinari possibile. Il commissario Arcuri ha richiesto alle aziende italiane e internazionali reagenti validi per condurre circa 5 milioni di tamponi, ma il problema è che in questi due mesi le Regioni hanno agito in maniera piuttosto indipendente, per non dire del tutto anarchica. Il risultato è che ora, come ha spiegato la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa, ognuna utilizza i reagenti e i macchinari che vuole, rendendo molto complicato un approvvigionamento centralizzato.
La seconda soluzione potrebbe essere quella di utilizzare entrambe le strategie di monitoraggio oggi a disposizione: i tamponi e i test sierologici. Questi ultimi sono molto dibattuti, perché il loro funzionamento si basa su un aspetto che ancora genera forti dubbi tra la comunità scientifica: gli anticorpi. In pratica, il test sierologico è una semplice analisi del sangue, (tanto che è chiamato anche “pungidito”), che va a cercare gli anticorpi sviluppati contro la COVID-19 nell’organismo del paziente. Questo dovrebbe servire a verificare se la persona testata è entrata in contatto con il virus, ma non basta per sapere se è attualmente positiva o potenzialmente contagiosa. A questo punto, però, potrebbe intervenire il tampone: l’idea, sostenuta anche dal professor Massimo Galli, infettivologo del Sacco di Milano, è quella di condurre test sierologici a tappeto, per poi somministrare il tampone solamente a chi ha gli anticorpi. Questo potrebbe facilitare le cose, perché i “pungidito” sono molto più veloci, meno costosi, richiedono meno risorse e sono più facili da reperire.
Secondo le dichiarazioni del governo, il 18 maggio dovrebbe partire una campagna gestita da Istat e dal ministero della Salute che fino alla fine del mese si occuperà di sottoporre a test sierologico 150mila cittadini a campione grazie a 550 operatori e volontari della Croce Rossa. Solo coloro che hanno gli anticorpi verranno sottoposti a tampone. “Se supponiamo che un terzo del campione nazionale risulti positivo, si tratta infatti di 50mila tamponi da eseguire; ma anche se per assurdo l’intero campione risultasse positivo, non sarebbe un problema insormontabile fare 150mila tamponi in questa fase,” ha spiegato Luigi Lopalco, epidemiologo.
La campagna, come detto, sarà nazionale, ma si concentrerà sulla regione più colpita, la Lombardia che da sola rappresenterà più del 13% del campione (20mila persone). Una soluzione parziale, ma comunque una soluzione. Non si può dire lo stesso di quanto escogitato negli uffici milanesi della Regione. Qui non esiste un piano di monitoraggio a step a gestione pubblica e l’amministrazione si limiterà a scaricare responsabilità e oneri sui cittadini – e lo farà con settimane di ritardo. Questo perché al Pirellone non credono nel test degli anticorpi che, dicono, “riveste scarso significato e può contribuire a creare false aspettative e comportamenti potenzialmente a rischio”. Non ci credono, però ti invitano a farlo. A pagamento. Di tasca tua.
La giunta ha deliberato che i test sierologici al di fuori del programma pubblico (che prevede test sugli operatori sanitari, i contatti dei casi sintomatici e i pazienti con sintomi sospetti) potranno essere effettuati a pagamento da laboratori pubblici e privati specializzati. Non hanno nemmeno stabilito una tariffa di riferimento per il sierologico, il che lascia immaginare uno scenario tipo quello che abbiamo visto con le mascherine e l’amuchina, vendute a prezzi che rasentano la speculazione. In sostanza, vogliono tornare a indossare la spilletta di locomotiva d’Italia, ma la responsabilità di tornare sul posto di lavoro la lasciano a lavoratori e imprenditori, che se vogliono essere certi di lavorare in sicurezza, dovranno occuparsi di tutto, dall’acquisizione dei test ai contatti con i laboratori per le analisi. Dovranno persino acquistare preventivamente un numero di tamponi pari al 10% del personale che desidera sottoporre allo screening, alla modica cifra di 62,89 euro cadauno.
Prima di queste linee guida Paolo Ferraresi, imprenditore lombardo che aveva iniziato ad acquistare test sierologici non riconosciuti dalla Regione, per somministrarli ai propri dipendenti e prepararsi a riaprire con maggiore tranquillità, ha denunciato a Fanpage di aver ricevuto telefonate minacciose da parte di un medico di ATS. Gli è stato detto che stava violando lo statuto dei lavoratori e che se non avesse smesso sarebbe stato subissato di controlli. L’ipotesi che avanza il dottor Paolo Collivadino, che da libero professionista somministrava i test ai dipendenti delle aziende che ne facevano richiesta, è che al Pirellone progettavano di affidarsi alla multinazionale DiaSorin e a un test messo a punto dal San Matteo di Pavia. Secondo Collivadino anche altri imprenditori hanno ricevuto telefonate simili. Ciò che è certo, però, è che la Regione aveva promesso 20mila test al giorno, ma ne fa appena 2mila.
In base alle ultime novità, mi viene da pensare che Attilio Fontana e Boris Johnson, il leader europeo che probabilmente ha gestito la pandemia peggio di tutti, si troverebbero molto simpatici. Il comico britannico Matt Lucas ha realizzato un video in cui imita il premier e cerca di riassumere lo stato di confusione che ha generato il suo ultimo discorso alla nazione tra il popolo britannico: “Quindi, vi chiediamo di non andare a lavoro, però andateci. Non prendete i mezzi pubblici, ma andate a lavoro, cioè, non andate a lavoro. State a casa e, se non potete lavorare da casa, andate a lavoro, però non andateci. Potete uscire, ma non fatelo. E noi faremo, o non faremo, qualcosa a riguardo”.
Così mi immagino il Fontana disegnato da Zerocalcare, affiancato dal fedele Giulio Gallera, che vanno in giro sul triciclo di Saw, ripetendo alla gente: “Servono più test, però noi non ve li forniamo, però fateli. Fate il sierologico, che non serve a niente, però se volete tornare a lavoro in sicurezza ve lo dovete pagare. Riapriamo, ripartiamo, siamo i più fighi. Però facciamolo a vostro rischio e pericolo. E pure a pagamento. E se non fate quello che vi diciamo noi, vi mandiamo i controlli tutti i giorni. Però riaprite”.